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Nel 2017 si prevede un aumento del prodotto interno lordo (Pil) italiano pari allo 0,8% in termini reali, cui seguirebbe una crescita dello 0,9% nel 2018.
In entrambi gli anni, la domanda interna al netto delle scorte contribuirebbe in misura significativa alla crescita del Pil: 1,2 punti percentuali nel 2017 e 1,1 punti percentuali nel 2018; la domanda estera netta e la variazione delle scorte fornirebbero un contributo lievemente negativo.
Nel 2017 la spesa per consumi delle famiglie in termini reali è stimata in aumento dell'1,2%, alimentata dall'incremento del reddito disponibile e dal miglioramento delle condizioni del mercato del lavoro. La crescita della spesa proseguirebbe ad un ritmo analogo nel 2018 (+1,1%).
Nell'anno in corso si prevede un rafforzamento degli investimenti (+2,0%) e una successiva accelerazione nel 2018 (+2,7%). Oltre che al miglioramento delle attese sulla crescita dell'economia e sulle condizioni del mercato del credito, gli investimenti beneficerebbero delle misure di politica fiscale a supporto delle imprese.
L'occupazione aumenterebbe nel 2017 (+0,9% in termini di unità di lavoro) congiuntamente a una riduzione del tasso di disoccupazione (11,5%). I miglioramenti sul mercato del lavoro proseguirebbero anche nel 2018 ma a ritmi più contenuti: le unità di lavoro sono previste in aumento dello 0,6% e la disoccupazione si attesterebbe all'11,3%.
Una ripresa più accentuata del processo di accumulazione del capitale potrebbe rappresentare un ulteriore stimolo alla crescita economica nel 2018. Tuttavia le incertezze legate al riaccendersi delle tensioni sui mercati finanziari potrebbero condizionare il percorso di crescita delineato. Le previsioni incorporano le misure descritte nel disegno di legge sul Bilancio di previsione dello Stato.
Secondo l’Indagine sulle Forze Lavoro di Eurostat, a fine 2015, escludendo il settore agricolo, i lavoratori autonomi stranieri nell’Ue-28 sono aumentati del 52,6% rispetto a dieci anni prima (e de 53,7% in Italia), e rappresentano il 6,3% di tutti gli autonomi complessivamente attivi nell’Ue. In Italia i non comunitari rappresentano la maggioranza (69,9%). Un sesto di essi ha dei lavoratori alle dipendenze (15,8% vs una media del 25,7%).
Sono più di 550mila le aziende a guida immigrata registrate in Italia alla fine del 2015, il 9,1% del totale, e producono 96 miliardi di euro di valore aggiunto, il 6,7% della ricchezza complessiva.
Tra il 2011 e il 2015 sono aumentate di oltre il 21% (+97mila), mentre nello stesso periodo il numero delle imprese registrate nel Paese ha fatto rilevare un calo complessivo dello 0,9%.
È netto il protagonismo delle ditte individuali: 8 casi su 10 (79,9% vs il 50,9% delle imprese guidate da nati in Italia). Le imprese a gestione immigrata, quindi, rappresentano quasi un settimo di tutte le ditte individuali del Paese (13,6%) e meno di un ventesimo delle società di capitale (4,1%).
Il commercio, in continuo aumento, rappresenta il principale ambito di attività (200mila aziende, 36,4% vs il 24,5% delle imprese a guida autoctona); segue, seppure fortemente provata dalla crisi, l’edilizia (129mila, 23,4% vs 13,1%). Notevole è anche il comparto manifatturiero (oltre 43mila aziende, 9%), caratterizzato come l’edilizia da una forte dimensione artigiana. Sono artigiane, infatti, oltre 4 imprese edili immigrate su 5 (83,2%) e oltre 2 su 3 di quelle manifatturiere (68,4%). Proprio nell’edilizia e nella manifattura, infatti, si concentrano i tre quarti (76,0%) delle aziende immigrate artigiane (180mila in tutto). Ma cresce soprattutto la partecipazione nei servizi. Dai dati di Unioncamere risulta che alla già consolidata presenza immigrata tra imbianchini e carpentieri o nel trasporto merci e nella confezione di abbigliamento, si affianca una crescente partecipazione alle aziende (per lo più individuali) che nella sartoria, nel giardinaggio, nelle pulizie, come pure nella panetteria o nella ristorazione take away.
Più in generale, si affermano le attività di alloggio e ristorazione (41mila, 7,5%) e i servizi alle imprese (29mila, 5,3%).
I dati Sixtema/Cna sui responsabili di imprese individuali confermano il protagonismo di specifici gruppi nazionali. I più numerosi sono i marocchini (14,9%), seguiti da cinesi (11,1%) e romeni (10,8%) e, quindi, da albanesi (7,0%), bangladesi (6,5%) e senegalesi (4,4%): sei collettività che, da sole, ne raccolgono più della metà del totale (54,7%).
Ciascun gruppo si concentra in peculiari comparti di attività: il commercio nel caso di marocchini, bangladesi e soprattutto senegalesi (attivi in questo ambito rispettivamente per il 73,3%, il 66,8% e l’89,2% del totale); l’edilizia per i romeni (64,4%) e gli albanesi (74,0%); il commercio (39,9%), la manifattura (34,9%) e le attività di alloggio e ristorazione (12,9%) nel caso dei cinesi, che mostrano insieme a un’accentuata vocazione imprenditoriale, una maggiore diversificazione degli ambiti di attività in cui, nel tempo, tale capacità si è distinta e radicata. Ne consegue che sono cinesi la metà di tutti gli immigrati responsabili di ditte individuali manifatturiere (49,3%), come pure un quarto di quelli dediti al comparto ristorativo-alberghiero (25,0%). Quasi la metà di quelli attivi in edilizia, invece, sono romeni (27,1%) o albanesi (20,1%); e quasi 3 su 5 di coloro che operano nel commercio sono marocchini (26,7%), cinesi (10,9%), bangladesi (10,7%) o senegalesi (9,5%).
