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Oramai è un tam tam inarrestabile: le donne e gli uomini al servizio di Danièl Nouy, la potentissima responsabile della vigilanza della Banca Centrale Europea, stanno lavorando attivamente sul dossier dei Non Performing Loans delle banche italiane che, a livello di sistema, evidenziano un rapporto percentuale sui crediti sani che sfiora il 20 per cento, il triplo del rapporto evidenziato in media dai paesi che, come noi, adottano la moneta unica europea; questo fornisce una chiave di lettura ben diversa al recente summit tra il Governo, il Governatore della Banca d'Italia, i vertici al completo della Cassa Depositi e prestiti e i due molto afflitti amministratori delegati della prima e della seconda banca italiana, sì quella Unicredit e Banca Intesa San Paolo che devono garantire gli aumenti di capitale della Banca Popolare di Vicenza e di Veneto Banca, rispettivamente e che già sanno che dovranno farsi carico di un rilevante inoptato a causa del carico di sofferenze che quei due istituti di credito veneti hanno in pancia.
Ma il problema è che, in quel vertice, i due presunti salvatori che, insieme, rappresentano una parte considerevole dell'intero sistema bancario, hanno dimostrato di avere a loro volta bisogno di essere salvati, anche perché sono detentori di una parte più che proporzionale di Non Performing Loans, in particolare Unicredit, e quindi hanno bisogno come il pane di questo fantomatico fondo da 10 miliardi di euro per smaltire le sofferenze e, questa è la vera novità, garantire aumenti di capitale in gran parte finalizzati a coprire le perdite derivanti dalla cessione forzata di sofferenze e altri crediti deteriorati a prezzi di mercato che non si discostano di molto dal valore nominale degli stessi, come dimostra l'aumento di capitale del Banco Popolare da un miliardo di euro, aumento di capitale interamente utilizzato per coprire parte delle perdite derivanti dallo smaltimento di 10 miliardi di euro di NPL in tre anni imposto, in sede di fusione con la Banca Popolare di Milano, proprio dalla Nouy.
Ho scritto più volte sui sonni persi da amministratori delegati e presidenti delle banche nostrane in relazione alle vere intenzioni della vigilanza BCE e, certamente, avere un orizzonte temporale presumibilmente triennale per portarsi agli standard europei nel rapporto tra sofferenze e impieghi vivi è qualcosa di difficilmente immaginabile, dopo decenni di vigilanza alquanto distratta esercitata dalla Banca d'Italia e credo proprio che in quel di Siena non si chiuda occhio ormai da mesi, alla luce di un rapporto tra crediti deteriorati e impieghi vicino al 40 per cento, cinque volte la media europea e con valori dell'azione del Monte dei Paschi di Siena calata rispetto ai massimi del 2007 ad un valore da prefisso telefonico!
Ma quello che più rode ai vertici bancari italiani è il fatto che il modello utilizzato dalle donne e dagli uomini di Madame Nouy prende a riferimento le sofferenze lorde e non quelle nette, 200 miliardi di euro circa le prime contro un molto più ragionevole 88 miliardi le seconde, perché sostengono che gli accantonamenti non reggerebbero ad una situazione di stress che loro vedono come molto più probabile di quanto ritengono i nostri amministratori delegati. Tutto questo spiega i crolli delle azioni delle banche italiane molto più di tanti astrusi ragionamenti!
Che i clienti non andassero da soli allo studio legale panamense Mossack Fonseca lo aveva capito anche il più sprovveduto dei miei quattro lettori, ma nessuno avrebbe potuto immaginare la diffusione di questa pratica di accompagnamento esistente tra le banche tedesche, con sei delle maggiori banche tedesche pienamente coinvolte e altre 21 banche di minori dimensioni e, almeno in parte, a capitale pubblico.
Ovviamente, la parte del leone la fa una nostra vecchia conoscenza, sì quella Deutsche Bank che non è solo il primo istituto di credito tedesco, ma è anche una banca globale che annovera nei suoi bilanci (al di sopra e al di sotto della linea di bilancio) poco meno di 60 mila miliardi tra derivati e titoli tossici, ebbene questa banca ha avviato per centinaia di suoi clienti le pratiche che portavano a costituire presso lo studio Mossack Fonseca società off shore, un accompagnamento verificatosi oltre quattrocento volte e che sarebbe stato facilitato, oltre che dalle sue dimensioni, anche dal fatto che uno dei due soci fondatori dello studio legale panamense è di origine tedesca.
Ma il bello, come rivela un articolo de La Stampa, è che già due anni fa una persona aveva venduto alle autorità tedesche uno spaccato di questo sistema ed erano state multate alcune banche tedesche, come ad esempio Commerzbank che ha dovuto pagare 17 milioni di euro, oltre a promettere, cosa che a quanto pare non ha fatto, di non adottare più simili comportamenti.
Tra le banche sotto esame da parte delle autorità tedesche, che va detto sono tra le più inflessibili al mondo nel perseguire le pratiche disinvolte dei cittadini tedeschi, vi è anche la Hypovereinbank che, come è noto, fa parte del gruppo Unicredit, e avrebbe aiutato la costituzione di sole 17 società off shore rispetto alle centinaia delle altre grandi banche tedesche, ma il danno reputazionale è fatto!
