L'informazione non è un optional, ma è una delle condizioni essenziali dell'esistenza dell'umanità. La lotta per la sopravvivenza, biologica e sociale, è una lotta per ottenere informazioni.

Economics (224)

Roberto

Roberto Casalena
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Secondo fonti ben informate e riportate dall'edizione online di Repubblica nella serata di venerdì, l'amministratore delegato di MPS, Fabrizio Viola, avrebbe inviato una lettera alla vigilanza bancaria operante presso la BCE annunciando che la banca smaltirà 27 miliardi di sofferenze lorde, che al netto degli accantonamenti esistenti sono pari a 9,6 miliardi, cioè esattamente la cifra richiesta nelle settimane scorse da Daniele Nouy, e che la banca senese si appresta varare un aumento di capitale per la cifra tonda di 5 miliardi di euro, dopo che per giorni si era parlato di due-tre miliardi, per giungere fino a 4 miliardi, ma evidentemente i vertici di MPS sono consapevoli che questa è un occasione irripetibile per giungere ad un rafforzamento patrimoniale che, al netto delle perdite previste per lo smaltimento delle sofferenze, porterebbe denaro fresco per circa due miliardi di euro, una mossa che porterebbe il coefficiente patrimoniale della banca al 13 per cento, quasi tre punti in più di quanto richiesto dalle attuali disposizioni di vigilanza e di 75 punti base al di sopra di quanto richiesto di recente ad Unicredit e a Deutsche Bank.
Il nodo sta nel fatto che per giungere alla cifra richiesta dalla banca senese al mercato ci sarebbe un passaggio molto doloroso per gli attuali obbligazionisti subordinati, in quanto sarebbe previsto che le loro obbligazioni vengano trasformate in azioni e non si sa se ciò avverrebbe distinguendo tra i risparmiatori privati e gli investitori istituzionali o facendo di tutte le erbe un fascio anche perché le obbligazioni subordinate in mano alla clientela retail sono davvero tante e non vi è dubbio che, nonostante le venti banche di rango impegnate nel consorzio di collocamento, la domanda di azioni bancarie da parte del mercato è davvero molto, ma molto scarsa, un'ipotesi quest'ultima che determinerebbe un caso Banca dell'Etruria e delle sue tre sventurate sorelle moltiplicato per alcune volte.

D'altro canto, che gli obiettivi del Governo italiano e quelli del top management di MPS non stessero del tutto coincidendo lo si era capito quando il massimo consigliere economico di Matteo Renzi, tal Gunfeld, aveva dichiarato che andavano ben distinte le due fasi dell'operazione, concentrandosi innanzitutto nello smaltimento delle sofferenze richiesto dalla vigilanza BCE e rinviando ad una seconda fase la questione dell'aumento di capitale, una posizione che sottintende anche che lo stesso aumento andrebbe proporzionato alle effettive necessità legate alla cessione dei crediti per la quale si sta costituendo il Fondo Atlante2, così come tra le righe sembra cogliersi una certa insofferenza per la decisione di Viola di effettuare lo smaltimento delle sofferenze in un'unica soluzione senza approfittare dell'arco temporale triennale indicato nella stessa missiva giunta nelle settimane scorse da Francoforte, ma è chiaro che, inviando la lettera alla vigilanza BCE, l'amministratore delegato di MPS si è tagliato i ponti alle spalle e ha messo il Governo di fronte al fatto compiuto!

Chi segue il Diario della crisi finanziaria sin dai tempi della prima ondata della tempesta perfetta, sa che è un mio vecchio pallino quello della possibilità che il molto malmesso Monte dei Paschi di Siena disastrato dalla gestione Mussari-Vigni potesse finire nelle mani di una banca globale straniera, anche se allora imperava ancora sulla banca senese l'omonima fondazione e il prezzo da pagare sarebbe stato più o meno dell'ordine che MPS aveva pagato per comprare, nel giro di 24 ore, la Banca Antonveneta e cioè più di quanto BNP Paribas aveva pagato per acquisire la Banca Nazionale del Lavoro.