Operano al Centro-Nord 8 imprese immigrate ogni 10 (77,3% vs il 66,0% delle aziende autoctone) e quasi un terzo solo in Lombardia (19,1%) e nel Lazio (12,8%). Seguono la Toscana (9,5%) – in cui si rileva anche la più elevata incidenza delle imprese immigrate sul totale (12,6%) –, l’Emilia Romagna (8,9%), il Veneto (8,4%) e il Piemonte (7,4%) e, quindi, la Campania (6,8%), prima regione meridionale di questa graduatoria.
Questi dati, selezionati tra quelli presentati nel Rapporto, consentono di concludere, con il Sottosegretario Luigi Bobba, che è possibile passare dall’imponente crescita dell’imprenditorialità immigrata a una fase di piena maturità, con grande beneficio per il “Sistema Italia”. Una fase che includa non solo l’aumento delle imprese, ma anche la crescita dell’innovazione e della dimensione transnazionale. La stabilità del soggiorno, come ha evidenziato una indagine dell’Ocse, favorisce questo sviluppo.
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Mentre volano le quotazioni del petrolio dopo l'accordo tra i Paesi Opec e non sui tagli della produzione. I contratti sul greggio Wti con scadenza a gennaio guadagnano più di 3dollari a 54,5 dollari a barile, ai massimi da luglio 2015, in Italia le cose non vanno come dovrebbero. nel terzo trimestre 2016, le nuove assunzioni a tempo indeterminato, hanno registrato un calo del 18,7% rispetto allo stesso periodo del 2015. i contratti attivati sono stati 406.691 mentre le cessazioni di rapporti fissi sono state 483.162 (- 3,2%). i dati emergono dal report pubblicato sul sito del Ministero del Lavoro e risentono della riduzione degli incentivi sulle assunzioni a tempo indeterminato. Cresce, invece, del 10,6% rispetto allo stesso periodo del 2015 e 20 volte più dell'aumento nazionale il dato delle esportazioni del Sud Italia nei primi nove mesi del 2016. Questi i dati Istat, secondo cui crolla l'export delle isole (-21%) e cala quello del nord - ovest (-0,8%). In crescita nord - est e centro a più 1,5% e aumento medio nazionale fermo a più 0,5%. Sul trimestre, sud e isole segnano - 1,5% ed il nord - est - 0,2%, mentre crescono nord-ovest e centro (più 2,1% e più 0,8%). Per l'Istat sul PIL resta forte i divario tra nord e sud. Crescita nazionale dello 0,7% nel 2015, per il Pil in volume, con variazioni che vanno da più 1,1% nel Mezzogiorno a più 0,3% nel Centro, passando per più 0,8% a nord-ovest e più 0,7 a nord-est. Nel periodo 2011 - 2015 il Pil ha segnato il passo soprattutto nel Centro e nel Mezzogiorno (-1,2% e -1,1%), mentre la flessione è stata piu' contenuta nel nord - ovest (-0,9% e nord-est (-0,5%). Resta forte il divario tra nord e sud, Pil pro capite a 33,4 mila euro a nord-ovest, 32,23 mila euro nel nord-est, nel centro 298,3 mila euro e 17,8 mila a sud, - 44,2% rispetto a centro-nord.
Cari italiani lo volete cambiare o no questo Paese? Volete dare una sforbiciata al senato e far ripartire l'Italia? Ve l'hanno raccontata cosi la bella storia sul Referendum. Renzi vi ha proposto di votare "si", per cambiare verso al nostro Paese. Inizia cosi il video di un servizio di LA7 che sta spopolando in internet e che vi propongo un breve cenno in questo articolo. le Riforme non sono state scritte dal Partito Democratico, sono troppo intelligenti, ma da qualcuno che a livello mondiale conta un po' di più, ma poco poco, ossia, dalle lobby delle Banche d'affari ed in particolar modo dalla JP Morgan, sotto inchiesta per lo scandalo dei mutui “subprime". La crisi dei "subprime" è una crisi finanziaria scoppiata alla fine del 2006 negli Stati Uniti, che ha avuto gravi conseguenze sull'economia mondiale, innescando la grande recessione che ancor oggi stiamo pagando. Nel 2012 la Procura di New York denuncia per frode Bear Stearns e EMC Mortgage, per truffa dei mutui. Le perdite della Bear Stearns ammontano a 22,5 miliardi di dollari e provocano, solo negli USA, 7 milioni di disoccupati e la crisi che da anni imperversa in tutti i Paesi d'Europa. Il 28 maggio del 2013 JP Morgan ha pubblicato un documento intitolato "aggiustamenti nell'aera euro"; la prima parte spiega per filo e per segno come vanno riformati i Paesi, tra cui l'Italia. In particolare la JP Morgan scrive che la Costituzione italiana va cambiata perché "i sistemi politici dei Paesi del Sud ed in particolare le loro Costituzioni, presentano una serie di caratteristiche che appaiono inadatte a favorire la maggiore integrazione dell'area europea". E sapete perché secondo questa brava gente dobbiamo cambiare la nostra Costituzione? Perché è troppo "socialista e garantisce la protezione costituzionale dei diritti dei lavoratori e contempla il diritto alla protesta contro i cambiamenti dello Status Quo politico. JP Morgan scrive proprio cosi nero su bianco: "la protezione dei diritti dei lavoratori è un ostacolo e anche il diritto a protestare". Ma secondo voi è un caso che le stesse schiforme volute da questa banca d’affari le vuole lo "spara balle" Renzi, a Firenze detto “ il bomba”? Certo che NO, Matteuccio sta facendo i compiti che le ha assegnato la grande Banca d'affari JP Morgan. E sapete chi lo ha consigliato? Tony Blair, il quale, da alcuni anni guadagna molti milioni di euro come consulente.
