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Ho citato solo di sfuggita il passaggio dell'Economia Outlook del Fondo Monetario Internazionale che paventa il rischio di una stagnazione secolare per il mondo sviluppato e questo potrebbe stupire visto che, a livello dell'orbe terraqueo, registriamo da anni tassi di crescita del prodotto interno lordo compresi tra il 3 e il 4 per cento, ma il problema è che si tratta di un valore medio che unisce la crescita anemica dell'occidente sviluppato e del Giappone con quelli molto più vivaci che caratterizzano gli emerging markets e quella che ancora oggi, e nonostante i tanti paperoni cinesi in vetta alle classifiche di Forbes, si chiama Repubblica Popolare Cinese.
Tra le tre concause della terza ondata della tempesta perfetta, ho indicato il problema delle borse, e segnatamente delle banche, lo scoppio delle due bolle speculative del petrolio e delle altre materie prime energetiche, e la crisi sempre più evidente dell'economia cinese su cui grava un problema delle banche che è multiplo di quelli che affliggono le banche europee e il profilarsi dello scoppio di una gigantesca bolla nel settore immobiliare, due fatti che porterebbero le borse cinesi al collasso.
Credo proprio che gli economisti del Fondo Monetario Internazionale stiano seguendo uno schema di ragionamento non troppo dissimile da quello che ho descritto, a partire da febbraio, in numerose puntate del Diario della crisi finanziaria, uno schema di ragionamento che vede avvenire in Cina qualcosa di non troppo diverso da quello che è accaduto in Russia dopo l'abbandono di Michail Gorbachov e cioè l'applicazione selvaggia di metodi capitalisti d'arrembaggio in un paese povero ma che garantiva una serie di certezze a tutti.
Dopo il brusco allontanamento del capo dell'ufficio statale di statistiche cinesi, il nuovo responsabile si è premurato di diffondere a tempo di record le statistiche sulla crescita del prodotto interno lordo cinese che segnalano un lusinghiero 6,7 per cento di crescita, con un incremento della produzione industriale del 5,8 per cento, una crescita quest'ultima che contrasta con i programmi di licenziamento di 1,8 milioni di lavoratori del settore siderurgico e altre chiusure di stabilimenti non più produttivi, nel frattempo esplode l'industria delle abitazioni e esplodono i mutui (+92 per cento).
Il possibile scoppio di tre bolle contemporaneamente, quella del credito che sembra oramai imminente, quella del settore immobiliare e quella delle borse, inducono a prendere sempre più in considerazione le stime alternative dell'esule cinese ma con buoni contatti nella madrepatria, stime che dicono che siamo oramai prossimi ad una "stagnazione" che avrebbe effetti catastrofici sul PIL dei paesi avanzati!
Ho già parlato del fondo Atlante costituito presso una società di gestione del risparmio già operativa e si chiariscono meglio gli assetti proprietari del fondo stesso, con Unicredit e Intesa-San Paolo a far la parte dl leone con un miliardo di euro ciascuna e Cassa Depositi e Prestiti impegnata per mezzo miliardo e poi una pletora di fondazioni, banche e compagnie di assicurazioni a fare da comprimarie. Un'iniziativa che ha ricevuto l'autorevole benedizione del Fondo Monetario Internazionale, mentre suscita qualche perplessità nella più piccola delle società di rating, Fitch's, che paventa rischi per l'affidabilità delle prime due grandi banche italiane che impegnano tante risorse in questa opera di salvataggio del sistema bancario italiano, anche se lo stesso premier Renzi si è affrettato a spiegare che l'iniziativa cooperativa del mondo finanziario è solo un tassello di una strategia più ampia del Governo che punta a mettere al riparo le banche italiane dagli strali della vigilanza della Banca Centrale Europea.
Il vero banco di prova del neonato fondo sarà l'azione di garanzia degli aumenti di capitale miliardari delle due disastrate banche venete, in primis quello della Banca Popolare di Vicenza che, dopo la dissennata gestione capitanata da Gianni Zonin, l'ormai ex presidente che ha gestito da dominus indiscusso la banca per un ventennio, affondandola sotto un mare di sofferenze, aumento spostato ma alle porte e che doveva essere garantito in perfetta solitudine da Unicredit e per il quale si profila una marea di diritti inoptati da parte degli azionisti amareggiati dalla caduta a picco del valore delle azioni, non quotate nei mercati regolamentati, di una banca che sentivano propria al punto da sottoscrivere a 62 euro per azione quello che sempre più sembra somigliare ad un pezzo di carta straccia e che dovrebbe essere quotata a Piazza Affari ad un valore che dovrebbe, secondo i bene informati, oscillare intorno ad un euro, se non meno.