Nel frattempo, lo scenario bancario italiano è radicalmente cambiato e gli sportelli che allora venivano contesi a 5-7 milioni di euro l'uno sono calati drasticamente di prezzo e i crediti deteriorati sono schizzati verso l'alto per giungere a 360 miliardi di euro a livello di sistema e a 47 miliardi per il solo Monte dei Paschi a fronte di impieghi vivi pari a 113 miliardi di euro e con un rapporto tra NPL e impieghi del 42 per per cento circa, un rapporto assolutamente abnorme e non mitigato dalla copertura per il 48 per cento delle sofferenze lorde.
Quello che è certo è che la banca senese si appresta, sentito il parere della vigilanza bancaria europea a cui ha scritto una lettera di risposta alla missiva nella quale si chiedeva una drastica riduzione delle sofferenze nette, a cedere sofferenze per 10 miliardi di euro circa al Fondo Atlante ad un prezzo che a sentire i bene informati dovrebbe aggirarsi sul 30 per cento del valore nominale dei crediti stessi, operazione che dovrebbe portare ad un aumento di capitale sino ad un massimo di 4 miliardi di euro, aumento che sarebbe garantito da un consorzio di banche, consorzio che, ovviamente, ancora non è uscito allo scoperto.

Il problema è che il Monte dei Paschi, pur avendo un patrimonio netto di 9 miliardi di euro, in questo momento non arriva ad una capitalizzazione di borsa di un miliardo e non si nota uno spasmodico interesse dei risparmiatori e degli investitori a mettere mano al portafoglio per concorrere all'aumento di capitale, il che apre la strada all'ipotesi che si profili all'orizzonte un cavaliere bianco che desideri crescere sul mercato creditizio italiano o entrarvi mediante questa acquisizione che sarebbe certo a buon mercato ma che presenta notevoli profili di rischiosità.
E' ovvio che tutto quanto precede sarà influenzato dalle intenzioni del Governo italiano e dall'esito della trattativa in corso ormai da settimane con la Commissione europea, che, come ha ricordato giovedì scorso Mario Draghi, ha l'ultima parola sugli aiuti di Stato alle banche.

Nella puntata di ieri del Diario della crisi finanziaria ho preteso francamente troppo dalla memoria dei miei lettori, in quanto ho dato per scontate molte cose delle quali mi sono occupato diffusamente nelle puntate degli anni scorsi dedicate alle tre fasi di ristrutturazione del sistema bancario italiano, un processo molto lungo e complesso che ha preso le sue mosse dopo l'approvazione della Legge Amato che prevedeva in buona sostanza la scissione della proprietà della casse di risparmio e di alcuni tra gli istituti di diritto pubblico e la trasformazione in società per azioni, governate ovviamente dal diritto privato, delle cosiddette banche conferitarie, quindi le fondazioni bancarie da un lato e le banche da esse possedute dall'altro; nacquero quindi veri e propri mostri, o almeno così li definì il padre della legge, le fondazioni bancarie appunto che avrebbero dovuto alienare in tutto o in parte le azioni delle loro banche e occuparsi sostanzialmente di beneficienza e mecenatismo in linea con quanto avviene per le omologhe istituzioni di diritto anglosassone.

E' questa sostanzialmente la prima fase del processo di ristrutturazione del sistema bancario italiano, con i banchieri ormai ex pubblici che erano in spasmodica attesa dei successivi provvedimenti governativi che avrebbero costretto le fondazioni ad accelerare il processo di dismissioni delle azioni delle ex banche di diritto pubblico e fu allora che Alessandro Profumo del Credito italiano e Corrado Passera e Bazoli dell'allora Banco Ambrosiano ebbero l'idea che fece nascere Unicredit da un lato e Banca Intesa dall'altro: offrire alle fondazioni di mettere al sicuro le azioni delle loro banche, garantendo per un lunghissimo tempo la sopravvivenza delle stesse sotto forma di banche marchio dotate per di più di una loro direzione generale, nonché di un patto fra gentiluomini per la gestione della banca risultante dalle fusioni.