Certo, questo immenso giro di denaro, un giro che peraltro non è stato ancora quantificato nella sua interezza, è stato facilitato da oltre 500 banche all over the world, ma il totale delle società tedesche sul totale di quelle aperte dallo studio panamense sfiora il dieci per cento (l'8 per cento circa per la precisione) ed è compiuto in larga misura da banche che due anni fa avevano ricevuto il cartellino giallo dalle autorità tedesche.
Comunque, con buona pace di quanto affermato di recente in televisione dal prof. Masciandaro, di questo caso sentiremo parlare a lungo e i provvedimenti, stavolta, dovrebbero essere molto diversi da quelli assunti in passato!
Non ricordo, neanche negli anni più caldi della tempesta perfetta, precedenti di un incontro tra il Governo e il Gotha dei banchieri italiani, anche perché in quegli anni, mentre in tutta Europa si salvavano le banche spendendo circa 600 miliardi di euro, il Governo del nostro paese non spese un centesimo e, infatti, i Monti Bond, peraltro utilizzati in buona sostanza soltanto dal disastrato Monte dei Paschi di Siena, vedono la luce quando oramai l'ondata di piena della prima fase della crisi finanziaria è passata e il sistema creditizio italiano subisce le conseguenze degli "errori" dei banchieri nostrani e il montare delle sofferenze legate alla crisi economica prodotta da quello che negli anni precedenti era accaduto in quel casinò a cielo aperto che era stato per giudizio dei grandi della terra il sistema della finanza strutturata.
Alla riunione ha partecipato, almeno nella parte iniziale, anche il presidente del Consiglio, Matteo Renzi e ha fornito indicazioni generali per poi lasciare la guida della riunione a Pier Carlo Padoan, il ministro dell'Economia proveniente dall'OCSE dove aveva svolto una lunga e fortunata carriera come economista, e Padoan, attorniato dai vertici della potentissima Cassa Depositi e Prestiti, ha ascoltato pazientemente il libro delle lamentazioni dei ben remunerati amministratori delegati delle principali banche italiane.
A quell'affollato tavolo sedevano cacciatori e prede della nuova fase di ristrutturazione del sistema bancario italiano, ma ospite invisibile era anche la potente signora che guida la vigilanza della Banca Centrale Europea, Danièle Nouy, sì quella che sta facendo perdere loro il sonno con le sue richieste perentorie che spesso partono proprio dal carico di sofferenze della banche italiane, partendo da un modello, quello di Francoforte, che prende a riferimento le sofferenze lorde più che quelle nette, quasi che gli accantonamenti effettuati dalle banche non valessero tanto se si entra in una fase di default.
Quello che i banchieri e il Governo si sono detti nella riunione di martedì è, ovviamente, coperto dal riserbo più assoluto, ma, come sempre, qualcosa è trapelato a riguardo della possibile costituzione di un veicolo comune, dote di dieci miliardi di euro, che dovrebbe smaltire in parte il peso delle sofferenze e lo spinoso capitolo degli aumenti di capitale delle disastrate banche venete, con i due big del settore creditizio impegnate a garantire l'aumento della Banca Popolare di Vicenza, Unicredit, e quello di Veneto Banca, Intesa San Paolo; un punto, quest'ultimo, su cui credo proprio che gli animi si siano alquanto scaldati!
Credo proprio che, se avessero visto attentamente il film Il sarto di Panama, Putin, il premier cinese e tanti altri potenti della terra che hanno fatto ricorso ai servigi di un importante studio legale panamense per occultare parte delle loro più o meno ingenti ricchezze ci avrebbero pensato almeno due volte prima di scegliere questa parte del mondo.
Di paradisi fiscali, liste più o meno nere e di stati canaglia abbiamo sentito parlare tante volte, ma, come ricordavano ieri alcuni valenti economisti, raramente, io direi mai, dalle roboanti promesse di fare pulizia e di recuperare l'ingente maltolto dell'evasione fiscale che così spesso è alla base della costruzione di queste scatole societarie, infarcite di prestanome dove è difficile risalire al nome del beneficiario ultimo, si è passati ai fatti.
Stavolta a essere beccati con le mani nella marmellata sono i clienti di questo rinomato studio legale basato in quel di Panama ma con studi associati in decine di paesi e sempre per colpa di un dipendente infedele che, forse per lucro o per altri insondabili motivi, ha passato alla Suddeutsche Zeitung un milione di documenti racchiusi in 2,3 terabyte di informazioni, documenti che il giornale tedesco ha poi condiviso con altre decine di testate nel mondo e, tutti insieme questi organi di informazione che fanno parte di un network di giornalismo investigativo, hanno messo negli scorsi mesi al lavoro oltre trecento giornalisti che hanno lavorato in tandem sui nomi più importanti mentre hanno operato singolarmente sui nomi dei clienti dei rispettivi paesi.
Sia chiaro, non è, come ha ricordato il caporedattore de L'espresso, la testata che sta svolgendo il lavoro sui circa 800 italiani che hanno costituito società off shore a Panama, che si sia partiti da liste di nomi, anche perché in non pochi casi si tratta di prestanomi, ma si è dovuto "lavorare" ogni singolo fascicolo per risalire ai reali beneficiari della società, un lavoro certosino che ha però alla fine dato i suoi frutti.