In un bellissimo articolo, il professor Zingales spiega l'ascesa e la caduta delle banche di provincia e il loro rapporto malata con le imprese delle zone di pertinenza, ma è sicuro che in nessuna regione d'Italia come nel Veneto tale rapporto patologico abbia prodotto frutti tanto avvelenati, incrociandosi con l'ascesa e la caduta di quell'economia del Nord-Est fatta di fabbrichette che hanno prosperato grazie alla debolezza della lira e alla relativa assenza della concorrenza cinese, ma che poi sono naufragate quando è stato introdotto l'euro e la concorrenza cinese, ma anche tedesca, ha iniziato a mordere sempre di più.
Come le favole del tempo antico, quello scenario idilliaco non tornerà più e gran parte delle sofferenze delle due banche venete sono irrimediabilmente perdute, anche perché i crediti venivano spesso erogati in assenza di garanzie e ad imprenditori che alla prova dei fatti sono spesso risultati nullatenenti!
Chi mi ha seguito in questi nove anni sa bene che non mi soffermo mai sui movimenti quotidiani di borsa, anche perché ritengo che i fenomeni vadano osservati sui tempi medio lunghi, ma quello che è accaduto martedì nella borsa italiana è stata una classica applicazione di quel detto che sentivo quotidianamente quando facevo l'economista in una sala operativa e, cioè, proprio come dice il titolo: compra sulla voce e vendi quando esce la notizia ed è esattamente quello che è successo a Piazza Affari tra lunedì e martedì per quanto riguarda la costituzione del fondo Atlante, un fondo destinato a sostenere gli aumenti di capitale delle banche italiane e ad acquistare le tranche junior delle cartolarizzazioni di crediti deteriorati, cioè quei pacchetti di sofferenze che non possono godere della garanzia statale riservata ai crediti in sofferenza di migliore qualità.
Cosa è accaduto? In poche parole, le azioni delle banche sono volate nella prima seduta dell'ottava sulle voci, anche contraddittorie, che parlavano della prossima costituzione di Atlante, aumenti che riguardavano indifferentemente le banche salvate da quelle considerate, a torto o a ragione, salvatrici, per non parlare della incertezza che riguardava la dotazione di Atlante, con voci che parlavano di 2,5- 5 o 6 miliardi di euro, cifre destinate in ogni caso a fare da effetto leva per interventi di molto maggiori dimensioni, nell'ordine delle decine di miliardi.
Nella seduta successiva, quella di martedì, quando le notizie sembravano più certe, il clima è cambiato improvvisamente e vi è stata una vera e propria valanga di vendite che ha lasciato indenne solo l'alquanto disastrato Monte dei Paschi di Siena che chiudeva quella infuocata seduta con un incremento di qualcosa di più di un punto percentuale, una seduta che era la cosiddetta seduta dei gonzi che hanno venduto, spesso in perdita, azioni che solo il giorno dopo, come è puntualmente accaduto, erano destinati a risollevarsi, in alcuni casi con variazioni a doppia cifra, ed è questo lo scenario che si è realizzato nella giornata di mercoledì, complice una chiarissima intervista del ministro Padoan al Sole 24 Ore.
Quello che sta accadendo sui mercati, con l'ottovolante delle quotazioni delle azioni delle banche italiane, non deve fare dimenticare che il sistema bancario italiano ha trovato il classico uovo di Colombo, cioè una soluzione che potrebbe davvero salvare capra e cavoli, riuscendo con uno sforzo finanziario tutto sommato limitato a venire incontro alle pretese di Madame Nouy che vuole una drastica riduzione delle sofferenze e aumenti di capitale adeguati a far fronte alle perdite derivanti da queste pulizie di bilancio, il tutto utilizzando il metodo assicurativo che permette di far fronte a grandi rischi con poche risorse!
Per combattere l'evasione delle multinazionali in Europa, che costa agli Stati 50-70 miliardi di euro all'anno, la Commissione ha proposto nuovi obblighi di trasparenza che costringeranno le aziende a pubblicare in ogni Paese dove operano le informazioni fiscali più importanti come profitti, tasse pagate, natura delle attività. "I cittadini vedranno chi paga, quanto e dove e vedranno se qualcuno ha spostato profitti all'estero", scrive Bruxelles, convinta che i Panama Papers dimostrino l'importanza della trasparenza.
La direttiva che introduce i nuovi obblighi era già prevista da tempo e quindi non è una risposta diretta ai Panama Papers. Ma può comunque aiutare a fare luce su quelle multinazionali che cercano di nascondere i propri 'traffici' di profitti per sfuggire al fisco. E' la prima volta che la Ue introduce il principio dello "scrutinio pubblico" sin materia fiscale. Con l'obbligo di pubblicazione Paese per Paese, Bruxelles si spinge oltre gli
standard Ocse in materia di trasparenza. Le nuove regole si applicano alle multinazionali più grandi, quelle cioè con un fatturato di almeno 750 milioni di euro annui. Dovranno pubblicare, in ogni Stato dove hanno una filiale, l'elenco dei profitti al netto delle tasse, l'ammontare delle tasse richieste e di quelle pagate, la natura delle attività, il numero di dipendenti, guadagni accumulati in altro modo. E dovranno rendere note
anche le tasse pagate nei Paesi fuori dalla Ue.