Nessuno è stato in grado di calcolare esattamente i costi derivanti da questa autonomia delle banche marchio, ma è certo che sono stati estremamente ingenti, ma, e forse soprattutto, hanno impedito quella gestione del credito che ha favorito e non poco la crescita abnorme dei crediti deteriorati e delle sofferenze lorde e nette molto di più di quanto sarebbe accaduto se si fosse scelto fin da subito un modello di gestione accentrata dei nuovi gruppi bancari neonati, cosa che poi accadde ma dopo un lasso di tempo insopportabilmente lungo e con costi, vedi Monte dei Paschi di Siena, Unicredit e Banca Intesa-San Paolo, veramente enormi nonché ingerenze nella gestione da parte delle fondazioni bancarie, come si è visto di recente nel blocco del processo decisionale per la nomina del nuovo Chief Executive Officer di Unicredit poi sbloccato dopo ripetuti crolli in borsa e gli appelli ultimativi di Piercarlo Padoan e Matteo Renzi.
E' in questa terza e non conclusa fase del processo di ristrutturazione del sistema bancario italiano che ci troviamo e con con qualche decina di miliardi di euro di munizioni in meno per affrontare le richieste che si faranno sempre più pressanti da parte della vigilanza europea presso la BCE!

C'era molta attesa per quanto avrebbe detto Mario Draghi, presidente della Banca Centrale Europea, nella consueta conferenza stampa che si svolge al termine dei lavori del comitato direttivo della BCE tenutosi giovedì scorso, una riunione tutto sommato di routine dal punto di vista della politica monetaria, in quanto sono stati lasciati invariati i tassi di interesse e si è confermata la prosecuzione a ritmi invariati del Quantitative Easing, ma che ha dato modo a Super Mario di intervenire a gamba tesa sul problema dei problemi del sistema bancario italiano che è quello della possibilità di aiuti pubblici nella difficile operazione di smaltimento dei Non Performing Loans, che lo ripeto assumano alla stratosferica cifra di 360 miliardi di euro e che assommano la metà circa di tutti gli NPL dell'area dell'euro.
Ovviamente, Draghi ha iniziato dal problema dei problemi che è quello di costruire un mercato dei crediti deteriorati delle banche che non porti a cessioni a prezzi eccessivamente bassi, quindi il primo compito degli Stati deve essere quello di incentivare la creazione, e il pensiero dei presenti alla conferenza stampa è ovviamente andato al Fondo Atlante e alla trattativa in corso con il Monte dei Paschi di Siena per la cessione di quei circa dieci miliardi di euro di sofferenze nette che la vigilanza bancaria europea ha chiesto di smaltire entro il 2018 e che l'amministratore delegato della banca senese, Fabrizio Viola, vorrebbe cedere in un colpo solo, determinando così la necessità di un aumento di capitale per due-tre miliardi di euro.

Come già il vice presidente Costancio e il rappresentante italiano nel comitato direttivo, la frase più utilizzata da Draghi è stata quella che dice che tali interventi sono possibili solo in circostanze eccezionali perché in quelle normali sono utilizzabili solo le norme stabilite dai trattati attualmente in vigore, ma tutti, inclusa la Commissione europea, sono d'accordo che la vittoria della Brexit ha determinato appunto tali circostanze eccezionali.
La benedizione di Draghi avrà un peso forte sia sull'istruttoria della vigilanza BCE sul caso Monte dei Paschi, sia sulle trattative in corso tra il Governo italiano e il Commissario europeo competente sui possibili interventi che l'Italia ha allo studio per ridurre sensibilmente l'ammontare degli NPL e per rafforzare patrimonialmente le banche italiane.

