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Decidere di aprire un’azienda agricola rappresenta un passo molto importante nella vita di ogni giovane imprenditore. Si tratta infatti di una scelta che richiede impegno e dedizione, ma soprattutto tanta curiosità e voglia di entrare in una realtà imprenditoriale molto differente dalle altre.
Chi decide di intraprendere questo percorso, quindi, oltre a rispettare una serie di adempimenti burocratici, deve conoscere eventuali criticità e disporre delle strategie migliori per trasformare l’idea in un progetto di successo.
In particolare, se volessimo sintetizzare l’intero processo in pochi semplici passi, è possibile individuare dieci mosse fondamentali per aprire un’azienda agricola.
1. Avere un’idea d‘impresa intorno alla quale costruire un progetto di sviluppo.
Ciò vuol dire che ancora prima di cominciare è utile avere le idee ben chiare sulla tipologia di imprenditore che si intende diventare. Che si scelga la strada dell’imprenditore agricolo “tradizionale”, specializzato nella produzione in uno specifico comparto, o quella dell’imprenditore agricolo “multifunzionale e pluriattivo”, si andrà incontro a opportunità e scenari normativi piuttosto differenti. Inoltre, avendo un’idea d’impresa ben precisa, è possibile valutare in maniera preventiva tutte le eventuali leve strategiche da attivare: innovazione, vendita diretta, reti, territorio, qualità, agroenergie, agriturismo, fattoria didattica, ecc.
2. Analisi delle caratteristiche e delle potenzialità aziendali tramite l’osservazione del territorio, del mercato, dei concorrenti e delle normative vigenti.
L’intuizione da sola non è sufficiente a decretare il successo di un’attività. Un’idea d’impresa, se pur apparentemente vincente, va sempre accompagnata, prima, dopo o durante l’elaborazione, da un’analisi del mercato e della concorrenza.
Con il supporto di appositi consulenti è quindi consigliabile analizzare:
– Capitale umano (competenze professionali, quale modello gestionale, quale forma giuridica).
– Capitale fisico (dimensioni aziendali, immobili disponibili e da acquisire, macchine e attrezzi).
– Offerta (massa critica, differenziazione prodotti e attività, qualità, diversificazione).
– Mercati (canali di vendita possibili, attività promozionali)
– Performance economica (redditività e costi)
E’ inoltre altrettanto opportuno valutare componenti esterne all’azienda
sul piano:
– Istituzionale (normativa di riferimento, esistenza di reti formalizzate come consorzi, cooperative, strade del vino,ecc).
– Territoriale (dotazione infrastrutturale materiale e immateriale, disponibilità di servizi alle imprese agricole).
– Commerciale (canali distributivi locali, caratteristiche della domanda e dell’offerta).
– Competitivo: struttura della concorrenza e grado di concentrazione dell’offerta.
3. Trasformazione dell’ “idea” in un progetto di sviluppo imprenditoriale.
Dopo la fase di analisi e l’elaborazione dell’idea d’impresa, comincia la progettazione vera e propria. Una volta definiti gli obiettivi da raggiungere e i risultati attesi, occorrerà individuare le risorse da utilizzare e le strategie da implementare.
4. Verifica della fattibilità/realizzabilità del progetto.
Si tratta quindi di redigere, con l’aiuto di adeguati specialisti e professionisti, un Business Plan, in grado di conferire credibilità al progetto e consentire la richiesta di finanziamento pubblico o privato. Nel piano dovrà essere analizzata la situazione di partenza, il progetto di sviluppo e la situazione post investimento.
5. Ricerca della fonte di finanziamento
Una volta redatto il piano economico e finanziario si potrà procedere alla ricerca delle fonti di finanziamento. Nel caso dei giovani imprenditori agricoli vi sono diverse misure e strumenti per favorirne l’insediamento, fra cui ad esempio il “subentro”, il premio di “primo insediamento”, piuttosto che i fondi stanziati dal Piano di Sviluppo Rurale. Per l’acquisto di un terreno è invece opportuno verificare la possibilità di richiedere un mutuo tramite ISMEA.
6. Verifica se il progetto ha le caratteristiche necessarie per accedere ad un finanziamento pubblico.
Dopo aver individuato le fonti di finanziamento più idonee, è necessario leggere accuratamente il bando in questione per verificare l’effettiva esistenza dei requisiti soggettivi (rispetto al soggetto che si candida) e oggettivi (rispetto al progetto di investimento che si intende proporre).