La direttiva coprirà circa 6000 società, che rappresentano il 90% del giro d'affari delle multinazionali in Europa. Bruxelles la vede anche come un modo per riportare equità nel settore, visto che le pmi sono spesso
penalizzate dal comportamento fiscale 'aggressivo' delle grandi aziende: secondo le stime della Commissione, una società che opera in più Stati paga in media fino al 30% di tasse in meno rispetto ad una società soggetta ad un solo ente fiscale.
Avendo tenuto il giornale di bordo della tempesta perfetta sin dal suo scoppio nell'estate del 2007, ho individuato tre macro fasi in quella che è nata come la più grave crisi di liquidità dal secondo dopoguerra mondiale, travolgendo prima banche, industrie e settore immobiliare a stelle e strisce, per poi allargarsi alle banche britanniche, irlandesi, belghe olandesi, francesi e tedesche, una prima ondata che ha lasciato quasi indenni le banche italiane e l'industria nostrana.
La seconda ondata è quella che ha travolto i titoli del debito pubblico dei paesi dell'Europa mediterranea e la Grecia nel suo complesso con l'avvio dei lavori della Troika e lo strangolamento di quel paese che ancora oggi non è uscito da quella fase di difficoltà in gran parte legato alle strampalate ricette, del tutto pre keynesiane, adottate dagli spin doctors del Fondo Monetario, della Commissione europea e della Banca Centrale Europea, alcuni dei quali hanno anche onestamente, ma un po' coccodrillescamente, fatto ammenda dei loro errori.
In questa seconda fase, io ho interrotto per tre anni circa le pubblicazioni perché non aveva senso analizzare una crisi del debito acuita dalla sostanziale inerzia della Banca Centrale Europea che, in quella fase così calda, non imitò non dico la politica fortemente espansiva adottata dalla Federal Reserve, ma neanche quella fatta propria dalla Bank of England.
Le cose sono radicalmente cambiate nel 2015, anno che ha gettato le premesse di quanto sta avvenendo in questo anno di disgrazia 2016, con le banche europee falcidiate in borsa e quelle italiane sotto la lente della vigilanza europea presso la BCE che, dopo aver molto studiato a partire dalla sua istituzione, ha iniziato a inondare le banche di missive alquanto minacciose brandendo l'arma finale del bail-in.
Tutto questo avveniva mentre scoppiava la bolla speculativa del petrolio e quando non si erano spenti gli echi di quella fragorosa del settore immobiliare, con prezzi non lontani dai minimi in numerosi paesi europei, inclusa l'Italia. Ho invitato i miei lettori a non aspettarsi vere e proprie inversioni di tendenza nei due comparti e a non lasciarsi illudere dalla corsa dell'orso in atto nel settore petrolifero, una corsa drogata dall'attesa del prossimo vertice dell'OPEC previsto a Doha, in quanto Stati Uniti, Gran Bretagna e Iran, per non parlare degli sciagurati paesi latino-americani sono in grado agevolmente da far da contrappeso alle decisioni che verranno eventualmente prese lì. Nel frattempo, l'Economic Outlook del Fondo Monetario Internazionale informa che stiamo andando verso una stagnazione secolare.
La vera novità di questa terza ondata della tempesta perfetta è data dal comportamento ampiamente proattivo delle principali banche centrali dell'orbe terraqueo, un comportamento che da solo certamente non potrà risolvere tutti i problemi, ma senza il quale staremmo certamente molto, ma molto, peggio!
Dopo il vero e proprio bagno di sangue avvenuto sui mercati finanziari a partire dalla primavera dello scorso anno, ma intensificatosi bruscamente a partire dalla prima seduta di questo anno di disgrazia 2016, il Governo italiano ha capito nei mesi scorsi che la favoletta del sistema bancario solido non reggeva più e ha deciso di muoversi, dopo intense faticosi negoziati in sede europea, su due fronti: quello dell'agevolazione con garanzia del processo di smaltimento dei Non Performing Loans in pancia alle banche e quella di un fondo di garanzia per gli inevitabili aumenti di capitale delle banche stesse derivanti dalle pesanti perdite derivanti dallo smaltimento stesso e, per farlo, ha spinto un po' rudemente le banche a muoversi e ad utilizzare una sgr già esistente per garantire gli aumenti di capitale ed acquistare le tranche di sofferenze dismesse dalle banche di qualità più scadente mediante un fondo che si chiamerà Atlante, mentre quelle cosiddette senior versavo assistite da garanzia statale mediante il Gacs.
D'altra parte, di aumenti di capitale ne sono in corso per circa quattro miliardi di euro complessivi da parte di Banco Popolare, come dote di nozze nell'unione promessa con la Banca Popolare di Milano, e da parte delle due disastrate banche venete, la Banca Popolare di Vicenza e Veneto Banca, ma potete essere sicuri che molti altri ne verranno nel corso del 2016, a partire da quel Monte dei Paschi di Siena che denuncia un rapporto tra crediti deteriorati e impieghi vivi intorno al 40 per cento, un dettaglio che non deve essere sfuggito agli uomini e alle donne che lavorano al comando di Madame Nouy!