E' ormai da più di sei mesi, in pratica dall'introduzione del nuovo sistema di risoluzione delle banche in crisi e della sua parte principale: il bail in, chela Banca Central Europea, l'OCSE e il FMI hanno messo sotto esame le banche italiane, in particolare per l'ingente massa di Non Performing Loans, cioè i crediti deteriorati, giunti alla cifra di 360 miliardi di euro, un dato che fa da riferimento per l'intensissima attività della vigilanza della BCE che tiene sì conto del fatto che le sofferenze lorde sono pari a 200 miliardi di euro e che quelle nette sono di "soli" 85 miliardi e la ragione di questa scelta della Nouy, il capo della vigilanza, risiede nel fatto che si considera che in condizioni di forte stress le banche non sarebbero in grado di utilizzare i pur ingenti accantonamenti effettuati negli anni e rischierebbero di entrare in una crisi di liquidità, una fattispecie di cui abbiamo avuto una prova generale nei primi giorni di agosto del 2007 quando nel grande mercato interbancario europeo vi fu un blocco totale della liquidità e che costrinse la Banca Centrale Europea a inondare letteralmente il mercato di quella liquidità che mancava proprio perché le 53 banche che partecipano all'Euribor non si fidavano l'una dell'altra.

Su tutto questo ho speso numerose puntate del Diario della crisi finanziaria, ma va rimarcato che il conto delle banche "risolte" o salvate dal Fondo Atlante ha ormai raggiunto il numero di sei e altre, anche di grandissime dimensioni, traballano e questo ha indotto il Governo italiano a varare un fondo da 150 per garantire le obbligazione delle banche e sta trattando per ottenere una sorta di parentesi temporale nella quale sostenere le banche maggiormente in difficoltà senza incorrere nella normativa che vieta gli aiuti di Stato a questo come a tutti gli altri settori produttivi dell'economia italiana, il tutto sfruttando la situazione eccezionale che si è venuta a creare dopo la Brexit ed anche grazie alla recentissima sentenza della Corte di giustizia europea che apre uno spiraglio in tal senso e di cui ho parlato nella puntata di ieri.
Ma, come sta evidenziando il processo di ristrutturazione in corso del colosso Deutsche che, a differenza delle banche italiane ha piuttosto un gigantesco problema sui derivati, il problema non è solo quello degli NPL, ma quello della abnorme rete distributiva delle banche italiane, cioè la rete delle filiali e degli sportelli, e che sempre più appare ridondante a causa dell'enorme sviluppo dell'internet banking, sempre più utilizzato dalla clientela che, per la parte legata al contante, si avvale delle decine di migliaia di bancomat, che sono peraltro sempre più evoluti.
Facendo due conti e vista l'entità dei tagli messi in atto da Duetsche, i tagli occupazionali nel settore creditizio italiano dovrebbero essere nell'ordine delle 30 mila unità, mentre la chiusura delle dipendenze dovrebbe essere nell'ordine delle migliaia di dipendenze!

Era molto atteso il pronunciamento della Corte europea di giustizia sul ricorso della Slovenia contro le nuove norme sulla risoluzione delle banche in crisi e soprattutto sul bail in, quel salvataggio dall'interno che, entro il limite dell'otto per cento del totale dell'attivo della banca in questione, chiedeva sacrifici in primis agli azionisti e agli obbligazionisti subordinati, ma anche ai depositanti per quanto eccede la soglia garantita dei 100 mila euro, misure che, secondo i critici, fanno sì che si inneschi un meccanismo perverso che porta alla fuga di questi soggetti ai primi segnali di possibile default, anche perché per non tutti è valso quello che è accaduto agli azionisti della Banca Popolare di Vicenza e di Veneto Banca entrati in possesso e a prezzi molto elevati di azioni non quotate e che potevano essere riacquistate solo dalla banca emittente cosa che, dopo una breve fase iniziale non è stato più possibile per nessuno, con il risultato che, dopo le fallite quotazioni in borsa, quelle stesse azioni sono arrivate a valere 10 centesimi!

Cosa ha dunque deciso la Corte? Ha stabilito che il bail in si inserisce perfettamente nella normativa europea vigente, non violandone alcun principio, il che in un'Unione europea che è di fatto un libero mercato più un'unione monetaria con parti ancora disomogenee di unione bancaria non stupisce, mentre è l'altra parte della sentenza che ha fatto allargare i cuori dei banchieri dell'area dell'euro ed è quella dove si dice che in circostanza eccezionali, il che dopo la Brexit è quasi lapalissiano, i governi possono non applicare il meccanismo anche se, alla fine, l'ultima parola tocca alla Commissione europea, ovviamente sentita la BCE.