Il compito di Blair è quello di andare in giro per il mondo a fare "lobbying" (gruppo di pressione). Nel 2012 Renzi e Blair si sono incontrati per cena a Palazzo Corsini a Firenze e sapete chi ha organizzato l'incontro? L'amministratore Delegato di JP Morgan. Nel 2014 i due amiconi si sono incontrati nuovamente a Londra e subito dopo Blair ha rilasciato una bella intervista a Repubblica, spiegando che Renzi aveva uno splendido programma di riforme per cambiare il Paese e rilanciare l'economia. Le stesse riforme che chiede JP Morgan! Queste non sono accuse dei complottisti e sapete perché? Vi ricordate la storia delle Bad Bank (cattive Banche)? Sapete chi ha scelto come consulente il Governo Renzi per chiudere l'affare? La JP Morgan! Nello stesso tempo la stessa Banca, mentre faceva consulenza al nostro Governo, nei suoi report consigliava i propri clienti di evitare le Banche italiane. Ecco da chi prendiamo lezioni! JP Morgan scrive le riforme e Renzi le esegue e non vi meravigliate se tra qualche anno lo vedrete advisor ( consulente) di qualche altra Banca d'Affari, come il figlio di Mario Monti, consulente della Goldman Sachs, Banca Commerciale Comit, generali, FIAT, Coca Cola, Trilateral etc. Cittadini, vi fidate ancora di Renzi e dei suoi uomini di "regime" che organizzano meetings per farvi votare "si"? Poi che dire dei ricatti di Napolitano e Boschi! Il primo ha minacciato gli italiano con lo "spread", arma usata dagli usurai per cacciare Berlusconi e meritevole di indagine per queste dichiarazioni, la seconda, figlia del vicepresidente della fallita Banca Etruria, che ha mandato sul lastrico migliaia di correntisti truffati e tanta osannata a Turi durante la sagra delle ciliegie" (solo in questo Paese poteva trovare tanta ospitalità), ha ricattato a "Porta a Porta" gli italiani dicendo che: "se vince il NO, addio agli 80 euro"", convinta lei ed inconsapevole di aver detto una cazzata!
Per chi ha letto la puntata del Diario della crisi finanziaria che parla di cosa è davvero Goldman Sachs questa di oggi è un po' inutile, in quanto in quel testo che mette insieme quattro puntate dedicate al potente ma ancor più preveggente colosso della finanza strutturata vi sono tutti gli elementi per capire perché, nonostante il vero e proprio crollo della domanda di petrolio evidenziata dal calo del 10 per cento circa registrato di recente in Italia, il prezzo del greggio, dopo una breve puntata al di sotto della soglia psicologica dei 40 dollari, si sia riportato rapidamente in vista della soglia altrettanto psicologica dei 50 dollari (parlo del WTI naturalmente, perché il Brent è ormai prossimo a quella soglia).
E' divertente che, ogni volta che assistiamo a movimenti repentini del genere, gli analisti un po' improvvisati, quelli competenti e con le mani in pasta ovviamente tacciono, si precipitano a parlare di vertici a due o a tre in corso per stabilizzare la produzione al fine di riavvicinare la domanda e l'offerta, ma è altrettanto evidente come a questi vertici non seguano mai decisioni o ancor meglio azioni decise e non è solo l'Iran che sta mandando gli impianti a tutta caldara, ma un po' tutti i produttori stanno accelerando l'estrazione, per non parlare di quel Venezuela ridotto oramai letteralmente alla fame pur disponendo di riserve di grandissimo rilievo.
Cosa sta allora accadendo? Sta accadendo che il prezzo dei future sul petrolio è nelle mani delle banche più o meno globali, entità spesso di grandi o grandissime dimensioni ma che si accodano pedissequamente a quello che fanno i loro esperti e superpagati colleghi di Goldman Sachs che decidono quando, spesso al di là delle decisioni dei ministri del petrolio arabi od occidentali, il prezzo deve andare verso l'alto o verso il basso e il bello è che, essendo i primi ad imprimere la direzione, guadagnano in entrambi i casi!
Di fronte a uno scenario di questo tipo, tollerato e ampiamente accettato dai Governi di tutto il mondo, non posso non pensare a quando, alla borsa merci di Chicago, Raul Gardini, soprannominato in patria il pirata, fu crocifisso dall'organismo che vigila su quella borsa per avere comprato tutti i contratti futuri sulla soia e fu costretto a venderli realizzando una grande perdita e subendo un colpo che forse ha influito sulla sua tragica fine.
Nulla di tutto questo accade a Goldman e alle sue sorelle che continuano imperturbate a influire sui prezzi del greggio e delle altre materie prime, per non parlare dei metalli preziosi, influendo così anche sulle condizioni di vita degli ignari abitanti del nostro pianeta.
Da quando, nell'agosto del 2007, si bloccò completamente la liquidità nel mercato interbancario europeo, ho seguito con la dovuta attenzione i numerosissimi vertici internazionali che allora avevano cadenza settimanale, tra incontri formali e informali, incluso il famosissimo intervento a porte chiuse in cui Mario Draghi, allora Governatore della Banca d'Italia e capo dell'organismo ristretto incaricato di riscrivere le regole del gioco in quello che l'allora presidente francese, Nicholas Sarkozy, ebbe a definire un casinò a cielo aperto, ebbe con i massimi esponenti del mondo bancario operante negli Stati Uniti d'America, un incontro del quale ovviamente non trapelò nulla se non la testimonianza di quanti ebbero modo di vedere i volti dei banchieri più potenti del mondo all'uscita dall'albergo in cui si era svolto l'incontro, facce che testimoniavano di quanto era stata dura la reprimenda che Super Mario aveva rivolto loro.
Come dicevo, di vertici ne ho seguiti davvero tanti, cercando di decifrare dai comunicati ufficiali quale era lo stato dell'arte delle decisioni prese o meno per disinnescare la mina vagante dei titoli strutturati della finanza creativa escogitati dagli apprendisti stregoni delle potentissime divisioni di Corporate Investment Banking delle banche più o meno globali, operazione che, come ricordavo in una recente puntata del Diario della crisi finanziaria, è in qualche modo riuscita, anche se dopo un vero e proprio bagno di sangue, negli Stati Uniti d'America, mentre in Europa siamo ancora al carissimo amico.