Nell'epoca della globalizzazione della finanza non è un reato portare dove si voglia i propri capitali ma c'è il piccolo particolare che tali movimenti vanno denunciati al fisco del paese di appartenenza del singolo investitore, un adempimento al quale si sono sottratte a quanto pare, tutte le persone coinvolte in questa vicenda. Dopo il clamore della notizia, ieri è stata l'ora delle smentite, alcune molto veementi e indignate, ma i giornalisti ricordano che hanno a disposizione i mandati firmati da tutti i reali beneficiari ultimi!
E’ apparsa domenica sera la notizia e già oggi è rimbombata su tutti i media, parliamo dello scandalo dei paradisi fiscali, che ha visto coinvolti, molti leader mondiali, calciatori importanti, imprenditori e gente comune. Secondo le prime notizie sarebbero coinvolti per l’Italia Luca Cordero di Montezemolo, il quale, attraverso la sua segreteria ha fatto sapere di essere estraneo ai fatti e le Banche UBI e Unicredit. Ma vediamo nel dettaglio cosa sono le società offshore e come funzionano. A differenza delle tante opinioni, le società offshore non servono esclusivamente ad eludere o evadere le tasse, ma, principalmente servono ad occultare le proprietà. Quali i vantaggi? Innanzitutto nell’elusione delle imposte relative al tetto fiscale, alla protezione del capitale da coniugi o creditori, protezione dei propri capitali, riduzione del carico fiscale,
ecc. Offshore significa “fuori dalle acque territoriali”, zona di nessuno, con sede fuori dal Paese di residenza.
Ogni Paese considerato paradiso fiscale offre limitati vantaggi ai residenti o alle società domiciliate. Per esempio, nel Principato di Monaco non si pagano le tasse sui redditi personali (da noi esempio l’IRPEF), mentre le società sono altamente tassate. A Panama, appunto oggetto dell’inchiesta, non si pagano le tasse sempre e quando il reddito non sia prodotto nel territorio nazionale.
Il business offshore è in genere gestito da qualcuno residente in un Paese ad alta tassazione e che desidera, anche in parte, eludere le tasse.
L’attività deve apparire come residente all’estero, le fatture sono emesse dal Paese di residenza fiscale della società e all’estero devono essere pagate. Dal conto offshore potete ritirare i soldi come volete, ma non devono essere mai inviati sul vostro conto. Potete usare il bancomat, carte di credito o triangolazioni su altri conti. Con questa procedura e con un buon consulente siete al sicuro dai rischi da controlli fiscali.
I costi per la costituzione di una offshore sono estremamente bassi e convenienti, una società anonima può costare circa 1200 euro e comprende: agente residente, notaio, tassa annuale, tassa sul capitale, imposte di registro, delega generale notarile e apostillata ed azione portatore. Se invece avete bisogno di fatturare, in questo caso non è necessaria una presenza fisica, potete usare una società anonima di Panama con una succursale in paese non black list, esempio Lussemburgo, al costo complessivo di sole 2300 euro.
Ovviamente se avete intenzione di aprire una offshore dovete prendere alcune precauzioni:
• mantenere l’anonimato;
• non dovete avere uffici nel vostro paese;
• il vostro sito internet deve essere registrato offshore;
• non dovete pubblicare su internet indirizzi e telefoni o mail indicativi di nome e cognome;
• non inviare per mail le fatture;
• deposito atti e documenti presso notaio in busta chiusa;
• i pagamenti devono essere fatti tutti all’estero;
• non trasferire mai i soldi dal conto offshore al vostro
• la contabilità e la corrispondenza segrete.
La caccia al tesoro è partita.
Le statistiche a volte sono davvero impietose e ci dicono che le banche italiane quotate a Piazza Affari hanno perso nel primo trimestre di questo anno di disgrazia 2016 il 32 per cento del proprio valore, quindi, in soli tre mesi, un terzo circa della capitalizzazione di borsa delle nostre banche primarie è andato in fumo e, in questo caso, non vale l'ironia di Trilussa sulle statistiche, perché i ribassi sono abbastanza equamente distribuiti sulle banche di cui mi sono occupato in questo periodo nel Diario della crisi finanziaria.
Ma il problema vero è dato dal fatto che se in questi tre mesi l'andamento delle quotazioni è stato sostanzialmente one way, non è andata di certo meglio nel 2015, anno in cui si è registrato, per la maggior parte delle banche quotate l'abbandono di massimi di periodo che già a dicembre segnalavano cali notevoli delle quotazioni e questo in un anno che ha visto il listino generale crescere di un robusto 15 per cento, variazione positiva che è stata la più alta tra quelle registrate nello stesso periodo dagli altri listini europei.
Procediamo in ordine di importanza, rispetto ai massimi del 2015, Unicredit, primo gruppo bancario italiano ha perso il 53 per cento, mentre un po' meglio ha fatto Intesa San Paolo che perso "solo" il 35 per cento, mentre la terza classificata nella graduatoria dei gruppi bancari, Banca del Monte dei Paschi di Siena (e lo rimarrà, salvo stravolgimenti anche dopo la fusione tra Banco Popolare e Banca Popolare di Milano, almeno per il totale attivo) ha lasciato sul terreno nel breve volgere di dodici mesi l'81 per cento del valore di borsa e, quindi, della capitalizzazione.