Ma quale è la banca italiana che più ha subito le conseguenze della pronuncia della Corte? In primis il Monte dei maschi di Siena che sa che anche se riuscirà a vendere i 10 miliardi di circa di sofferenze richiesti dalla missiva della Nouy rimarrà con il cerino acceso in mano di dover fare un aumento di capitale da almeno due o tre miliardi di euro, il che, con l'attuale situazione di mercato, appare quanto meno improbabile senza un aiuto da parte dello Stato, ma anche Unicredit che ha portato a caso, regnante il nuovo Chief Executive Officer, un miliardo di euro da cessioni ma deve colmare il gap tra il Tier 1 attuale e quello richiesto da Francoforte per almeno cinque o sei miliardi di euro e, anche in questo caso, senza aiuti da parte dello Stato si tratta di una vera e propria missione impossibile.
In una precedente puntata del Diario della crisi finanziaria, ho detto che lo stock di depositi bancari che eccedono la soglia dei 100 mila euro ammonta alla stratosferica cifra di 425 miliardi di euro, una somma che francamente stupisce visto quello che accade ai piani alti della graduatoria delle banche italiane, ma la verità è che nessun banchiere, né in terra di Siena, né in terra milanese ha alcuna voglia di rendere noti i deflussi di capitale provenienti dai depositi eccedenti quella soglia critica, deflussi che non devono però essere irrilevanti e che, almeno in prospettiva potrebbero essere in grado di determinare conseguenze non di poco conto, come testimonia peraltro la risposta dei mercati alla decisione della Corte!

Nel giro di pochi giorni, due in realtà, abbiamo assistito ad una strage di grandi proporzioni in Francia, un attentato pare messo in atto da un uomo solo, e ad un tentativo di golpe nella Turchia di Erdogan e che puntava ad eliminare fisicamente un presidente che ha mostrato negli anni non poche ambiguità nei confronti dell'estremismo islamico (Isis da un lato e Hamas dall'altro) e che ha giocato una partita perdente nel sanguinosissimo conflitto che sta da alcuni anni toccando la Siria e l'Irak.

Questi due eventi hanno toccato in modo davvero marginale i mercati azionari occidentali che hanno in realtà oscillato di poco intorno alla parità, così come sostanziale tranquillità ha caratterizzato i mercati delle valute e delle materie prime, fatta eccezione ovviamente per la lira turca e per il mercato azionario di quel paese.
Ma la giornata di ieri è stata caratterizzata da un annuncio alquanto atteso, quello del Chief Executiva Officer di Deutsche Bank, John Cryan, che ha reso note le intenzioni del colosso tedesco sui tagli miranti a risparmi di 4 miliardi di euro su base annua, nonché un ridisegno del perimetro di attivata, un ridisegno che renderà Deutsche molto meno globale di quanto sia stata sinora.

Tradotto in soldoni, Deutsche ha annunciato che taglierà di un quarto il numero delle filiali, con correlativa perdita di diverse migliaia di dipendenti, e trasformerà molte delle dipendenze residue da agenzie che fanno di tutto ad entità che si occuperanno fondamentalmente di assistenza finanziaria alla clientela, una scelta, quella di Deutsche, che dovrebbe essere imitata dalle banche italiane, francesi, spagnole e, ovviamente, dalle concorrenti tedesche della banca di Francoforte.

Ma il riordino della banca tedesca non finisce qui ed è stato annunciato il ritiro da dieci paesi, mentre, per quanto riguarda le attività di Corporate&Investment Banking, non sono state ancora scoperte le carte ma già in comunicazioni precedenti il numero uno operativo di Deutsche aveva chiarito che la cura per il ramo di attività che più ha portato guai alla banca di Francoforte sarebbe stato molot, ma molto radicale.