Come si suol dire, il diavolo si vede nei dettagli e le cifre di cui per ora si parla non sembrano assolutamente stratosferiche, anche se potrebbero esercitare un effetto leva molto forte, in quanto con 2,5 miliardi di euro elevabili a 6 di fondo di dotazione si potrebbero, per la parte che garantisce gli aumenti di capitale, gestire agevolmente aumenti di capitale per decine di miliardi, a meno di ipotizzare livelli di inoptato totali che verrebbe di escludere per ché le banche di cui si parla offrono il valore delle rispettive azioni a prezzi davvero stracciati, in particolare le due banche venete di cui ho parlato di sopra.
Qualche parola va spesa sui motivi per cui ci troviamo oggi in questa situazione che non nasce certo l'anno scorso, ma affonda le radici in una gestione del credito effettuata dalle banche italiane che è stata davvero disastrosa e sulla quale la Banca d'Italia ha chiuso non un solo occhio ma tutti e due e che ha reso facile il compito della nuova vigilanza europea che ha messo in dubbio l'efficacia degli accantonamenti a questo titolo per oltre 110 miliardi di euro effettuati nel tempo e che sarebbero a rischio in una condizione di stress come quella ipotizzata in quel di Francoforte. Un'attenzione legittima, quasi doverosa, che però non viene esercitata con uguale fermezza per la altissima montagna di derivati e titoli tossici in pancia alle banche globali europee, una montagna argillosa non solo per i rischi di mercato ma anche per quelli di controparte!
Le biblioteche e i musei oggi sono a un punto di svolta. Le rapide innovazioni tecnologiche trasformano profondamente l’accesso degli utenti alla storia e alle raccolte. Gli Opac (Online public access catalogue), cataloghi in linea su internet, rendono conoscibili su scala planetaria le risorse delle singole istituzioni, per quanto geograficamente marginali; la gestione informatizzata del prestito snellisce le procedure; prestito interbibliotecario e document delivery, ovvero distribuzione selettiva dei documenti, favoriscono la circolazione degli stessi. Ancor di più, imponenti progetti di digitalizzazione delle raccolte rendono direttamente accessibili a studiosi e lettori di tutto il mondo il contenuto dei documenti, fornendo un surrogato virtuale del libro o del reperto, a patto che non si dimentichi l'importanza della materialità dell'oggetto: presupposto basilare di una corretta informatizzazione dei beni librari, non è una politica culturale non volta a sostituire il documento, bensì a consentire la conservazione dell'oggetto materiale permettendo contemporaneamente l'accesso ai contenuti.
In questo panorama acquisiscono grande importanza lo sviluppo di standard internazionali informatici e di catalogazione, necessari rispettivamente a garantire la fruizione nel lungo periodo dei documenti digitali e a creare una rete di istituzioni che condividono metodi di indicizzazione e non solo: catalogazione partecipata e catalogazione derivata permettono la condivisione da parte di più biblioteche della medesima scheda catalografica, dando uniformità alle voci. Anche in Italia si è ormai affermata l'applicazione degli standard Isbd (International standard book description), promossi dalla Ifla (International federation of library associations) e declinati in una serie di specifiche (M per le monografie, A per il libro antico, S per i periodici eccetera), che si aggiungono alle Rica (Regole italiane di catalogazione per autori) pubblicate nel 1979 a cura dell'Iccu (Istituto centrale per il catalogo unico) per definire gli "accessi formali" e al datato soggettario per i cataloghi delle biblioteche italiane curato dalla Biblioteca nazionale di Firenze nel 1956 per gli "accessi semantici".
Ne deriva quindi l’importanza per un Comune, di riuscire ad avvicinare in tal senso, i suoi cittadini e il mondo, alle risorse culturali del proprio territorio. Il bando europeo a fondo perduto con scadenza 30 giugno, fino a 3 milioni di euro, destinato ai Comuni per la creazione di un museo e una biblioteca virtuale e’un’opportunità per creare un polo culturale informatizzato che porterebbe ogni cittadina d’Italia nella rete delle città culturali. L’impatto sarà quello di creare nuovi aspetti progettuali per l’utilizzo dello stato dell'arte in informatica e la gestione dei Big data, di ricercare contenuti digitali europei importanti e sicuri, sistemi di analisi dei dati con ricerche semantiche tra enormi quantità di dati e non sufficientemente contrassegnati con metadati adeguati e, inoltre, quello di migliorare la comprensione della ricca diversità del patrimonio culturale europeo e creare valore aggiunto per la società, fornendo a ricercatori, giornalisti, politici e al pubblico interessato nuovi modi di trovare risposte alle loro domande sul patrimonio culturale europeo e storico. Un’occasione per i Comuni che potrebbero cogliere per loro stessi e la loro storia. Digitalizzando e gestendo in maniera integrata le informazioni, i vantaggi culturali ed economici del Comune crescerebbero in maniera esponenziale. I Comuni d’Italia, considerata la logica della politica, saranno pronti a vincere sul piano della cultura? La loro storia potrà finalmente essere fruibile da tutti?