Venendo un po' più in basso nella graduatoria, il Banco Popolare, promesso sposo della più piccola Banca Popolare di Milano, ha perso il 65 per cento della propria capitalizzazione, mentre la sposa limita le perdite al 42 per cento, ma peggio ha fatto UBI che, nel breve volgere di 12 mesi, è passata da un valore dell'azione di 15 euro ai 3,24 di venerdì.
Ma il discorso si davvero drammatico per gli azionisti delle due banche di medio grandi dimensioni non quotate, Banca Popolare di Vicenza e Veneto Banca che, in assenza di una presenza dell'azione nei mercati regolamentati, hanno visto scendere, senza possibilità di vendere, il valore dell'azione da valori superiore ai 60 euro e ai 6,3 e 7,3 euro, rispettivamente, del valore di un diritto di riscatto che le rispettive banche impediscono loro di esercitare e che si apprestano a vedere, in sede di prossima quotazione, scendere ancora il valore delle rispettive azioni a valori oscillanti intorno all'euro!
Aperto il primo bando di *Adrion, il Programma di Cooperazione Territoriale Europea di cui la Regione Emilia-Romagna è Autorità di Gestione per conto della Commissione Europea*.
Si tratta di oltre 33 milioni di euro a disposizione di istituzioni pubbliche e di privati per presentare progetti per sostenere l’innovazione, per la valorizzazione dei beni naturali e culturali e per realizzare
servizi integrati di trasporto e di mobilità nell'area adriatico-ionico.
Il programma Interreg Adrion 2014-2020 ha l’obiettivo di supportare la Strategia europea per la macroregione adriatico ionica (EUSAIR).
Per info scrivere a: This email address is being protected from spambots. You need JavaScript enabled to view it.
Questo primo bando è aperto a tre assi prioritari del Programma:
1) Regione Innovativa e intelligente ha l’obiettivo di sostenere lo sviluppo di un sistema regionale dell’innovazione per l'area adriatico-ionica;
2) Regione sostenibile mira a promuovere la "valorizzazione e la conservazione dei beni naturali e culturali come asset di crescita sostenibile nell'area e a rafforzare la capacità di affrontare a livello
transnazionale la vulnerabilità ambientale;"
3) Regione connessa ha lo scopo di migliorare la capacità per i servizi integrati di trasporto e di mobilità e multimodalità.
Per l’Italia le Regioni interessate sono: Abruzzo, Basilicata, Calabria, Emilia-Romagna, Friuli-Venezia Giulia, Lombardia, Marche, Molise, Puglia, Sicilia, Umbria, Veneto, Provincia Autonoma di Bolzano e Provincia Autonoma di Trento.
La dimensione finanziaria dei progetti presentati dovrà attestarsi tra gli 800 mila euro e i 1.500.000 euro.
I progetti avranno un tasso di *cofinanziamento comunitario pari all’85% dei costi ammissibili*. La quota di spesa del 15% non coperta dai fondi FESR o IPAII verrà garantito da fonti di cofinanziamento nazionali.
Torna a salire il tasso di disoccupazione a febbraio. E' pari all'11,7%, secondo i dati provvisori dell'Istat, in aumento di 0,1 punti percentuali rispetto a gennaio.
L'Istat stima che i disoccupati a febbraio siano aumentati di circa 7.000 unità, con un aumento percentuale dello 0,3% che sintetizza un dato di crescita tra gli uomini e di calo tra le donne.
A febbraio 2016 il tasso di disoccupazione giovanile diminuisce al 39,1%, in calo di 0,1 punti percentuali rispetto al mese precedente. Lo rileva l'Istat nei dati provvisori precisando che dal calcolo del tasso di disoccupazione sono esclusi i giovani inattivi, cioè coloro che non sono occupati e non cercano lavoro, nella maggior parte dei casi perché impegnati negli studi. Nell'ultimo mese, inoltre, cresce tra i 15-24enni il tasso di occupazione (+0,2 punti fino al 15,6%) e cala l'inattività (-0,3 punti al 74,3%).
A febbraio ci sono 97 mila occupati in meno a causa della riduzione dei lavoratori permanenti. Questi sono 92 mila in meno in un mese, secondo i dati provvisori dell'Istat. Per i dipendenti a tempo indeterminato è il primo calo da inizio 2015. "Dopo la forte crescita registrata a gennaio 2016 (+0,7%, pari a +98 mila) - spiega l'istituto - presumibilmente associata al meccanismo di incentivi introdotto dalla legge di stabilità 2015" il calo dell'ultimo mese riporta i dipendenti permanenti ai livelli di dicembre 2015.
Dopo essersi concentrati su Carige, ora sotto attacco dal fondo Apollo con la benedizione della BCE, sulla fusione finalmente deliberata dai consigli di Banco Popolare e Banca Popolare di Milano, sulla Banca Popolare di Vicenza e, anche se un po' sotto traccia, su Veneto Banca, gli uomini e le donne guidati da Danielle Nouy, una donna che non è paga di essere il primo capo della vigilanza europea ma punta a crescere nella BCE, stanno esaminando dossier corposi il primo localizzato in quel di Siena, dove il pur bravo amministratore delegato, Fabrizio Viola non riesce a scalare l'alta montagna di sofferenze lorde e nette che ancora attanagliano il suo gruppo e Unipol Banca, la banca di Unipol-Sai, chissà perché dal nome è scomparso ogni riferimento alla storica Fondiaria, una banca che è riuscita non solo ad avere sofferenze nette per più di un terzo degli impieghi in salute, ma a concentrare incagli e sofferenze nel periglioso settore delle costruzioni, un settore dove al massimo puoi pignorare cantieri più o meno in corso di realizzazione e rimani, quindi, con il classico pugno di mosche in mano.