7. Presentazione del progetto per il finanziamento pubblico.
Una volta eseguite le analisi e i controlli necessari si può procedere alla presentazione del progetto attraverso apposita domanda corredata di Business Plan. In questa fase, in particolare, è consigliabile l’assistenza da parte di un CAA (Centro Autorizzato di Assistenza Agricola) e la consulenza di un professionista per la parte tecnica. La presentazione della domanda, tuttavia, pur avvenendo in maniera corretta, può non essere sufficiente a garantire il raggiungimento dell’obiettivo (finanziamento) in tempi brevi. Una delle criticità maggiori insite in questo passaggio è infatti rappresentata proprio dall’eccessiva lentezza delle pratiche burocratiche. Le procedure per accedere alle risorse dei Psr specificatamente dedicate ai giovani prevedono in media 275 giorni fra l’approvazione del programma e l’uscita del bando, 248 giorni tra la fine della raccolta delle domande e il decreto di concessione del contributo (istruttoria), tra i 18 e i 24 mesi per l’erogazione del contributo.
8. Presentazione del progetto per il finanziamento privato.
Qualora si decida di fare richiesta di finanziamento privato, è possibile valutare i pacchetti e le agevolazioni messe a disposizione di CreditAgri.
È quindi opportuno richiedere la consulenza dell’istituto per conoscere i prodotti finanziari più adatti e le migliori condizioni di accesso al credito.
9. Ricerca delle garanzie per accedere al credito.
Tuttavia ogni richiesta di finanziamento che si rispetti prevede la sussistenza di determinate garanzie, che andranno presentate alla banca di
turno. Anche in questa fase, quindi, è consigliabile affidarsi alla consulenza di CreditAgri, in modo tale da poter individuare eventuali criticità e possibili soluzioni.
10. Realizzazione del progetto.
Una volta accertata la sussistenza delle garanzie ed effettuata la richiesta di finanziamento, si passerà alla fase di concretizzazione del progetto. Delicato e cruciale questo passaggio risentirà inevitabilmente della preparazione, della capacità imprenditoriale, della creatività che il singolo riuscirà ad esprimere.
I mercati e gli osservatori più o meno smaliziati, tutti delusi dall'esito del G20 finanziario, aspettano con ansia quello che domani dirà Mario Draghi nella conferenza stampa che chiude i lavori del consiglio direttivo della Banca Centrale Europea in quel di Francoforte.
Ai più distratti tra i miei lettori mi permetto di proporre una biografia non autorizzata di Draghi, un docente di economia in quel di Trieste che assurse agli onori della cronaca come Direttore Generale dell'allora ministero del Tesoro, incaricato di portare avanti un ambizioso programma di privatizzazioni che vide il suo clou nei famosi incontri a bordo del panfilo Britannia di proprietà della famiglia reale britannica. Terminata in buona sostanza l'opera di privatizzare il privatizzabile, il nostro passa a lavorare presso una delle entità che avevano funto da advisor della colossale operazione ed entra nella potente ma ancor più preveggente Goldman Sachs diventandone il numero uno per l'Europa con base a Londra.
Chiamato da Berlusconi e Tremonti a risolvere il disastro lasciato da Antonio Fazio, Super Mario diventa il Governatore della Banca d'Italia, lavoro per lui alquanto noioso fino a che la crisi finanziaria del 2007 lo spinge ad assumere contemporaneamente all'incarico in Via Nazionale la guida dell'organismo sovranazionale incaricato di riscrivere le regole di quello che l'allora presidente francese, Nicholas Sarkozy, ebbe a descrivere come il casinò a cielo aperto della finanza globale, un incarico in cui profuse tutte le sue energie e che lo portò a scontrarsi a muso duro con gli allora vertici delle Investment Banks e delle banche più o meno globali, inclusi i suoi ex datori di lavoro di Goldman.
Dopo quelle battaglie epiche, si trovò proiettato al vertice della BCE, venendo sostituito alla guida della Banca d'Italia da Vincenzo Visco, un uomo che si era distinto perlopiù in un ruolo di guida dell'ufficio Studi di Via Nazionale e che non ha brillato per decisionismo e incisività nelle prove a cui è stato chiamato come Governatore, anche se le regole del gioco sono davvero farraginose come lui sostiene.
Cosa dirà Draghi domani è difficile dirlo, mentre è sicuro che proseguirà nel Quantitative Easing, forse pretendendo che le banche non trattengano come finora hanno fatto il mare di liquidità proveniente da Francoforte e ne passino qualcosa anche a imprese e famiglie e chissà che sia "la volta buona"
Come era largamente prevedibile, la riunione dei due giorni del gruppo dei venti paesi più industrializzati del pianeta si è chiusa con una serie di auspici difficilmente misurabili e tantomeno quantificabili in merito ad un sostegno della domanda nei rispettivi paesi che andrebbe ad affiancarsi slle ondate di liquidità originate dalle banche centrali più importanti del mondo sviluppato, con la differenza che le seconde sono illustrate analaiticamente nei comunicati dei banchieri centrali, mentre le prime sono del tutto nebulose e affidate alla conferma dei parlamenti e, nel caso dei paesi membri dell?unione europea, al placet della Commissione basata a Bruxelles.