Come tutti sanno, lunedì scorso si è svolto a Ventotene un incontro al vertice tra il premier italiano, Matteo Renzi, la cancelliera tedesca, Angela Merkel, e il presidente francese, Francoise Hollande, un vertice che sancisce l'esistenza di un triumvirato tra i tre paesi più grandi dell'Unione europea dopo la vittoria al referendum della posizione che sanciva l'uscita della Gran Bretagna dalla UE dopo una travagliata e pluridecennale permanenza di quella grande nazione nel consesso europeo, una permanenza segnata da una tale quantità di ricorso alla clausola di opting out da rendere la sua adesione più simile ad un trattato bilaterale che ad un'adesione piena e convinta ai valori che animano l'Europa unita.
Quella della quasi definitiva formalizzazione di queste consultazioni a tre è forse l'unica vera notizia emersa dal vertice, in quanto le dichiarazione dei tre leader europei sono state più o meno una ripetizione di cose già dette in risposta alla richiesta italiana di andare oltre il Piano Juncker sugli investimenti e la riaffermazione della piena sovranità della Commissione dallo stesso presieduta sulla valutazione delle richieste di flessibilità più o meno rilevanti avanzate dagli Stati membri, Italia ovviamente inclusa.
Abituato a leggere tra le righe delle dichiarazioni di politici e banchieri, devo dire che la realtà dell'incontro a porte chiuse e dei contatti che lo hanno precedute appare diversa, in quanto su un punto c'è certamente un accordo ed è rappresentato dalla questione delle banche, sulle quali il relativamente facilmente gestibile problema dei Non Performing Loans delle banche italiane sta servendo come grimaldello per ottenere un via libera della Commissione europea per ottenere la possibilità di gestire il problema dei rischi collegati alla montagna di derivati e titoli più o meno tossici in pancia alle banche tedesche e francesi, ma, si sa, una mano lava l'altra e tutte e due lavano il viso.
Così come la riaffermazione che sulla flessibilità sui conti pubblici italiani sarà la Commissione a decidere non esclude che Francia e Germania non si adopereranno perché le richieste dell'ormai importante partner italiano non vengano, in tutto o in parte esaudite, per non parlare dell'avvicinamento delle posizioni dei tre paesi sul cruciale capitolo della gestione dei flussi migratori.
Dopo aver testato per diverse sedute livelli molto prossimi ai recenti minimi storici legati in buona parte ai timori di un maxi aumento di capitale per soddisfare le richieste della vigilanza bancaria europea presso la BCE che chiede che la banca milanese porti il Tier 1 dal poco più del 10 per cento attuale all'alquanto proibitivo 12,25 per cento, Unicredit è rimbalzata martedì in borsa sulle voci di una prossima vendita del 40 per cento di Banca Pekao che è valutato intorno ai 3,5 miliardi di euro, mentre non è escluso che si arrivi anche all'alienazione totale di Finecobank, la banca prevalentemente online che dovrebbe portare ulteriori risorse, due mosse che, se andranno in porto, potrebbero limitare l'aumento di capitale a 5 miliardi di euro.
Faccio parte della non folta schiera di quanti hanno visto con un certo sospetto la nomina del nuovo Chief Executive Officer francese di Unicredit, un banchiere molto versato nel campo della finanza ma con trascorsi non sempre chiari nel mondo del Corporate & Investment Banking, come quando si trovò nella posizione di capo del trader infedele Kerviel che arrecò danni miliardari alla sua banca francese, ma devo ammettere che, rispetto ai templi biblici del precedente CEO, De Mustier appare un razzo e sono molto curioso di vedere come si articolerà il nuovo piano industriale atteso entro la fine dell'anno.
E' chiaro che Unicredit non uscirà dalla sua crisi solo vendendo i pezzi dell'argenteria, saldi nei quali ricompresi Bank Austria, mentre ancora nulla si sa della sorte di HVB (quarta banca tedesca), ma quello che è certo è che, alla fine di un percorso di dimissioni che non sarà né facile né breve, la banca di piazzetta Gae Aulenti sarà una banca molto, ma molto meno internazionale, anche se questo non sarà necessariamente un male.
Quello che ancora non è ufficialmente sul tavolo è il taglio delle sedi e del personale che però tutti, a partire dalle organizzazioni sindacali di categoria, danno per inevitabile e del quale si aspettano solo i dettagli.
Non so dove stia trascorrendo le sue vacanze Viktor Messiah, Chief Executive Officer del quinto gruppo creditizio italiano, UBI, quel gruppo che è riuscito sotto la sua guida a schivare tutte le insidie presenti nelle diverse fasi del processo di ristrutturazione del sistema creditizio italiano, quelle insidie che hanno inferto colpi gravissimi alle altre quattro componenti del quintetto di testa della graduatoria delle banche italiane e che vede la presenza di colossi dai piedi di argilla come Intesa, Unicredit, Monte dei Paschi e Banco Popolare (fra poco fuso con quella Banca Popolare di Milano che un magistrato che condusse una lunga indagine su un gruppo di persone che a suo avviso dominava la banca milanese in anni passati, un gruppo di persone che lui ebbe a definire la Cupola), banche che spesso quelle insidie le hanno trasformate in atti di gestione dai costi spesso miliardari e che le rendono difficilmente ristrutturabili se non, almeno in alcuni settori di attività, ripartendo da zero e affidandosi alle migliori best practice esistenti a livello mondiale.
Dicevo che non so dove e se si stia riposando il numero uno operativo di UBI ma certo gli è pervenuta la circolare interpretativa dell'Associazione Bancaria Italiana, una circolare redatta in questi giorni e che fornisce l'interpretazione pressoché autentica di quell'articolo della legge di stabilità 2016 che prevede la deducibilità dagli imponibili IRAP e IRES delle somme destinate agii schemi di salvataggio delle banche in difficoltà nell'ambito del fondo di tutela dei depositi e, quindi, anche degli interventi che una banca fa per risolvere i guai di un'altra, purché assimilati agli stessi e ora si capisce perché, dopo innumerevoli rifiuti di Messiah a parlare della possibilità che il suo gruppo acquisisse MPS, lo stesso Messiah ha iniziato qualche settimana fa a dire che quello che è importante in un'acquisizione è che la stessa sia finalizzata a creare valore per entrambe le parti in causa ed è certo che se le somme spese vanno in doppia deduzione fiscale una mano alla creazione di valore viene.