Del gruppo Monte dei Paschi di Siena mi sono occupato in diverse puntate del Diario della crisi finanziaria, preconizzando peraltro un matrimonio possibile e opportuno con BNP Paribus, un gruppo che dispone della liquidità disponibile al servizio dell'eventuale acquisizione, ma che ogni volta si dichiara pago del possesso nel nostro Paese della Banca Nazionale del Lavoro e di Findomestic, una società leader nel credito al consumo e nei piccoli finanziamenti, anche se non è più la gallina dalle uova d'oro del settore. Il Governo italiano e la Banca d'Italia sono attivamente impegnati in opera di moral suasion per indurre qualche pretendente a farsi avanti, ma al momento al povero Viola non resta che lavorare a testa bassa all'operazione di pulizia dei bilanci e di riorganizzazione di quello che un tempo era non solo l'istituto di credito tra i più solidi del panorama creditizio italiano, ma anche un possibile gruppo aggregante, purtroppo azzoppato dalla frettolosa e esageratamente costosa operazione di acquisizione lampo di Antonveneta.
Molto più complessa e delicata e la situazione dei conti della branca bancaria del gruppo Unipol-Sai, quella Unipol Banca che è riuscita nel capolavoro di avere poco più di 9 miliardi di impieghi e a collezionare crediti deteriorati e sofferenze lorde per poco meno di 4 miliardi, forte di un contratto del 2011 che prevede che la capogruppo si faccia carico di buona parte delle sofferenze, cosa che finora ha fatto per un miliardo circa ma non è più disposto a incrementare la dote per questa figlia spendacciona e innamorata dei costruttori e, quindi, cerca disperatamente partner bancari nel settore delle banche popolari, inclusa la vicina Banca Popolare dell'Emilia Romagna, ma nessun cavaliere bianco non chiederà al gruppo assicurativo di farsi carico di tutte o larga parte delle sofferenze e di questo sono ben consapevoli gli uomini alla guida di Unipol, o certamente lo è l'amministratore delegato Carlo Cimbri!
Primo capo della vigilanza sulle banche dei paesi membri dell'area euro e prima donna nel consiglio della Banca Centrale Europea, Daniéle Nouy, 66 anni, entra nel 1974 alla Banca di Francia e ne esce venti anni dopo per fare esperienza in organismi finanziari sovranazionali e poi tornare alla Banca di Francia nel 2010 come capo della vigilanza, incarico che ricoprirà fino al giorno della nomina a presidente del Supervisory Board presso la BCE, cioè appunto capo della neonata vigilanza bancaria europea.
Ho ripercorso pedissequamente il suo brillante curriculum perché è fondamentale per capire il suo modo di intendere il problema della solidità e stabilità delle banche, che è un approccio con molte somiglianza con quello proprio della Bundesbank e non è un caso se, nell'analisi delle criticità di una banca tipo, l'asse franco-tedesco privilegi quella riferibile ai Non Performing Loans, crediti deteriorati e sofferenze in senso stretto (sia lorde che nette) rispetto a quella rappresentata da quelle vere e proprie montagne difficilmente scalabili denominati derivati e titoli tossici in pancia alle banche globali come Deutsche Bank, Commerzbank, BNP Paribus, Credit Lyonnaise che evidenziano un nozionale complessivo che è un deciso ultimo del prodotto lordo dell'intera Unione europea, inclusi i paesi esterni all'area euro, per non parlare del salvataggio delle landesbanken e delle sparkassen tedesche!
E' questo un rovesciamento della realtà del quale pagheremo tutti alla lunga le conseguenze, ma intanto Daniéle procede come un rullo compressore con una particolare attenzione alle banche nostrane, che non è che siano esenti da difetti, e, nel giro di pochi mesi ha colpito Carige, Banco Popolare e Banca Popolare di Milano, Banco popolare di Vicenza e Veneto Banca ( in questi ultimi due casi decisamente troppo tardi), sta attenzionando Monte dei Paschi di Siena e Unipol Banca e sta strattonando Banca Popolare dell'Emilia Romagna e Ubi Banca perché raccattino qualche banca di medie dimensioni e via discorrendo perché, anche nelle banche non ancora colpite, vi è una diffusa insonnia dei vertici provocata dal timore di ricevere una draft da Francoforte.
Ma è di ieri la notizia che il fondo statunitense Apollo avrebbe proposto a Banca Carige di rilevare tutte le sue sofferenze a prezzi di mercato proponendosi di ripianare le conseguenti e ingenti perdite con un aumento di capitale riservato al fondo per 500 milioni di euro mentre 50 milioni sarebbero riservati agli attuali azionisti, Malacalza in testa, un'offerta apertamente gradita dalla Nouy che non del tutto a caso chiede a Carige di presentare un funding plan entro il 31 marzo, cioè entro domani!