Sulla cosa che conta davvero, cioé la Cina, bisogna andare a leggere tra le righe del comunicato ufficiale, perché non c'è molto che si possa fare di fronte al maxi esodo di capitali dall'un tempo impero celeste, né si può immaginare un freno efficace a quella svalutazione competitiva prossima ventura dello yuan che le autorità monetarie e, soprattutto, il governo di Pechino stanno per mettere in atto anche in risposta alle intervenute svalutazioni altrettanto competitive messe in atto dai principali concorrenti, area dell'euro in particolare.
Ma i nodi veri della economia cinese nel comuniato non vengono affrontati neanche di striscio, anche perché non si sa quanto si può fare contro il livello mostruoso dell'indebitamento delle imprese, contro il conseguente stato disastroso dei conti delle banche, anche tenendo conto dell'incapienza dei conti pubblici rispetto alle necessarie maxi misure di stimolo dell'economia cinese necessarie per sostituire con la domanda nterna il calo sempre più evidente delle esportazioni, questo ultimo mal comune ma non mezzo gaudio delle altre economie concorrenti.
E' vero che si trattava di un consesso dei ministri delle finanze e dei governatori delle banche centrali dei venti e non di una riunione dei capi di Stato e di Governo, ma questo non giustifica la sottovalutazione dei problemi delle banche più o meno globali, della dilicatissima questione dei cambi tra le principali valute e, come si diceva sopra, di quella vera e propria bomba rappresentata dalla rallentante prima economia del pianeta in termini di crescita e seconda in termini di PIL, non considerando l'aggregato dell'Unione europea come un'unica realtà statuale!
L'ondata iniziale della tempesta perfetta originò dal brusco calo del settore immobile a stelle e strisce, dopo un'ascesa che sembrava realmente non avere fine e che originò due fenomeni diversi ma in qualche modo paralleli: l'esplosione del ricorso ai mutui subprime (quelli per i quali i procacciatori venivano a trovarti fino a casa), mutui che le banche avevano acquistato da finanziarie e che poi avevano impacchettato in titoli tossici garantiti dalle compiacenti società di rating con l'attribuzione della tripla A e il non meno rilevante fenomeno dei rifinanziamenti di mutui in essere, mutui che raramente
venivano accesi per motivi di ristrutturazione dell'immobile ma, favoriti dalla costante ascesa dei prezzi, per ragioni di tutt'altro tipo quali, in particolare, spese a carattere voluttuario.
Come andò a finire è largamente risaputo, in quanto il crollo dei prezzi gettò in strada milioni di persone e intere zone degli Stati Uniti d'America divennero lande deserte, la più famosa delle quali è Newark una cittadina non molto distante da New York nella quale banche e finanziarie pagavano gli homeless per presidiare le case dopo che da molte di esse era stato asportato tutto l'asportabile, ma zone similari si trovavano in Florida, in Nevada, in California e via discorrendo.
Il fenomeno del crollo dei prezzi e dell'impossibilità dei proprietari a pagare i mutui dilagò a vista d'occhio in Gran Bretagna, in Spagna e in numero di paesi che è impossibile qui citare tutti e si portò dietro il dissesto di banche importanti che vennero poi assorbite da altre o furono salvate da interventi statali decisi nel 2009 da un G20 di capi di Stato e di Governo letteralmente atterriti dagli assalti alle banche che avvennero in particolare nel Regno Unito.
La storia italiana presenta caratteristiche molto diverse e affonda le sue radici in quanto avvenne al momento del cambi tra la lira e l'euro nei primissimi anni del nuovo millennio. Allora ero appena uscito dalla sala cambi di un'importante banca italiana e sapevo per esperienza personale i rischi connessi alla parità ufficiale stabilita nella primavera del 1998, un periodo molto difficile per la valuta italiana letteralmente massacrata sotto il governo Berlusconi e il successivo governo Dini, con il risultato che il cambio fu molto sottovalutato e sia i lavoratori autonomi che i proprietari di case adottarono nelle
loro richieste un cambio molto più forte, in alcuni casi pari a mille lire per un euro.