A sentire le cronache riportate dai giornali, vi è un certo numero di banchieri che hanno ricoperto, spesso per lungo tempo incarichi di massima responsabilità in banche che sono tecnicamente fallite e spesso salvate solo dall'invenzione di un fondo come Atlante o chiude e poi rinate dopo che azionisti, obbligazionisti e depositanti oltre la soglia dei 100 mila euro erano stati debitamente tosati; ebbene questi banchieri si risentono quando giornali importanti come il Corriere della Sera ospitano un articolo a firma Ferruccio de Bortoli (già direttore di quel quotidiano) che attacca con un certo grado di veemenza Gianni Zonin, per decadi presidente della Banca Popolare di Vicenza, sì di quella banca che si è presentata all'appuntamento con l'aumento di capitale da 1,5 miliardi di euro andato praticamente deserto e che ha reso necessario l'intervento del Fondo Atlante che con quella cifra ha acquisito il 99,3 per cento del capitale sociale e che, prevedibilmente, farà di quella banca e di Veneto Banca carne da macello per poter rientrare dell'investimento effettuato.
Sono certo che De Bortoli, come ovviamente ho sempre fatto io, ha espresso un giudizio basato sul fatto che non si può ricoprire la carica di presidente di una banca per un ventennio circa e poi dire che dello sfacelo che è sotto gli occhi di tutti non si ha alcuna responsabilità, essendo in questo in buona compagnia con il precedente presidente di Carige, l'ex amministratore delegato della stessa, Piero Montani e personaggi di spicco di Apollo che si sono altrettanto risentiti per la richiesta che i nuovi vertici della banca hanno mosso nei loro confronti nel tentativo di recuperare la bella somma di 1,2 miliardi di euro per responsabilità nella vendita del ramo assicurativo del gruppo creditizio ligure che solo un giudice, ed è questo anche il caso di Zonin, dovrà eventualmente accertare.

Chiarito questo, è altrettanto evidente che la lunga teoria di decision makers bancari si sta allungando sempre di più, a partire da Mussari e Vigni, rispettivamente presidente ed amministratore delegato del Monte dei Paschi di Siena ai tempi della sciagurata nonché costosissima acquisizione di Banca Antonveneta, per passare ai vertici di Banca Etruria e delle altre tre banche su cui è intervenuto il provvedimento governativo che ha applicato per la prima volta in Italia e due mesi prima della sua entrata in vigore il bail in con le conseguenze descritte sopra cui si metterà una pezza con i risarcimenti avviati proprio in questi giorni, per giungere poi a Zonin e ai vertici del passato di Veneto Banca.

Ripetendo che non si vuole anticipare nessun pronunciamento giudiziario eventuale, invito i lettori a guardare le numerosissime interviste rilasciate in passato da questi banchieri e vedere come essi presentavano se stessi come i deus ex machina delle rispettive banche, altro che quello che dicono ora quando presentano se stessi come persone che ricoprivano incarichi senza quasi nessun potere decisionale!

Scrivo dall'estero e con la morte nel cuore per l'ennesimo attacco terroristico compiuto dall'Isis in Francia, la strage di Nizza che ha fatto decine e decine di morti in un giorno di festa nazionale culminato in tragedia!
Come ho scritto nelle puntate precedenti del Diario della crisi finanziaria, il mercato sembra prendere sul serio gli stringenti negoziati in corso a Bruxelles per individuare gli strumenti attraverso i quali il Governo italiano può intervenire a sostegno del proprio sistema bancario nazionale senza incorrere negli strali della normativa che impedisce gli aiuti di Stato.
Mancava una risposta alla domanda posta nel titolo della puntata di ieri sul perché i falchi tedeschi e olandesi hanno assunto nei confronti delle richieste del Governo italiano in sede comunitaria ed è quella data dal fatto che, con la fine della crisi politica britannica e la nascita del governo May-Johnson, è ormai chiaro a tutti che non si può favorire la crisi di grandissime banche italiane, una crisi che avrebbe oltretutto un effetto sistemico sull'intera area dell'euro.