Il 17 aprile 2016 si avvicina e con esso la data fissata laddove “Con l’astensione al referendum, il Governo avrebbe voluto il silenzio tombale sulle politiche energetiche del Paese”. Ebbene fare chiarezza su questo che, come vedrete leggendo l’articolo, sarà un Referendum inutile sul quale si giocheranno, in materia di rinnovo le concessioni delle estrazioni petrolifere all’interno delle 12 miglia marine. Facciamo un po’ di flash back: il Governo con le disposizioni contenute nel decreto “Sblocca Italia” ha ritenuto di assicurare la continuità a vita delle attuali estrazioni oltre ad autorizzare ulteriori attività di prospezione, ricerca ed estrazione petrolifere oltre la distanza di 12 miglia dalle coste.
La frenetica attività di numerosi Presidenti di Regione, esattamente nove,ha assicurato la possibilità di tenere questo referendum finalizzato ad abrogare alcuni articoli del disposto “Sblocca Italia”, esattamente quelli relativi al rinnovo della concessione impianti di estrazione petrolifera e gas posti all’interno delle 12 miglia marine. Pertanto, risultano esenti dagli effetti del Referendum tutte le attività di prospezione ed estrattive dislocate oltre il perimetro citato delle 12 miglia marine dalla costa.
Con l’astensione al Referendum, il Governo potrebbe ottenere il silenzio tombale sulle politiche energetiche del Paese e di questo ne è convinto il presidente della Regione Puglia Michele Emiliano che lancia, così, la sfida al premier Matteo Renzi.Oltre alla Conferenza Episcopale Italiana, che invita a “discutere con i fedeli” partendo dall’enciclica “Green’ Laudato si’” di Papa Francesco, anche Romano Prodi è intervenuto nel dibattito nazionale sul referendum trivelle, definendolo “un Suicidio Nazionale”. Ha affermato: “E’ un tema importantissimo, ci ho riflettuto bene e devo dire che mi sono sempre schierato sull’assoluta necessità di avere, ovviamente nella massima sicurezza, una produzione nazionale, come hanno tutti i Paesi. E’ assolutamente necessario anche attrarre gli investimenti esteri, come accade in tutte le nazioni del mondo, certamente, come detto, garantendo la massima sicurezza. Se non lo facciamo noi nello stesso mare lo fanno altri”. E se lo dice Prodi, dopo le tante chiacchere sull’euro, c’è da stare tranquilli!Su un punto, però, Prodi ha ragione: “Se dovessi votare voterei certamente per mantenere gli investimenti fatti, su questo non ho alcun dubbio anche perché è un suicidio nazionale quello che stiamo facendo”. Ovvio, Romano Prodi sa bene cosa sono i poteri forti!
Dall’altra facciata Forza Italia approfitta dello scontro interno al Pd. L’affondo arriva dal coordinatore regionale, Luigi Vitali, che si chiede: “Se alla fine il Pd in Puglia farà come dice Renzi o come dice Emiliano, il nostro no alle trivelle è convinto – aggiunge - perché è un no a deturpare il nostro territorio e un no alle politiche di Renzi”. A differenza del Partito democratico, che a Roma e a Bari dice cose diverse – continua Vitali – noi non abbiamo nessun imbarazzo nel promuovere il “Sì convinto” al referendum sulla durata delle concessioni petrolifere”.Emiliano, invece, chiede: “Soprattutto partecipazione, perché se andiamo a votare i cittadini avranno la possibilità di informarsi sulle politiche energetiche del Paese". “Ho l’impressione che il Governo avrebbe voluto invece il silenzio tombale. Il referendum è un luogo nel quale si può, anche, preparare una nuova legge per il futuro, non è una sentenza capitale, ma un prodromo del futuro di questo Paese che non potrà realizzarsi senza democrazia e senza partecipazione”.Ma il presidente pugliese va oltre e invita a votare “se possibile ‘Sì’ all’abrogazione della norma che consente ai petrolieri di sfruttare i giacimenti senza limiti e senza controlli” , mi riferisco, ovviamente, a quei giacimenti dislocati all’interno delle citate 12 miglia. “Noi, prosegue Emiliano, vorremmo che la fase finale dello sfruttamento dei pozzi petroliferi fosse controllata, come era stata controllata dalla legge precedentemente in vigore, la n. 9 del 1991, che non aveva fatto licenziare nessuno, non aveva creato nessun problema e quindi è bene che torni in vigore”. Una legge che, peraltro, consente alle Regioni di dire una parola al Governo sulle modalità attraverso le quali si deve decidere se un pozzo deve proseguire la sua vita o deve essere chiuso, attraverso il rinnovo della concessione di sfruttamento, la quale, di durata quinquennale, teoricamente potrebbe essere ratificata di lustro in lustro fino all'esaurimento delle risorse del giacimento sottoposto a questo regime di rinnovo concessorio.In sostanza stiamo assistendo ad un duello tra Renzi che ritiene inutile il Referendum ed invita all'astensione ed Emiliano, capo bastone dei 9 Presidenti di Regione pro Referendum, che invece, finalizza le sorti della sua vittoria al "Si nel Referendum" per gettare una seria ipoteca sulle capacità proprie, unitamente ai Presidenti delle altre Regioni, di poter gestire sine diem la proroga quinquennale delle citate concessioni. In pratica mai come in questo Referendum si sviluppano "Giochi di Potere" semplicemente finalizzati, come per esempio nel sogno di Emiliano, a voler detenere lo scettro del rinnovo quinquennale che, sicuramente, per la regione Puglia è cosa buona e giusta! In pratica la vittoria del "Si al Referendum" potrebbe teoricamente far cessare qualche concessione petrolifera scomoda mentre, in via generale possiamo esserne diversamente sicuri", accadrà, che moltissime Concessioni attuali, di 5 anni in 5 anni, saranno rinnovate nel giogo della ascesa politica e di potere di alcuni Governatori Regionali che, sicuramente, non saranno capaci di sottrarsi all'oscuro gioco delle multinazionali del Petrolio.