Il mercato assorbì tranquillamente questa pretesa e si registrarono non pochi casi di appartamenti del valore di 300 milioni messi in vendita a 300 mila euro. Tutto questo finché lo scoppio della bolla immobiliare mondiale, la recessione e quant'altro innescarono un crollo dei prezzi che perdura anche oggi, nonostante la recente esplosione delle concessioni di mutuo e l'impennata delle compravendite, due fenomeni che, nel 2015, si sono accompagnati con un'ulteriore, anche se un po' più moderata, flessione dei prezzi delle case, un fenomeno che, a mio avviso, è destinato a perdurare almeno fino a che i venditori non terranno conto dei prezzi di carico più che dei livelli alquanto irrealistico toccati dal mercato quando le quotazioni erano al top.
Mi fanno un po' di tenerezza i 20 ministri dell'economia o delle finanze dei venti paesi più industrializzati del pianeta costretti per due giorni a stare in quel di Shanghai, ognuno con i suoi dossier e con le sue preoccupazioni più o meno legate alle tre questioni che caratterizzano la nuova fase della tempesta perfetta: la Cina con la sa gigantesca bolla creditizia e il suo rallentamento dell'economia; la bolla già scoppiata del petrolio e delle altre materie prime energetiche e, the last but not the least, l'emergenza delle banche che non sono ancora riuscite a smaltire l'altissima montagna dei derivati più o meno tossici.
Ricordo con una certa nostalgia i vertici in seduta pressoché perenne del biennio 2008-2009, con i capi di Stato e di Governo giù ad imprecare sulle diavolerie escogitate dagli apprendisti stregoni delle allora Investment banks e delle banche più o meno globali disseminate in tutto il mondo, così come ricordo con simpatia la fatica di Sisifo caduta sulle spalle dell'allora Governatore della Banca d'Italia, Mario Draghi, un uomo con un passato al Ministero del Tesoro, allora si chiamava così, ed ex capo per l'Europa della potente ma ancor più preveggente Goldman Sachs.
Con il rispetto dovuto ad ognuno di loro, devo tuttavia dire che non avrebbero cavato un ragno dal buco se non fossero entrate in partita le banche centrali, Federal Reserve in testa, per inondare letteralmente i mercati di liquidità e dare tempo alle banche di cercare di smaltire l'enorme mole di titoli tossici in loro possesso, discorso che vale quasi esclusivamente per le banche che hanno avuto accesso alle capaci discariche allestite presso le varie sedi della banca centrale americana.
Il problema è che quei bravi ragazzi delle fabbriche prodotto non hanno smesso di fare il loro ben remunerato mestiere e hanno continuato a sfornare titoli sempre più complessi e rischiosi e, questa volta, il primato non va alle ex Investment Banks statunitensi o alle banche globali a stesse e strisce alquanto scottate da quanto era accaduto con la prima fase della tempesta perfetta, ma bensì alle banche Globali poste al di qua e al di là della Manica, banche talmente potenti da far risultare nelle apposite normative europee i non performing loans, meglio conosciute come sofferenze, più pericolose della montagna di derivati e titoli tossici più o meno tossici che hanno nelle loro molto capaci pance.
Se non c'è una soluzione gestibile per questo problema, aggravato dalla declinazione cinese di cui ho parlato in precedenti articoli, figuriamoci cosa potranno fare contro la crisi delle esportazioni, segnatamente quelle cinesi ma anche quelle europee non ci scherzano, o sul fronte bollente del petrolio dove è evidente la difficoltà di trovare un'intesa con l'Iran che pretende giustamente di tornare ai livelli pre sanzioni e altri paesi che sono costretti a produrre il più possibile accontentandosi dei risicati margini di guadagno tutt'ora esistenti.
Invitalia, l’Agenzia nazionale per l’attrazione degli investimenti e lo sviluppo d’impresa, ha pubblicato per l’anno 2016 un bando di concorso, al fine di agevolare giovani e donne che intendono avviare un impresa, prevedendo finanziamenti a tasso zero.
Vediamo, quindi, quali sono i requisiti e le info utili per potersi candidare all’iniziativa.
Finanziamenti giovani e donne 2016: l’iniziativa
Con la Circolare MISE 9 ottobre 2015, infatti, l’Agenzia ha aperto il bando “Nuove imprese a tasso zero” per il 2016.
L’iniziativa prevede lo stanziamento di 50 milioni di euro finalizzati a finanziare i progetti imprenditoriali in diversi settori come artigianato, commercio, agricoltura, turismo, di giovani e donne, con un tetto di spesa di 1,5 milioni di euro.
L’agevolazione, secondo quanto disposto dai massimali del regolamento europeo (Regolamento de minimis n. 1407/2013), può avere un importo massimo complessivo di euro 200.000,00 nell’arco di tre esercizi finanziari per impresa unica ed inoltre è stabilito che il finanziamento deve essere restituito, per usufruire dell’incentivo a tasso zero, entro 8 anni.