Sistemata la partita delle banche venete, con la Banca Popolare di Vicenza e Veneto Banca ormai saldamente in mano al Fondo Atlante e il Banco Popolare che pare essere riuscito a portare a termine il suo aumento di capitale, la vigilanza europea presso la BCE è passata ai due obiettivi grossi che sono rappresentati dal Monte dei Paschi di Siena che, su ordine di Francoforte, sta trattando la cessione di 10 miliardi di euro di sofferenze al Fondo Atlante, mentre sarebbe questione di ore l'invio della lettera a Unicredit nella quale la Mouy chiederà ai nuovi vertici della banca di colmare quel gap di due punti percentuali nei requisiti patrimoniali già segnalato in una missiva precedente e alla quale l'istituto di Piazza Cordusio ancora non ha risposto in modo fattivo.
Intanto gli amministratori di Intesa-San Paolo e di Ubi Banca, le uniche due del quintetto di testa del sistema bancario italiano a essere state escluse dalle attenzioni della Nouy, non stanno dormendo sonni tranquilli perché sanno che presto o tardi la letterina da Francoforte arriverà anche a loro.


Proprio ieri, un'altra delle banche attenzionate dalla vigilanza della Banca Centrale Europea, la Carige, ha messo in piedi un'azione di responsabilità contro i precedenti amministratori della banca ligure, in primis l'ex presidente e padre padrone della banca, chiedendo agli stessi 1,2 miliardi di euro di risarcimento.
Nel frattempo sono arrivate le procedure per risarcire i truffati di Banca dell'Etruria e delle altre tre banche fallite, e in una di queste, Cariferrara, l'indagine della magistratura sta compiendo passi in avanti.

Alle orecchie di Padoan e di Renzi sono suonate come miele le parole concilianti sulle possibilità che l'Italia trovi un accordo con l'Unione europea sullo spinoso argomento del salvataggio delle banche italiane senza dover ricorrere ai meccanismi di risoluzione previsti dall'apposita direttiva europea, una direttiva che prevede il bail in, ossia la partecipazione degli azionisti, degli obbligazionisti e dei depositi per la parte eccedente ai 100 mila euro (in Italia, secondo la nostra banca centrale, ve ne sono per 425 miliardi di euro) il tutto entro il limite massimo dell'otto per cento del totale dell'attivo della banca in questione.

A pronunciare queste parole sono persone come Angela Merkel, come l'arcigno presidente olandese dell'eurogruppo, come lo stesso ministro tedesco delle finanze, tutte persone che fino a poche ore prima si trinceravano dietro il mantra dell'inviolabilità delle regole, pur avendo, in tempi assolutamente non lontani, utilizzato centinaia di miliardi di euro di fondi pubblici, cioè soldi dei contribuenti per ripianare le perdite delle banche olandesi e tedesche appunto, cosa fatta anche dai governi di altri importanti paesi dell'area euro, in particolare Francia e Spagna.

Poiché è molto improbabile che i suddetti personaggi siano stati illuminati sulla via di Damasco, credo proprio che siano stati invece convinti da considerazioni molto più prosaiche al limite degli interessi di bottega e che sono rappresentate da un lato dalle difficoltà incontrate da un numero crescente di banche tedesche a rispettare le dure previsioni della vigilanza europea presso la Banca Centrale Europea (è di pochi giorni fa la notizia che la Deutsche Bank avrebbe fallito gli stress test della Federal Reserve, cui è soggetta in quanto banca globale, e sia in attesa di quelli disposti dall'EBA, mentre è nota a tutti la difficoltà che sta vivendo la Landesbank di Brema), mentre, dall'altro lato, vi è un timore crescente di rischio di controparte per le loro banche derivante dall'eventuale default di qualche importante banca italiana, compresa tra le cinque che sono state sottoposte agli stress test il cui esito sarà noto il 29 giugno.

D'altra parte, il fatto che l'accordo sia pressoché cosa fatta lo dimostra la mossa del fondo Atlante che si è offerto di rilevare 10 miliardi di euro di sofferenze nette dal Monte dei Paschi di Siena, una mossa che esaudisce i desiderata della vigilanza BCE ma che apre il problema della ricapitalizzazione della banca senese per colmare le perdite derivanti dalla cessione.

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