In pratica votare "No" oppure "Si" al Referendum risulterà un esercizio banale perché, per molti casi di quegli impianti estrattivi, ora posizionati all'interno delle 12 miglia, nulla cambierà nella opportunità di sfruttamento a vita; nel primo caso, con il "No", si attiverà una concessione unica che concentrerà il potere delle Lobbies del Petrolio su Renzi, mentre, nel secondo caso, con il "Si", con i rinnovi quinquennali, possiamo esserne certi, le lobbies petrolifere a corteggeranno i Presidenti di Regione la dove sono dislocati i loro impianti estrattivi.
In tutto questo nulla si dice sull'inquinamento degli impianti attivi e sui danni all'ambiente ed al territorio; un caso che vale per tutti è Tempa Rossa, dove la fase di estrazione Petrolifera della Basilicata, con l'estrazione di una frazione di idrocarburi fortemente tossica e pericolosa, sta inquinando la falda acquifera del Pertusillo, compromettendo la salute e la potabilità dell'acqua per oltre mezza Puglia. Pertanto, alla luce di questi chiarimenti, appare evidente, salvo qualche caso sporadico, quanto sia pienamente inutile questo Referendum che costerà 300 milioni di € alle tasche del cittadino. La Politica e le Istituzioni si guardano bene di pubblicare idonei chiarimenti in merito. Evviva l’Italia dei mediocri!
Ad un uomo che per tanti anni è stato il dominus indiscusso della Banca Popolare di Vicenza non difettano certo consulenti ed advisors a guidarne le mosse ed è così che, dopo aver rassegnato pochi mesi fa le dimissioni da presidente della sofferente banca veneta, ha prima ceduto tutte le azioni dell'omonima e fortunata azienda vitivinicola, Zonin 1821, ai figli e ha ora ceduto il timone di comando al figlio Domenico, ha promosso ad amministratore delegato il fido Massimo Tuzzi, mentre gli altri tre figli assumono la carica di vicepresidenti della società che ha triplicato il fatturato in pochi anni, giungendo a 186 milioni di euro di fatturato nel 2015.
Mentre la banca, dopo aver evidenziato perdite miliardarie accumulate sotto la sua gestione ed essersi attirata le attenzioni di Madame Danielle Nouy, da un anno a capo della vigilanza della Banca Centrale Europea, attenzioni che si sono tradotte in una lettera di fuoco che ha costretto gli azionisti della Popolare di Vicenza ad una lunga ed infuocata assemblea al termine della quale hanno approvato a larghissima maggioranza la trasformazione in società per azioni e un aumento di capitale da 1,7 miliardi di euro, per citare solo i due punti più dolorosi per gli azionisti di una banca non quotata nei mercati regolamentati e che hanno visto il valore via via attribuito dalla banca al diritto di recesso portarsi a 6,3 euro un valore del 90 per cento inferiore ai massimi toccati dalla quota, anche se il diritto non viene riconosciuto in quanto una provvida, per i vertici, direttiva della Banca d'Italia stabilisce che la banca può rifiutare l'esercizio di questo diritto, quando, e questo è il caso, non sia in grado di rispettare il rispetto dei parametri di patrimonializzazione stabiliti a livello europeo.
Quella di Zonin è evidentemente una mossa ispirata da ben remunerati azzeccagarbugli e non so francamente se sarà coronata dal successo, quello che è certo è che ho seguito le sue vicende anni fa come responsabile dell'ufficio studi di un sindacato nazionale del settore del credito e credo che in pochi casi ho visto una gestione più accentrata nelle mani di un uomo solo, né una banca, fata eccezione forse per il Monte dei Paschi di Siena, più attaccata al suo territorio, quelle province del ricco Nord Est che dopo una fiammata produttiva non accompagnata da investimenti, si sono poi afflosciate su se stesse, provocando una valanga di sofferenze che hanno letteralmente messo a rischio la banca che le aveva concesse, una banca che vedrà il valore dell'azione, una volta avvenuta la quotazione, ben distante dal valore di quel diritto di recesso che gli azionisti non possono più esercitare!
Alla fine Danielle Nouy, capo della vigilanza bancaria europea da quando questa è stata istituita, ha ceduto, sebbene il via libera alla fusione tra Banco Popolare e Banca Popolare di Milano sia informale e non ufficiale, sia avvenuto solo perché le due riottose banche con i loro ultimi chiarimenti avevano ceduto su tutta la linea alle richieste pressanti venute da Francoforte sia in termini di governance che di rafforzamento patrimoniale, per non parlare dei tempi di smaltimento delle sofferenze per giungere infine al venir meno della pretesa di autonomia della BPM per tempi da piano quinquennale di sovietica memoria.