Si tranquillizzino i miei lettori perché non voglio fare riferimenti mitologici o di storia antica, ma solo cercare di capire se gli isolani della Gran Bretagna, un miscuglio di popoli e di realtà geografiche molto diverse tra loro, spingeranno i loro risentimenti e il loro orgoglio fino a decidere di lasciare una realtà che conta ventotto nazioni, cinquecento milioni circa di abitanti e un prodotto interno lordo che la colloca nel novero delle tre realtà economiche più importanti dell'orbe terraqueo, una realtà a cui ha aderito relativamente di recente, ma comunque da poco meno di mezzo secolo.
Nell'Unione Europea, comunque, la Gran Bretagna possiede uno status davvero invidiabile, in quanto non aderisce, pur avendone abbondantemente i requisiti stabiliti dall'accordo di Maastricht, all'euro, sfruttando in questo caso la clausola dell'opting out, come hanno fatto anche alcuni paesi scandinavi, non aderisce al trattato di Schengen sulla libera circolazione delle persone nell'ambito dell'Unione europea, mentre sfrutta a mani basse della libera circolazione dei capitali, ma eccezioni generose ha conseguito anche nell'ultima tornata di negoziati svolti in quel di Bruxelles, tra i quali spiccano la possibilità di ulteriori e importanti opting out rispetto a provvedimenti in materia economica e finanziaria, nonché l'esclusione pluriennale dal welfare per gli immigrati che entreranno dopo la data del referendum, se prevarrà, ovviamente, l'opzione di restare in Europa, altrimenti faranno quello che vorranno.
Non mi addentrerò volutamente nel vivace dibattito in corso sui vantaggi e gli svantaggi derivanti dall'esito della scelta referendaria ove la stessa fosse quella della Brexit, anche se trovo ragionevole l'ipotesi di un'incidenza negativa sul prodotto interno lordo britannico nell'ordine del cinque per cento, un impatto pesante per un paese oramai deindustrializzato e alle prese con l'andamento largamente cedente del prezzo del greggio (un prezzo che ha compiuto nelle ultime settimane quella che io definisco la corsa dell'orso, con un repentino rimbalzo e poi con quella che sembra una vera e propria caduta, per poi tentare una nuova risalita).
Quello che più mi interessa è capire la stratificazione sociale rispetto agli orientamenti di voto e trovo un ottimo supporto in un articolo di Maurizio Ricci che analizza un sondaggio di dimensioni davvero impressionanti pubblicato da YouGov, un sondaggio basato su sedicimila interpellati e che indica come Londra, Irlanda del Nord, la Scozia e il Galles siano decisamente per restare nell'Unione europea, mentre le cose vanno decisamente male nelle altre pari della Gran Bretagna, così come vi è una discriminante anagrafica tra gli elettori, con i più giovani contrari a lasciare la UE e i più anziani ferventi fautori della Brexit. Vi è poi una differenza di classe, quella medio-alta a favore dello statu quo e quelle più basse in favore dell'uscita. Comunque sapremo come andrà a finire tra due mesi e mezzo o più precisamente il 23 giugno prossimo, anche se il coinvolgimento di David Cameron nei Panama Papers mette un'ulteriore ipoteca sul risultato.
Pressata dalla sorveglianza europea della BCE, Banca Carige ha tenuto ieri l'assemblea ordinaria dei soci che, guidati dall'azionista di riferimento Vittorio Malacalza, hanno approvato il molto discusso bilancio 2015, giubilato il precedente presidente e l'amministratore delegato, Pierluigi Montani, chiudendo di un colpo l'era del possibile ma mancato risanamento che doveva fare seguito alla disastrosa e pluridecennale gestione Berneschi.
Alla guida della Banca è stato chiamato Giuseppe Tesauro, già presidente della Corte Costituzionale dopo essere stato il numero uno dell'Antitrust, mentre Malacalza si è ritagliato per sé il ruolo di vicepresidente, mentre al posto di Montani è stato chiamato Guido Bastianini, ex Capitalia che ha proseguito a lavorare per Matteo Arpe nella creatura finanziaria realizzata dall'antico antagonista di Cesare Geronzi.
Ma la notizia che tutti si aspettavano era relativa alla posizione dell'azionista di maggioranza relativa nei confronti dell'offerta del fondo statunitense Apollo Capital Management che, come ho scritto in questi giorni, ha offerto 625 miliardi di euro per i 3,5 miliardi di sofferenze nette di Carige (meno del 20 per cento del valore al netto degli accantonamenti), per poi partecipare con 500 milioni di euro a un aumento di capitale della banca, più 50 milioni riservati agli attuali azionisti.