I settori per i quali è possibile presentare progetti sono diversi:
• produzione di beni nei settori industria, artigianato e trasformazione dei prodotti agricoli;
• fornitura di servizi alle imprese e alle persone;
• commercio di beni e servizi;
• turismo;
• turistico-culturale (attività per la valorizzazione e la fruizione del patrimonio culturale, ambientale e paesaggistico, e per il miglioramento dei servizi di ricettività e accoglienza);
• innovazione sociale (produzione di beni e fornitura di servizi che creano nuove relazioni sociali o soddisfano nuovi bisogni sociali).
Finanziamenti giovani e donne 2016: requisiti
Per potersi candidare all’iniziativa i soggetti devono avere un’età compresa tra i18 ed i 35 anni oppure essere donne maggiorenni senza alcun limite di età.
Inoltre, il progetto può essere presentato solo qualora l’attività imprenditoriale sia costituita sotto forma societaria. E’ ammessa anche l’adesione di persone fisiche purché costituiscano entro 45 giorni dall’ammissione la società.
Finanziamenti giovani e donne 2016: come partecipare
Per partecipare all’iniziativa è necessario presentare la domanda insieme alla documentazione richiesta attraverso l’apposita procedura online predisposta sul sito di Invitalia, previa registrazione (è necessario essere in possesso di indirizzo Pec o firma elettronica).
I progetti verranno esaminati in base all’ordine cronologico di presentazione e successivamente si provvederà ad una valutazione nel merito seguita da colloquicon esperti di Invitalia.
Alla fine della procedura di valutazione verranno comunicati, tramite Pec, entro 60 giorni dalla presentazione della domanda, gli esiti.
Per maggiori informazioni This email address is being protected from spambots. You need JavaScript enabled to view it.
Mi rivolgo in particolare ai lettori del Diario della crisi finanziaria (diariodellacrisi.blogspot.com) che hanno avuto la pazienza di leggere la puntata dedicata al modo in cui va letto lo spread, in particolare quello tra BTP e Bund a dieci anni, per sottolineare che sta accadendo un fenomeno inedito, in quanto ieri mattina c'erano operatori disposti a comprare il decennale tedesco nonostante lo stesso garantisse uno yield, o rendimento interno, nell'area dello 0,15 per cento, con punte sino allo 0,13 per cento a metà seduta.
Non ignoro che in altri punti della curva dei rendimenti dei titoli di Stato tedeschi, ovviamente posti al di sotto come durata dei decennali, i rendimenti sono addirittura negativi, ma vedere un decennale che offre questi livelli fa davvero impressione e induce a interrogarsi sui motivi di questi acquisti e sull'identikit degli acquirenti.
E' evidente che una situazione del genere è spiegabile solo alla luce di una fase di grande incertezza sulle prospettive delle entità quotate, in particolare appartenenti al settore bancario, o sui rischi, veri o presunti, derivanti dall'investimento in altri titoli del debito sovrano, in particolare di quelli emessi da paesi dell'area meridionale dell'Unione europea, una miscela di motivazioni che spinge a vedere il decennale tedesco, e ovviamente anche a diverse scadenze, come una sorta di bene rifugio garantito dalla solidità del Paese e dal massimo rating garantito allo stesso dalle potenti agenzie di rating, le stesse che continuavano a garantire la massima affidabilità di Lehman Brothers a pochi giorni dal suo clamoroso default.
Per quanto riguarda l'identikit degli acquirenti, è presto detto in quanto esistono una serie di soggetti nel mondo, fondi pensione, compagnie di assicurazione e alcuni tipi di fondi sovrani che sono costretti a impiegare una parte dei loro ingenti investimenti in titoli rappresentativi del debito pubblico di paesi che forniscano le massime garanzie in termini di solidità e di affidabilità, condizioni queste ovviamente e come dicevamo sopra garantite nero su bianco da Moody's, Standard&Poor's o Fitch's. Non mancano, ovviamente, anche singoli investitori, segnatamente risparmiatori tedeschi, e questi scelgono il Bund in alternativa all'oro o altri investimenti sicuri.
Il bello è che sono mesi che il decennale italiano si muove in un'area compresa tra 140 e 160 basis point di rendimento e questo era vero anche quando il Bund era tre 60 e 70 basis point, quindi non siamo in presenza di significativa variazioni nel prezzo e quindi nel rendimento dei nostri titoli, ma di fronte a un rally senza precedenti dei titoli rappresentativi del debito pubblico tedesco.