Ma quella della eventuale deducibilità fiscale non è per chi sta studiando il dossier della banca senese che una ciliegina su una torta a più strati che si compone del lavoro pluriennale di Fabrizio Viola nel sistemare i guai del passato e per cui sta avendo anche delle noie giudiziarie, del piano di radicale abbattimento delle sofferenze lorde e nette, un'operazione che lascerebbe in piedi solo il pacchetto da 20 miliardi di crediti deteriorati (crediti che non sono ancora sofferenze e forse non lo diverranno mai) e, the last but not the least, un aumento di capitale che, spesate le operazioni di pulizia, aumenterebbe di un paio di miliardi il già forte patrimonio di MPS (9,5 miliardi di euro), insomma ce ne è di sostanza per valutare un'acquisizione che avverrebbe per il classico piatto di lenticchie e con i ringraziamenti dell'intera collettività nazionale!
La terza fase della tempesta perfetta in corso sui mercati, in particolare modo su quelli europei, ha imposto delle perdite anche ai più ricchi, in quanto il forte calo dei corsi azionari delle loro aziende ha determinato flessioni dei loro portafogli, come evidenziano le più recenti statistiche di Forbes che segnalano cali nell'ordine del 15 per cento in media, ma parliamo, almeno con riferimento ai paperoni italiani, di cifre miliardarie e che in molti casi sono diversificate sui mercati azionari mondiali per cui c'è sempre la speranza che le perdite subite da una parte si possano in contemporanea o in un prossimo futuro recuperarle da un'altra.
Ho letto proprio in questi giorni un'analisi del modello svedese, un paese che segue abbastanza pedissequamente il modello keynesiano di sviluppo e che parte da un principio molto caro all'economista Davide Ricardo e che postula che, al di là del livello della ricchezza personale, è difficile che si possano fare più di tre pasti al giorno, un paese sostanzialmente immune alla crisi e che adotta un sistema di redistribuzione della ricchezza, in gran parte tramite il suo sistema tributario e alle norme sulla successione, che lo rendono un paese autenticamente socialista, al di là del fatto che governino i socialdemocratici o forze di centrodestra, un paese dove la povertà indotta dalla non facile congiuntura internazionale colpisce una percentuale minima della popolazione, così come marginale è la percentuale dei senza lavoro e che ha fatto fino in fondo la sua parte nell'accoglienza e integrazione dei richiedenti asilo mentre agisce in modo deciso nei confronti di quanti vorrebbero partecipare al suo sistema avanzato di welfare per motivi esclusivamente economici.
Ovviamente, la Svezia non è immune al fenomeno dei movimenti populisti, antieuropei e spesso razzisti e xenofobi, ma sostanzialmente, almeno fino ad ora, un solida maggioranza dei cittadini di quel paese crede ancora alle ricette dei partiti di centrosinistra e di centrodestra che continuano ad alternarsi al governo.
Questo lungo preambolo è utile per venire alle cose di casa nostra, in quanto mai come in questi ultimi quindici anni la distribuzione della ricchezza e conseguentemente dei redditi ha raggiunto livelli di iniquità di gran lunga superiori a quelli registrati nelle precedenti fasi della vita economica a partire dal secondo dopoguerra, una situazione che non solo fa crescere in modo sempre più evidente le fasce di povertà ed emarginazione, ma rappresenta anche un freno endemico alla crescita economica a causa della diversa propensione al consumo delle classi più abbienti rispetto a quella pari quasi a cento delle classi più bisognose, una situazione che si è accentuata grazie alle rendite di posizione determinatesi con l'introduzione mal governata e mal gestita dell'euro, come ben hanno capito i pensionati con assegni da un milione di lire quando si sono trovati a percepire assegni da 516 euro, parlo dei pensionati non perché i lavoratori dipendenti non si siano trovati di fronte ad uno shock simile ma, almeno sulla carta, avevano l'arma della contrattazione salariale che poteva ridurre, almeno in parte, il gap che si era venuto determinando in un breve volgere di mesi.
La mini redistribuzione del reddito attuata attraverso i provvedimenti del Governo Renzi, pur procurando un certo sollievo ai dieci milioni circa di percettori degli 80 euro mensili in più in busta paga, avviene a carico delle casse dello Stato, mentre sarebbero necessarie maggiori imposte sui grandi patrimoni immobiliari e sulle grandi ricchezze accompagnati da significativi sgravi fiscali sulle classi di reddito basse e medie, una manovra da cui verrebbe quella spinta ai consumi che realmente sarebbe in grado di imprimere un impulso alla crescita dell'anemico prodotto interno italiano e il tutto dovrebbe accompagnarsi ad una commissione di inchiesta parlamentare su quello che è avvenuto nel processo di transizione tra la lira e l'euro nei settori del commercio, del lavoro autonomo e delle libere professioni!
La notizia è di quelle da far tremare i polsi: le autorità federali statunitensi hanno fatto ricorso a un tribunale perché intimi al colosso creditizio tedesco Deutsche Bank di nominare una figura indipendente in possesso dei requisiti professionali adatti per fare una valutazione obiettiva dei derivati montati dagli apprendisti stregoni delle due diverse Corporate & Investment Banking preposte alle attività finanziarie della banca, la nuova figura prevista dovrebbe districarsi tra derivati e titoli tossici per un ammontare di 52 mila miliardi di euro in termini di nozionale, un'esposizione immensa che però ovviamente si riduce di molto quando si eliminino le operazioni di segno opposto, ma che resta immensa quando si consideri il cosiddetto rischio di controparte.