La mossa più discutibile di Apollo non sta nelle condizioni offerte che, seppur molto dure, fanno parte del gioco non sempre elegante della finanza, quanto nel fatto che è stata fatta filtrare una sorta di approvazione da parte della vigilanza della BCE che il legale di Malacalza smentisce duramente come destituita di ogni fondamento.
Quale è il piano alternativo della banca nella nuova era dominata dai Malacalza, sì sono più d'uno, viene delineato nello stesso intervento del legale incaricato di parlare per conto dell'azionista di maggioranza, quando non esclude un ricorso al Gasc il nuovo meccanismo messo in piedi dal Ministero dell'Economia e che ha avuto il via libera da parte dell'Unione europea, anche perché si potrebbe spuntare un prezzo più alto di quello offerto da Apollo e si potrebbe operare per tranche senza giungere nell'immediato a perdite per molte centinaia di milioni.
Oramai è un tam tam inarrestabile: le donne e gli uomini al servizio di Danièl Nouy, la potentissima responsabile della vigilanza della Banca Centrale Europea, stanno lavorando attivamente sul dossier dei Non Performing Loans delle banche italiane che, a livello di sistema, evidenziano un rapporto percentuale sui crediti sani che sfiora il 20 per cento, il triplo del rapporto evidenziato in media dai paesi che, come noi, adottano la moneta unica europea; questo fornisce una chiave di lettura ben diversa al recente summit tra il Governo, il Governatore della Banca d'Italia, i vertici al completo della Cassa Depositi e prestiti e i due molto afflitti amministratori delegati della prima e della seconda banca italiana, sì quella Unicredit e Banca Intesa San Paolo che devono garantire gli aumenti di capitale della Banca Popolare di Vicenza e di Veneto Banca, rispettivamente e che già sanno che dovranno farsi carico di un rilevante inoptato a causa del carico di sofferenze che quei due istituti di credito veneti hanno in pancia.
Ma il problema è che, in quel vertice, i due presunti salvatori che, insieme, rappresentano una parte considerevole dell'intero sistema bancario, hanno dimostrato di avere a loro volta bisogno di essere salvati, anche perché sono detentori di una parte più che proporzionale di Non Performing Loans, in particolare Unicredit, e quindi hanno bisogno come il pane di questo fantomatico fondo da 10 miliardi di euro per smaltire le sofferenze e, questa è la vera novità, garantire aumenti di capitale in gran parte finalizzati a coprire le perdite derivanti dalla cessione forzata di sofferenze e altri crediti deteriorati a prezzi di mercato che non si discostano di molto dal valore nominale degli stessi, come dimostra l'aumento di capitale del Banco Popolare da un miliardo di euro, aumento di capitale interamente utilizzato per coprire parte delle perdite derivanti dallo smaltimento di 10 miliardi di euro di NPL in tre anni imposto, in sede di fusione con la Banca Popolare di Milano, proprio dalla Nouy.
Ho scritto più volte sui sonni persi da amministratori delegati e presidenti delle banche nostrane in relazione alle vere intenzioni della vigilanza BCE e, certamente, avere un orizzonte temporale presumibilmente triennale per portarsi agli standard europei nel rapporto tra sofferenze e impieghi vivi è qualcosa di difficilmente immaginabile, dopo decenni di vigilanza alquanto distratta esercitata dalla Banca d'Italia e credo proprio che in quel di Siena non si chiuda occhio ormai da mesi, alla luce di un rapporto tra crediti deteriorati e impieghi vicino al 40 per cento, cinque volte la media europea e con valori dell'azione del Monte dei Paschi di Siena calata rispetto ai massimi del 2007 ad un valore da prefisso telefonico!
Ma quello che più rode ai vertici bancari italiani è il fatto che il modello utilizzato dalle donne e dagli uomini di Madame Nouy prende a riferimento le sofferenze lorde e non quelle nette, 200 miliardi di euro circa le prime contro un molto più ragionevole 88 miliardi le seconde, perché sostengono che gli accantonamenti non reggerebbero ad una situazione di stress che loro vedono come molto più probabile di quanto ritengono i nostri amministratori delegati. Tutto questo spiega i crolli delle azioni delle banche italiane molto più di tanti astrusi ragionamenti!
Che i clienti non andassero da soli allo studio legale panamense Mossack Fonseca lo aveva capito anche il più sprovveduto dei miei quattro lettori, ma nessuno avrebbe potuto immaginare la diffusione di questa pratica di accompagnamento esistente tra le banche tedesche, con sei delle maggiori banche tedesche pienamente coinvolte e altre 21 banche di minori dimensioni e, almeno in parte, a capitale pubblico.
Ovviamente, la parte del leone la fa una nostra vecchia conoscenza, sì quella Deutsche Bank che non è solo il primo istituto di credito tedesco, ma è anche una banca globale che annovera nei suoi bilanci (al di sopra e al di sotto della linea di bilancio) poco meno di 60 mila miliardi tra derivati e titoli tossici, ebbene questa banca ha avviato per centinaia di suoi clienti le pratiche che portavano a costituire presso lo studio Mossack Fonseca società off shore, un accompagnamento verificatosi oltre quattrocento volte e che sarebbe stato facilitato, oltre che dalle sue dimensioni, anche dal fatto che uno dei due soci fondatori dello studio legale panamense è di origine tedesca.