Sono giorni e settimane che sento parlare di un mito che si è infranto sugli alti marosi della tempesta perfetta nel settembre del 2008, quando il governo degli Stati Uniti d'America e il presidente della Federal Reserve, Benjamin Bernanke in arte Bernspan, decisero che Lehman Brothers, la diretta concorrente di Goldman Sachs, poteva fallire, pur essendo too big to fail.
Non fu un sussulto di ideologia liberista, perché nelle stesse ore venne decisa dalle stesse persone la salvezza per la molto più inguaiata AIG, un colosso delle assicurazioni che ne aveva davvero fatte di cotte e di crude ma che risultava essenziale per le banche e le altre compagnie di assicurazioni e, in più di un caso, per Stati sovrani.
Vi è un vero e proprio fiorire di analisi sulle sorti non tanto magnifiche e progressive delle banche globali europee, Deutsche Bank in testa, e tutti si interrogano sul livello raggiunto dai Credit Default Swaps riferiti alla banca basata a Francoforte, livelli che sono oramai prossimi a quel 620 toccato da Lehman a poche ore dal default, ma pur rendendo noto questo nessuno ha il coraggio di tirare le conseguenze, tanto drammatici sarebbero gli effetti sul sistema bancario non solo europeo ma mondiale.
Ma proprio ieri uno di questi analisti ha reso noto che il governo della Germania ha tra le sue mani, non si sa da quanto tempo, un dossier intitolato proprio alla banca di Francoforte, un dossier seguito dal ministro delle finanze Schauble e dai suoi più stretti collaboratori e non è un caso che il potente ministro, quando l'azione veleggiava sui 13 euro, ha rilasciato quattro dichiarazioni in cinque giorni, difendendo con toni ancora più accorati dei vertici aziendali la solidità di Detsche Bank, in un caso usando letteralmente le stesse parole del Chief Executive Officer della banca.
Non voglio essere malizioso, ma la stessa estemporanea proposta di un ministro dell'economia europeo, avanzata proprio dalla Germania e dai suoi più stretti alleati, e l'accelerazione sull'implementazione dell'unione bancaria europea non sembrano essere del tutto casuali!
Come ben sanno i lettori della prima fase del Diario della crisi finanziaria (diariodellacrisi.blogspot.com), i miei punti di riferimento nel tenere il diario di bordo nella tempesta perfetta sono il non mai troppo compianto John Maynard Keynes e George Soros, ma non dimentico Giulio Andreotti quando diceva che a pensar male si fa peccato ma non si sbaglia!
I pochi lettori di questa nuova fase del blog sulla più grave crisi finanziaria dalla fine del secondo conflitto mondiale avranno notato che alcuni degli argomenti toccati in queste settimane richiedono più di una puntata del diario della crisi finanziaria, anche se voglio rassicurarli sul fatto che non si tratta di una sorta di accanimento terapeutico, quanto del fatto che si tratta spesso di vicende alquanto oscure e che squarci di luce appaiono qui e là in tempi non prevedibili da chi tiene faticosamente il giornale di bordo della tempesta perfetta.
Uno di questi casi è certamente rappresentato da quella Cina che continua orgogliosamente a chiamarsi Repubblica Popolare Cinese anche se sono anni che è entrata non solo nel sistema capitalistico ma ha anche una forte propensione alla creazione di bolle speculative, delle quali quella del credito è soltanto la più appariscente, una bolla gigantesca che è strettamente collegata a quella dell'ormai vasto mercato azionario cinese, un mercato che rischia di avere assonanze con quello imperiale britannico dell'800 con le ormai famose, se non famigerate azioni che rappresentavano fantomatiche miniere sparse un po' ovunque nel mondo!
Ebbene, nell'un tempo Celesete impero, è stato arrestato il capo dell'ufficio statale di statistiche, quello famoso per essere stato sbugiardato sul dato del prodotto lordo interno cinese da un connazionale riparato negli Stati Uniti d'America, ed è di oggi la notizia che il capo dell'organismo di vigilanza sulle borse cinesi, l'equivalente della nostra Consob, è stato giubilato, per sua fortuna a piede libero, ed è stato sostituito dal presidente dell'Agricultural Bank, una persona che dire che è in conflitto di interessi equivale a fargli un complimento.
Ma la notizia più importante la fornisce l'Economist in un lungo servizio sui rischi che sta correndo l'economia cinese in questo momento e quello più rilevante è rappresentato dal debito complessivo che è pari al 282 per cento del prodotto interno lordo cinese, una cifra che è data dal debito sovrano che supera di poco il cinquanta per cento del PIL, mentre quello che è riferibile a famiglie e società è pari al 232 per cento del PIL.