Avendo vissuto in prima linea la prima e la seconda fase di ristrutturazione del sistema bancario italiano, quella per capirci in cui si giunse alla creazione di Unicredit e di Intesa San Paolo e alla sciagurata acquisizione di Antonveneta da parte del Monte dei Paschi di Siena, sì quell'operazione che tanti lutti inferse alla omonima fondazione senese, vedere questa operazione di fusione così rapida e così distruttrice di organismi societari pletorici e frutto di mediazioni spesso inconfessabili mi fa capire che qualcosa davvero sta cambiando nel sistema bancario italiano e che ha davvero ragione la Nouy quando afferma che molto ancora c'è da fare per giungere a quei livelli di concentrazione di cui da tempo va parlando anche il presidente del Consiglio italiano, Matteo Renzi.
Se le assemblee straordinarie dei due istituti previste per maggio daranno il via libera, già nel novembre di questo''anno il nuovo gruppo vedrà la luce con 120 miliardi di impieghi, 2.700 sportelli, 4 milioni di clienti e un carico di sofferenze davvero notevole, anche perché in entrambe le banche che vanno a matrimonio il livello di copertura delle sofferenze supera di poco il 30 per cento, un livello di copertura molto basso che fa sì che la differenza tra le sofferenze lorde e quelle nette sia molto meno netta che nelle altre grandi banche italiane, il che, con un livello di sofferenze lorde più vicine ai 30 che ai 20 miliardi non può che preoccupare chi da Francoforte deve occuparsi di vigilare sulla sostenibilità dei bilanci delle banche dell'area euro.
L'aumento di capitale da un miliardo di euro che il Banco Popolare si è impegnato a varare, visti i tempi e gli sciagurati precedenti, verrà riservato agli investitori istituzionali e verrà effettuato in tempi brevissimi grazie alla regia e alla garanzia di Mediobanca, ma lasciatemi dire che con la trasformazione in società per azioni verrà finalmente detta la parola fine alla gestione sindacale della BPM, sindacato aziendale che dovrà accontentarsi di un rappresentante nel consiglio di amministrazione dell'entità risultante, a mezzi ovviamente con i loro colleghi dell'ormai ex Banco Popolare!
Mi sono già occupato, nella seconda puntata sulla vigilanza europea sulle banche italiane, delle vicende della Banca Popolare di Vicenza, costretta da una lettera intimatoria della BCE a prevedere la trasformazione in società per azioni, la quotazione in borsa e un congruo aumento di capitale, ma il problema riguarda anche un'altra popolare presente sul territorio veneto, Veneto Banca, che ha tutta una serie di somiglianze con la banca un tempo guidata dal viticoltore Zonin, nonché il piccolo particolare che, insieme, hanno perso negli ultimi anni la bella cifra di 4 miliardi di euro all'incirca.
Quando hanno conferito un valore alle loro azioni, ovviamente non quotate nei listini principali, le due banche, come ricorda Stefano Righi sul Corriere della Sera, si sono rivolte a professionisti esterni che hanno stilato una perizia di parte, in questi due casi assolutamente di parte, sul valore della banca, valore che poi ha raggiunto nel tempo i 62,5 euro nel caso della Popolare di Vicenza e i 40,75 euro nel caso di Veneto Banca, portando la capitalizzazione massima della prima a 6,3 miliardi di euro e quella della seconda a 5,08 miliardi di euro.
Il tempo, che in questo caso è stato ben poco galantuomo, ha visto il valore delle azioni delle due banche squagliarsi letteralmente e rimanere inchiodato ai rispetti valori del diritto di recesso attribuiti all'atto dell'assegnazione a 6,3 euro per la Popolare di Vicenza e ai 7,3 euro per Veneto Banca, valori che le due banche ricorrendo allo stesso escamotage giuridico non riconoscono ai possessori delle stesse nonostante sia inferiore del 90 per cento nel caso della Banca di Vicenza e dell'82 per cento circa nel caso di Veneto Banca, ma, se ha ragione Stefano Righi, il valore vero delle azioni, quando approderanno in Piazza Affari, non si discosterà molto dal valore di un euro, centesimo in più centesimo in meno e la frittata sarà stata davvero fatta con buona pace dei risparmiatori che ci hanno creduto.
Come ricordavo all'inizio, ho scritto diversi articoli sulla occhiuta vigilanza europea svolta dalle donne e dagli uomini della BCE, ma credo che quello che è accaduto nelle ricche province del Veneto, sotto una vigilanza della Banca d'Italia che è eufemistico definire assente, è qualcosa di gravissimo e che fa il paio con il doloroso caso delle quattro banche medie recentemente dissolte, ovviamente tutte trasformate in una new bank dopo che azionisti, obbligazionisti e depositanti oltre la soglia dei 100 mila euro hanno perso terzi e capitale, e fa dire che ben venga una vigilanza terza che non guarda in faccia a nessuno e non è per di più ingessata da leggi e disposizioni che facevano arrivare Banca d'Italia sempre in ritardo sugli avvenimenti.
I banchieri si lamentano spesso della reputazione di cui godono presso l'opinione pubblica, ma casi come quello dell'Euribor taroccato, l'anatocismo che rischia sempre di uscire dalla porta e rientrare dalla finestra, l'appoggio tolto alle aziende affidate al primo stormir di fronde e via discorrendo fanno dire questa lack of reputation se la sono cercata.