Ho sentito un cauto commento in diretta su un canale televisivo specializzato in notizie economiche e finanziarie, ma l'interpellato non ha avuto esitazioni sugli effetti sistemici che potrebbero derivare da questa notizia, soprattutto se il giudice federale arrivasse a pronunciare un verdetto in linea con la richiesta delle autorità federali cosa che è in realtà molto probabile, ma che ha anche sostenuto che, in caso di nomina ed esito del lavoro sfavorevole rispetto alle attuali e molto rassicuranti rappresentazioni fornite dalla banca basata in Francoforte, sarebbe necessario ricorrere ad un maxi aumento di capitale di dimensioni superiori al fabbisogno di nuovo capitale previsto nel medio termine per le banche italiane!
Ovviamente, è stata ricordata la garanzia statale tedesca accordata alla banca globale, ma, ove l'importo previsto dovesse essere dell'importo ipotetico di cui parlavo di sopra, è evidente che andrebbe individuata una soluzione europea della quale non potrebbero essere escluse le banche degli altri paesi dell'eurozona, una circostanza che chiarisce anche i continui riferimenti del premier italiano, Matteo Renzi, alle difficoltà vere o presunte del colosso creditizio tedesco in materia di derivati, così come spiega la posizione conciliante della Merkel e del suo normalmente arcigno ministro delle Finanze rispetto alla richiesta italiana di non considerare aiuti di Stato eventuali partecipazioni pubbliche ad aumenti di capitale delle banche italiane in difficoltà.
Le banche come è noto vivono non solo di requisiti patrimoniali e di liquidità, ma possono operare anche e direi soprattutto sulla base della reputazione di cui godono nei paesi in cui operano; così non vorrei essere nei panni del Chief Executive Officer britannico che deve decidere se anticipare le mosse statunitensi proponendo sua sponte questa autorità indipendente senza aspettare che sia il tribunale di un altro paese a intimarglielo.
In queste ultime sedute i tre principali indici azionari americani stanno rompendo tutte le resistenze e macinando un record storico dopo l'altro, con Il Dow Jones Industrial che, rotto il livello dei 18.500 punti, occhieggia alla soglia più che psicologica dei 19.000 punti e il Nasdaq e lo Standard &Poor's 500, proprio quello contro cui sta o stava scommettendo il principe degli speculatori, al secolo George Soros (spero per lui che si stia rifacendo con la scommessa sempre più riuscita contro la sterlina inglese ormai a livelli di liquefazione), che infrangono anche loro i precedenti massimi storici un giorno sì e l'altro pure.
Oltre che a quanto accadde nelle prime fasi della tempesta perfetta, quando il Dow Jones toccò un massimo storico a pochi mesi dall'inizio del blocco della liquidità per poi scendere rovinosamente nei mesi e negli anni successivi, tutto questo rinvia al grande crollo del Nasdaq del 2001, quando, dopo aver superato di un balzo la soglia dei 5 mila punti, l'indice tecnologico si portò a quasi la metà di quel valore, costringendo Alan Greenspan, a quei tempi presidente della Federal Reserve, a inondare il mercato di liquidità per evitare una serie di fallimenti a catena!
Nel frattempo, ho sentito una notizia che non ho avuto modo di verificare appieno e che dice che il livello dei prezzi delle case negli Stati Uniti d'America sta risalendo molto sensibilmente puntando a riportarsi ai livelli precedenti a quel 2007 che diede l'avvio ad un vero e proprio meltdown dell'immobiliare USA, un tracollo che non risparmiò nessuna area del paese e che determinò il fenomeno delle foreclosure di massa con le conseguenti vendite all'asta a prezzi di assoluto realizzo, nonché l'emersione di intere località deserte di abitanti, come ad esempio Newark località non molto distante da New York e fino a poco tempo prima abitata da pendolari proprio con la grande mela, perché gli stessi erano stati cacciati dagli ufficiali giudiziari inviati dalle banche inferocite per la valanga di mutui, spesso subprime, non pagati.
Si tratta di una situazione di forte tensione sui prezzi delle case che non è ancora diffusa a livello nazionale, ma che si sta presentando nelle aree a forte tensione abitativa, così come non risulta che vi siano state campagne aggressive sui mutui come si verificò negli anni precedenti la prima ondata della tempesta perfetta, quando persone del tutto lontane dall'idea dell'acquisto di una casa, anche perché consapevoli del fatto di non avere i requisiti reddituali per sostenere la spesa di un mutuo venivano sollecitate a procedere un'acquisto incentivate da condizioni sul mutuo (condizioni che in generale duravano in realtà solo per il primo quinquennio) tali da rendere la rata del mutuo poco diversa dal prezzo dell'affitto dello stesso immobile.
Da allora di strada gli USA ne hanno fatto tanta, al punto di dimenticare gli sfracelli dei tre indici azionari successivi alla prima ondata della tempesta perfetta e la catastrofe del mattone, e possiamo dire che sono stati anni di ripresa vera, ben riflessa sia dai successi dell'azionario che dalla lenta ripresa dei prezzi delle case, sia di quelle individuali che degli appartamenti nei condomini, determinando la situazione di mini boom economico di cui il presidente Barack Obama va così orgoglioso, ma e in tutte le storie c'è sempre un ma, si iniziano ad avvertire sinistri scricchiolii in questa storia di successo.
Ho vissuto la fase cruciale del negoziato sulle parità "fisse e irrevocabili" tra le valute candidate a far parte della valuta unica europea nel maggio del 1998 mentre ero l'economista della sala cambi di un'importante banca italiana che disponeva di analoghe struttura a presidio di tutti i fusi orari e ricordo bene le discussioni tra gli operatori e le riunioni mattutine nelle quali si discuteva delle possibilità di successo della nuova valuta nel confronto con il dollaro statunitense, lo yen giapponese e la sterlina inglese, così come ricordo la notte in cui le stesse parità furono fissate perché dopo un'intervista al Tg 3 che aveva seguito il nostro lavoro notturno in diretta lasciai per sempre quell'attività per diventare il responsabile dell'ufficio studi di un sindacato nazionale del settore finanziario.