Sono cifre da far tremare i polsi e che, secondo l'autorevole settimanale economico inglese, potrebbero portare ad una stretta creditizia che porterebbe la prima locomotiva del mondo dritto dritto alla recessione, con contagio pressoché immediato alle economie degli altri paesi industrializzati!
Mi sono occupato per diverse puntate della nuova ondata della tempesta perfetta, cercando, spero con successo, di indicarne le cause profonde, così come ho ficcato il naso nei guai degli altri, indicando i rischi cui vanno incontro gli azionisti, gli obbligazionisti e i depositanti per la parte superiore ai 100 mila euro per deposito (al proposito, riporto le stime di un eventuale bail in a carico dei soggetti summenzionati che sarebbero pari a 130 miliardi di euro per Deutsche Bank e a 165 miliardi per i loro omologhi in BNP Paribus, solo per citare le due maggiori banche globali del continente europeo); è ora quindi di volgere il naso verso i guai di casa nostra e occuparmi di quel grosso problema insoluto rappresentato dalla banca Monte dei Paschi di Siena, un gruppo che vede indagati in diversi gradi di giudizio ex top manager, inclusi presidente e direttore generale e esponenti di primo piano di Deutsche Bank e di Nomura che li avrebbero aiutati a confondere le acque via opportuni derivati dai nomi alquanto fantasiosi.
Oggi, il gruppo bancario senese è guidato da una persona che nell'ambiente gode di una solida reputazione e avente fama di integrità, Fabrizio Viola, un manager che non ebbe timori a schierarsi contro il sistema consociativo esistente in Banca Popolare di Milano e che, come è ovvio, ne uscì con le ossa rotte, ma che trovò posti al vertice in diverse banche senza dover inviare il curriculum e che poi fu chiamato come numero uno operativo in quel di Siena in assenza di concorrenti spaventati dal buco nero, e non solo dal punto di vista contabile in cui era sprofondata la banca, tirandosi dietro l'omonima Fondazione i cui vertici del tempo ancora si mangiano le mani per non aver venduto le quote per tempo.
Su Mps, come ben sanno i lettori più assidui del diario della crisi finanziaria, credo di avere a quel tempo detto tutto, compreso il nome del gruppo bancario europeo che avrebbe avuto tutto l'interesse e la convenienza a portare il gruppo bancario senese a nozze, nonostante o forse proprio per i guai combinati dai vecchi dirigenti con l'iperpagata e sfortunata operazione di acquisizione di Antonveneta, una banca che il vecchio Botin, patron del Santander, comprò e vendette in un notte guadagnando dai 2 ai 3 miliardi.
In quelle puntate di qualche anno fa, indicavo in BNP Paribus il candidato alle nozze e, anni dopo, quando tutto o quasi è cambiato nel settore creditizio italiano ed europeo continuo a vederla come la soluzione più logica, anche se mi consento da solo di formulare un sommesso consiglio a Laurent Bonaffé, CEO del gruppo transalpino, ed è quello di tenersi stretto Fabrizio Viola anche, e forse soprattutto, se non ha fama di essere un signorsì.
Come il bambino innocente che non seppe trattenersi di fronte al Re, ingannato da due astuti sarti, dal gridare che era nudo, così ieri Matteo Renzi, nell'aula austera del Senato della Repubblica, ha gridato che Deutsche Bank e altre banche globali europee, segnatamente tedesche, francesi e britanniche, hanno in pancia, ha detto letteralmente così, una montagna di derivati e titoli tossici e che, di fronte a questa situazione che mette a rischio l'intero sistema finanziario europeo, area euro e non solo, l'Italia avrebbe posto il veto alla proposta di mettere un tetto del 25 per cento del patrimonio al possesso di una banca di titoli pubblici del paese di appartenenza.
Quasi non volevo credere ai miei occhi e alle mie orecchie sentendo pronunciare dal presidente del consiglio di uno dei paesi più importanti dell'Unione europea argomentazioni proprie di noi blogger finanziari impegnati in un'opera spesso ingrata di controinformazione su banche globali che, come Deutsche o Bnp Paribas, dispongono di un attivo tradizionale pari a circa la metà del prodotto interno lordo dei paesi in cui hanno sede, ma che posseggono per di più una montagna di prodotti derivati che, sommandole, è pari a decine di volte il prodotto interno lordo dell'Unione europea.
In questi anni ho scritto diverse volte del caso Deutsche Bank, incluse le due puntate del diario della crisi finanziaria (diariodellacrisi.blogspot.com) pubblicate in questi giorni e devo dire che non è problema di qualità dei Chief Executive Officer di turno, dei quali l'attuale CEO di Deutsche è forse il più bravo, ma dell'impossibilità per gli stessi di porre rimedio alle diavolerie inventate dagli apprendisti stregoni delle fabbriche prodotto delle investment bank delle banche più o meno globali e che richiedono degli specialisti pagati a peso d'oro per spacchettare questi prodotti che spesso non erano chiari neanche ai loro inventori.