Ma il bello, come rivela un articolo de La Stampa, è che già due anni fa una persona aveva venduto alle autorità tedesche uno spaccato di questo sistema ed erano state multate alcune banche tedesche, come ad esempio Commerzbank che ha dovuto pagare 17 milioni di euro, oltre a promettere, cosa che a quanto pare non ha fatto, di non adottare più simili comportamenti.
Tra le banche sotto esame da parte delle autorità tedesche, che va detto sono tra le più inflessibili al mondo nel perseguire le pratiche disinvolte dei cittadini tedeschi, vi è anche la Hypovereinbank che, come è noto, fa parte del gruppo Unicredit, e avrebbe aiutato la costituzione di sole 17 società off shore rispetto alle centinaia delle altre grandi banche tedesche, ma il danno reputazionale è fatto!
Certo, questo immenso giro di denaro, un giro che peraltro non è stato ancora quantificato nella sua interezza, è stato facilitato da oltre 500 banche all over the world, ma il totale delle società tedesche sul totale di quelle aperte dallo studio panamense sfiora il dieci per cento (l'8 per cento circa per la precisione) ed è compiuto in larga misura da banche che due anni fa avevano ricevuto il cartellino giallo dalle autorità tedesche.
Comunque, con buona pace di quanto affermato di recente in televisione dal prof. Masciandaro, di questo caso sentiremo parlare a lungo e i provvedimenti, stavolta, dovrebbero essere molto diversi da quelli assunti in passato!
Non ricordo, neanche negli anni più caldi della tempesta perfetta, precedenti di un incontro tra il Governo e il Gotha dei banchieri italiani, anche perché in quegli anni, mentre in tutta Europa si salvavano le banche spendendo circa 600 miliardi di euro, il Governo del nostro paese non spese un centesimo e, infatti, i Monti Bond, peraltro utilizzati in buona sostanza soltanto dal disastrato Monte dei Paschi di Siena, vedono la luce quando oramai l'ondata di piena della prima fase della crisi finanziaria è passata e il sistema creditizio italiano subisce le conseguenze degli "errori" dei banchieri nostrani e il montare delle sofferenze legate alla crisi economica prodotta da quello che negli anni precedenti era accaduto in quel casinò a cielo aperto che era stato per giudizio dei grandi della terra il sistema della finanza strutturata.
Alla riunione ha partecipato, almeno nella parte iniziale, anche il presidente del Consiglio, Matteo Renzi e ha fornito indicazioni generali per poi lasciare la guida della riunione a Pier Carlo Padoan, il ministro dell'Economia proveniente dall'OCSE dove aveva svolto una lunga e fortunata carriera come economista, e Padoan, attorniato dai vertici della potentissima Cassa Depositi e Prestiti, ha ascoltato pazientemente il libro delle lamentazioni dei ben remunerati amministratori delegati delle principali banche italiane.
A quell'affollato tavolo sedevano cacciatori e prede della nuova fase di ristrutturazione del sistema bancario italiano, ma ospite invisibile era anche la potente signora che guida la vigilanza della Banca Centrale Europea, Danièle Nouy, sì quella che sta facendo perdere loro il sonno con le sue richieste perentorie che spesso partono proprio dal carico di sofferenze della banche italiane, partendo da un modello, quello di Francoforte, che prende a riferimento le sofferenze lorde più che quelle nette, quasi che gli accantonamenti effettuati dalle banche non valessero tanto se si entra in una fase di default.
Quello che i banchieri e il Governo si sono detti nella riunione di martedì è, ovviamente, coperto dal riserbo più assoluto, ma, come sempre, qualcosa è trapelato a riguardo della possibile costituzione di un veicolo comune, dote di dieci miliardi di euro, che dovrebbe smaltire in parte il peso delle sofferenze e lo spinoso capitolo degli aumenti di capitale delle disastrate banche venete, con i due big del settore creditizio impegnate a garantire l'aumento della Banca Popolare di Vicenza, Unicredit, e quello di Veneto Banca, Intesa San Paolo; un punto, quest'ultimo, su cui credo proprio che gli animi si siano alquanto scaldati!
Credo proprio che, se avessero visto attentamente il film Il sarto di Panama, Putin, il premier cinese e tanti altri potenti della terra che hanno fatto ricorso ai servigi di un importante studio legale panamense per occultare parte delle loro più o meno ingenti ricchezze ci avrebbero pensato almeno due volte prima di scegliere questa parte del mondo.
Di paradisi fiscali, liste più o meno nere e di stati canaglia abbiamo sentito parlare tante volte, ma, come ricordavano ieri alcuni valenti economisti, raramente, io direi mai, dalle roboanti promesse di fare pulizia e di recuperare l'ingente maltolto dell'evasione fiscale che così spesso è alla base della costruzione di queste scatole societarie, infarcite di prestanome dove è difficile risalire al nome del beneficiario ultimo, si è passati ai fatti.