Ho ricordato i miei trascorsi solo per chiarire che quella delle basi fondamentali del percorso che ha portato all'introduzione dell'euro le ho vissute in prima persona e le ho vissute con la morte nel cuore perché ero perfettamente consapevole che se ci fossero stati due anni in più per la fissazione delle parità il processo travolgente di recupero della lira in corso dopo gli sfracelli avvenuti sotto il primo governo Berlusconi e quello di Lamberto Dini, la nostra valuta sarebbe entrata con un rapporto di cambio ben più favorevole, certamente più basso di quelle 1936,27 lire per euro fissate nel maggio del 1998.
Ma il problema, come si suol dire in questi casi, era politico più che economico, in quanto il governo Prodi non solo fece di tutto per partecipare sin da subito alla costruzione della moneta unica, ma, nelle fasi più convulse del negoziato puntò sull'ultima svalutazione della lira puntando su un cambio anche oltre le 2 mila lire, mentre tedeschi e olandesi vedevano la nostra valuta intorno a 1.900 e dalla mediazione nacque il valore che ho appena ricordato e, al colpo di mazza del banditore di Walras, tutti i prezzi furono convertiti, nel 2001 ma di fatto tre anni prima, e, insieme il più grande processo di redistribuzione del reddito mai verificatasi nel nostro Paese mai dal secondo dopoguerra.
Il bello è che è stato un processo pressoché istantaneo e non a caso ho citato Walras e la sua rappresentazione del processo istantaneo di formazione dei prezzi, perché nella totale latitanza del governo Berlusconi in carica dal 2001 al 2006, intere categorie che avevano nelle loro mani il potere di fissare i prezzi fecero carne di porco e quello che è accaduto allora ai prezzi delle case è noto ai più, basti dire che dopo anni di calo dei prezzi il valore di un immobile è mediamente ancora, e di molto, più alto del suo valore in lire. Insomma, il combinato disposto di questi movimenti ha determinato per la popolazione che vive a reddito fisso un impoverimento che è stato calcolato intorno al 30 per cento, al netto ovviamente dei risparmi sugli interessi dei mutui legato alla moneta unica.
Sono molte le cose che mancano all'euro, ma la prima di tutte è l'assenza di un Governo vero dell'Unione, unito all'applicazione della regola dell'opting out da parte di numerosi paesi membri, Regno Unito in testa e che ora ha lasciato addirittura l'Unione, anche se in realtà non lo farà verosimilmente prima del 2020, così come sono forti le differenze tra le diverse aree dell'Unione ed è da qui che parte la proposta del Nobel per l'Economia, Joseph Stiglitz, che è quella di prevedere un euro per l'Europa del Nord ed un altro, ovviamente più debole, per i paesi dell'area mediterranea, ma è un rimedio peggiore del male perché non tiene conto che inizierebbe quasi automaticamente un processo di disgregazione che porterebbe danni incalcolabili.
Non è un mistero che numerosi esponenti dell'accademia americana sono stati sin dall'inizio contrari all'introduzione dell'euro che, negli anni, ha iniziato a rappresentare un'alternativa nelle riserve ufficiali al dollaro, così come l'Europa incalza gli Stati Uniti nel prodotto interno lordo, ma non penso che gli economisti europei avrebbero mai proposto di prevedere diversi dollari che tenessero conto delle grandi disparità esistenti tra gli stati americani.
Come ho scritto in una puntata del Diario della crisi finanziaria di qualche tempo fa, sono stato nel cuore dell'Inghilterra post industriale pochi giorni dopo la vittoria del leave all'Unione europea, una vittoria non di larghissima misura ma anche un po' inaspettata e in buona parte spiegata dall'incredibile astensionismo dei giovani (hanno votato il 36 per cento degli aventi diritto di questa classe di età) che tutti i sondaggi di tipo stratificato per età davano per il remain con buona percentuale di distacco, ma questa ormai è storia e ne parlo solo per ricordare che mi è capitato allora di vedere numerosi edifici sui quali era riportata la bandiera della UE e una scritta che ricordava che erano stati realizzati grazie a finanziamenti provenienti da Bruxelles.
Ebbene, pochi giorni fa uno dei neo ministri della premier May si è premurato di rassicurare i sudditi di Sua Maestà britannica, che non si è mai espressa sul quesito ma che ha compiuto una serie di piccoli gesti che hanno convinto tutti che non fosse proprio una euro entusiasta, che lo Stato avrebbe garantito i finanziamenti un tempo provenienti da Bruxelles fino al 2020 e che gli stessi sono pari a 4,5 miliardi di sterline l'anno, una cifra che, visti i continui bracci di ferro britannici sui contributi al budget comunitario, superano, come affermato da molti nel corso della accesa campagna referendaria, quanto versato ogni anno a Bruxelles, così come è evidente che il Tesoro britannico non potrà fabbricare questa cifra, pari a poco meno di venti miliardi di sterline nel periodo considerato, e la stessa dovrà provenire da tagli alle spese o da aumenti delle imposte, esattamente quello che, prima del voto, aveva affermato il precedente responsabile dell'economia nel gabinetto di David Cameron, Osborne, un ministro che parlava di un buco da coprire di 30 miliardi di sterline includendo anche altri e pesanti effetti sull'economia derivanti da quella che allora era solo un'ipotetica scelta degli elettori britannici.
Non voglio infierire sulle bugie raccontate in campagna elettorale da Nigel Farage, Boris Jhonson e compagnia cantante, bugie smentite poi all'indomani del voto da loro stessi, con siparietti con giornalisti esterrefatti per l'impudenza di questi politici, uno dei quali si è dimesso, mentre l'altro è ministro degli Esteri della May e attualmente primo ministro facente funzioni per l'assenza per ferie della May e lo sarà anche in prospettiva ogni volta che la premier sarà assente, ma quello che è certo è che la marea montante del populismo, spesso condito da balle in economia e da razzismo in politica, non abita solo nel Continente europeo, ma è forte e tanto anche nelle isole britanniche, ma quello che è certo è che il conto di queste bugie e di queste vere e proprie manipolazioni dell'opinione pubblica lo pagheranno di tasca propria i contribuenti britannici e tutti i percettori di un sistema di welfare che già presenta un deficit previdenziale ammontante ad una cifra stratosferica, il tutto al netto di un referendum già annunciato dalla Scozia e di analoghe mosse che potrebbero riguardare l'Irlanda del Nord e il Galles con effetti altrettanto devastanti sul bilancio nazionale.
D'altra parte, il Governatore della Bank of England ha già annunciato che il prodotto interno lordo nel 2017 si porterà allo zero virgola qualcosa da una velocità di crescita al primo semestre del 2016 del 2,2 per cento, una flessione che peserà e non poco sul bilancio, così come il prezzo del petrolio che non riesce nemmeno a rivedere la soglia dei 50 dollari al barile farà inesorabilmente la sua parte su quella che negli scorsi decenni è stata, insieme alla finanza, la vera risorsa nazionale. Gli economisti utilizzano spesso una misura grossolana ma efficace per misurare il potere reale di acquisto nei diversi paesi ed è rappresentata dal prezzo del Big Mac ma nel Regno Unito questo indicatore è sostituito dal prezzo della pinta di birra e questo è già schizzato fino alle 3 sterline dalle 2 di pochi anni fa, ma il problema è che il tracollo della sterlina minaccia ulteriori rincari per la birra di importazione ed è così che l'associazione di categoria dei proprietari di pub ci informa che ogni settimana chiudono 11 esercizi di questo tipo con i britannici sempre più costretti a comprare la birra al supermercato e bersela in solitudine a casa e dire che erano stati proprio i pub i luoghi dove è maturata la vittoria del leave!
Nei primi due-tre anni della tempesta perfetta, quella che nel sottotitolo del Diario della crisi finanziaria definisco la più grave crisi di liquidità dal secondo dopoguerra, mi sono occupato prevalentemente della crisi delle banche statunitensi letteralmente sommerse da quei titoli della finanza strutturata, a partire dall'impacchettamento dei mutui subprime in pacchetti realizzati dagli apprendisti stregoni delle sezioni di Corporate & Investment Banking delle banche più o meno globali, e che godevano in larga misura del racing della tripla A, una montagna dalle dimensioni impressionanti che sembrava dovesse sommergere tutto ma che alla fine ha fatto soltanto una vittima illustre, la Lehman Brothers, più alcune di istituti di piccole e medie dimensioni, ma, grazie alle scelte del capo della Federal Reserve, Benjamin Bernanke, in arte Bernspan, che ha utilizzato l'enorme volume di liquidità creato con le varie edizioni del Quantitative Easing per drenare migliaia e migliaia di miliardi di dollari di questi titoli più o meno tossici dalle banche operanti negli USA (banche europee globali incluse), trasformando le sedi della Fed, in particolare quella di New York, in enormi discariche a cielo aperto di questi titoli che sono di fatto scomparsi dalla circolazione.
I più attenti tra i miei lettori si chiederanno: ma se l'azione della Fed ha salvato le banche americane perché non ha fatto altrettanto per Deutsche Bank, BNP Paribas, Société Generale, UBS You and I, Credit Suisse, Lloyd Bank, Il problema aggiuntivo dell'area europeaRoyal Bank of Scotland e via cantando? La risposta, almeno apparentemente, è semplice e dipende dal fatto che, oltre ai derivati e ai titoli più o meno tossici conferiti alle capaci discariche della Fed, gli apprendisti stregoni delle CIB di queste banche, nel caso di Deutsche di CIB ne esistono addirittura due, hanno continuato a sfornare i prodotti più disparati, accumulandone, complessivamente, per centinaia e centinaia di migliaia di miliardi di euro di nozionale, una situazione che le apre a a rischi operativi (che, sempre collettivamente, non superano di molto i cento miliardi di euro), ma, e questo e più grave e di gran lunga più difficilmente quantificabile, a rischi di controparte che, tradotto in soldoni, è il rischio che una controparte di un contratto finisca a gambe all'aria.
Ma il problema aggiuntivo dell'area europea, la Svizzera richiederebbe un discorso a parte, è che, stretti dai vincoli stretti dei parametri di deficit e debito previsti dal trattato di Maastricht, i governi dei grandi paesi dell'area hanno sì fatto interventi rilevanti volti al rafforzamento patrimoniale delle banche dei rispettivi paesi, interventi fatti solo in modo marginale dall'Italia con i Tremonti e i Monti Bonds, ma non hanno potuto evitare che la spirale recessiva mandasse in default numerose aziende debitrici delle stesse banche, determinando un ammontare di Non Performing Loans pari a un trilione di miliardi di euro, dei quali più di un terzo facenti capo alle sole banche operanti in Italia, un macigno che gli stress test hanno evidenziato, pur mandando al di sotto della linea di valutazione il solo Monte dei Paschi di Siena.
La vera differenza, tuttavia, sta nella politica economica e, soprattutto, quella monetaria attuate al di là e al di qua dell'Oceano Atlantico, in quanto, dopo le scelte molto opinabili della triade Bush-Bernspan-Paulson (ex numero uno di Goldman Sachs prestato alla politica come ministro del Tesoro pochi mesi prima dello scoppio della tempesta perfetta), è arrivato alla presidenza degli Stati Uniti d'America Barack Obama e, come per magia, Bernspan ha iniziato a tirare fuori dal cappello quelle trovate che hanno reso una vera e propria catastrofe una grande opportunità, ovviamente infischiando dei vincoli di bilancio e dei parametri che restano un ossessione tutta europea, anche perché i due erano ben consapevoli che o si riusciva a raddrizzare la nave o si andava tutti a fondo e che a ripagare i debiti ci avrebbero pensato i posteri, cosa che, peraltro, non accadrà perché la ricetta ha funzionato e ora ci si trova con un'economia in soddisfacente crescita, un tasso di disoccupazione quasi ai minimi storici e le banche quasi del tutto in piena salute!