Stavolta a essere beccati con le mani nella marmellata sono i clienti di questo rinomato studio legale basato in quel di Panama ma con studi associati in decine di paesi e sempre per colpa di un dipendente infedele che, forse per lucro o per altri insondabili motivi, ha passato alla Suddeutsche Zeitung un milione di documenti racchiusi in 2,3 terabyte di informazioni, documenti che il giornale tedesco ha poi condiviso con altre decine di testate nel mondo e, tutti insieme questi organi di informazione che fanno parte di un network di giornalismo investigativo, hanno messo negli scorsi mesi al lavoro oltre trecento giornalisti che hanno lavorato in tandem sui nomi più importanti mentre hanno operato singolarmente sui nomi dei clienti dei rispettivi paesi.
Sia chiaro, non è, come ha ricordato il caporedattore de L'espresso, la testata che sta svolgendo il lavoro sui circa 800 italiani che hanno costituito società off shore a Panama, che si sia partiti da liste di nomi, anche perché in non pochi casi si tratta di prestanomi, ma si è dovuto "lavorare" ogni singolo fascicolo per risalire ai reali beneficiari della società, un lavoro certosino che ha però alla fine dato i suoi frutti.
Nell'epoca della globalizzazione della finanza non è un reato portare dove si voglia i propri capitali ma c'è il piccolo particolare che tali movimenti vanno denunciati al fisco del paese di appartenenza del singolo investitore, un adempimento al quale si sono sottratte a quanto pare, tutte le persone coinvolte in questa vicenda. Dopo il clamore della notizia, ieri è stata l'ora delle smentite, alcune molto veementi e indignate, ma i giornalisti ricordano che hanno a disposizione i mandati firmati da tutti i reali beneficiari ultimi!
E’ apparsa domenica sera la notizia e già oggi è rimbombata su tutti i media, parliamo dello scandalo dei paradisi fiscali, che ha visto coinvolti, molti leader mondiali, calciatori importanti, imprenditori e gente comune. Secondo le prime notizie sarebbero coinvolti per l’Italia Luca Cordero di Montezemolo, il quale, attraverso la sua segreteria ha fatto sapere di essere estraneo ai fatti e le Banche UBI e Unicredit. Ma vediamo nel dettaglio cosa sono le società offshore e come funzionano. A differenza delle tante opinioni, le società offshore non servono esclusivamente ad eludere o evadere le tasse, ma, principalmente servono ad occultare le proprietà. Quali i vantaggi? Innanzitutto nell’elusione delle imposte relative al tetto fiscale, alla protezione del capitale da coniugi o creditori, protezione dei propri capitali, riduzione del carico fiscale,
ecc. Offshore significa “fuori dalle acque territoriali”, zona di nessuno, con sede fuori dal Paese di residenza.
Ogni Paese considerato paradiso fiscale offre limitati vantaggi ai residenti o alle società domiciliate. Per esempio, nel Principato di Monaco non si pagano le tasse sui redditi personali (da noi esempio l’IRPEF), mentre le società sono altamente tassate. A Panama, appunto oggetto dell’inchiesta, non si pagano le tasse sempre e quando il reddito non sia prodotto nel territorio nazionale.
Il business offshore è in genere gestito da qualcuno residente in un Paese ad alta tassazione e che desidera, anche in parte, eludere le tasse.
L’attività deve apparire come residente all’estero, le fatture sono emesse dal Paese di residenza fiscale della società e all’estero devono essere pagate. Dal conto offshore potete ritirare i soldi come volete, ma non devono essere mai inviati sul vostro conto. Potete usare il bancomat, carte di credito o triangolazioni su altri conti. Con questa procedura e con un buon consulente siete al sicuro dai rischi da controlli fiscali.
I costi per la costituzione di una offshore sono estremamente bassi e convenienti, una società anonima può costare circa 1200 euro e comprende: agente residente, notaio, tassa annuale, tassa sul capitale, imposte di registro, delega generale notarile e apostillata ed azione portatore. Se invece avete bisogno di fatturare, in questo caso non è necessaria una presenza fisica, potete usare una società anonima di Panama con una succursale in paese non black list, esempio Lussemburgo, al costo complessivo di sole 2300 euro.
Ovviamente se avete intenzione di aprire una offshore dovete prendere alcune precauzioni:
• mantenere l’anonimato;
• non dovete avere uffici nel vostro paese;
• il vostro sito internet deve essere registrato offshore;
• non dovete pubblicare su internet indirizzi e telefoni o mail indicativi di nome e cognome;
• non inviare per mail le fatture;
• deposito atti e documenti presso notaio in busta chiusa;
• i pagamenti devono essere fatti tutti all’estero;
• non trasferire mai i soldi dal conto offshore al vostro
• la contabilità e la corrispondenza segrete.
La caccia al tesoro è partita.