Ma questi ragazzi più o meno ingegnosi sono dei veri e propri apprendisti di quelli impegnati nella potente ma ancor più preveggente Goldman Sachs, anche perché l'entità cui loro prestano la loro ben remunerata opera è usa a determinare i trend su cui scommette sui mercati delle materie prime energetiche, i metalli preziosi, i cambi e i mercati azionari e obbligazionari, sentenze dei tribunali avverse permettendo, e il valore nozionale di queste attività di Goldman rappresentano un multiplo del prodotto lordo dell'intero orbe terraqueo.
Negli Stati Uniti, la questione si è non risolta ma almeno fortemente ridimensionata grazie al riacquisto da parte della Federal Reserve di parte della montagna di titoli più o meno tossici, cosa che la BCE si rifiuta di fare, accettandoli al più come collaterali!
Se si consulta una pagina di un sito finanziario, si può leggere che lo spread o differenziale tra un titolo del debito pubblico e un altro non è altro che la differenza tra il rendimento interno dell'uno e quello dell'altro, il che significa che il suo valore è dato dai movimenti di prezzo dei due titoli e viene letto come la differenza che il mercato dà ai debiti pubblici sovrani dei due Stati presi in considerazione.
Per noi, lo spread che fa da stella polare è il differenziale tra il rendimento del BTP decennale ad una certa scadenza e il rendimento del Bund tedesco avente scadenza omologa ed è un valore che può subire variazioni per vari motivi e, cioè, sia perché scende il prezzo e quindi sale il rendimento di uno dei due titoli o perché scende il prezzo e quindi il rendimento dell'altro titolo o perché avvengono variazioni nella stessa direzione dei due titoli ma con intensità diversa, o perché, ed è quello che sta avvenendo ora, che un titolo scenda in termini di rendimento e l'altro salga.
Fino al 2011, il termine spread riferito al differenziale Btp-Bund era pressoché sconosciuto ai più e il valore dello stesso si aggirava sui 100 punti base che equivalgono all'un per cento, un valore tutto sommato modesto tenuto conto delle differenze strutturali esistenti tra l'Italia e la Germania, quando, nell'estate di quell'anno, il differenziale tra i titoli italiani, spagnoli e grechi rispetto al Bund tedesco cominciarono a volare, per giungere per il nostro Paese alla cifra record di 575 punti base e favorirono l'ascesa al governo del prof. Mario Monti che avviò quella fase di riforme, anche dolorose, che sono state poi proseguite dai governi di Enrico Letta e di Matteo Renzi.
Dopo aver sfiorato l'area dei 90 punti base e aver illuso i più, lo spread ha ripreso bruscamente a salire, toccando anche punte del 60 per cento superiori ai minimi recentemente raggiunti e questo in assenza di significativi rialzi dello yield to maturity, il rendimento interno appunto, dei decennali italiani ma di una vera propria fuga verso la qualità dei titoli di stato tedeschi rappresentati, a torto o a ragione, come beni rifugio di fronte ai nuovi marosi della tempesta perfetta.
Mi scuso per la spiegazione un po' tecnica, ma in televisione e sui giornali si è usi dare il valore sintetico dello spread senza analizzare le determinanti degli scostamenti quotidiani e siccome questo valore è visto come un indice sintetico dell'affidabilità dell'Italia credo sia opportuno questo rapido approfondimento.
L'incontro al vertice tra il ministro dell'energia russo e i suoi omologhi venezuelano e saudita svoltosi ieri è stata la classica montagna che ha partorito un topolino, in quanto i tre uomini più potenti del petrolio, escludo volutamente gli Stati Uniti d'America che seguono logiche tutte loro, si sono trovati d'accordo nel congelare la produzione di petrolio dei rispettivi paesi al livello raggiunto l'11 gennaio ma non nell'individuare un target effettivo di taglio della produzione di greggio che, qualsiasi ne fosse stata l'entità avrebbe potuto influenzare le quotazioni dell'oro nero in maniera significativa.
D'altra parte, tutte le manovre dal lato dell'offerta, le cosiddette supply side, non hanno effetti di medio e lungo termine se non ci sono variazioni significative dal lato della domanda e questo, nella presente fase congiunturale a livello globale è quanto meno poco probabile, anche perché non si sono notati fenomeni di accaparramenti agli attuali livelli minimi dei prezzi, anche perché, se vi fossero stati avrebbero prodotto, come spiega qualsiasi manuale di macroeconomia, effetti ben visibili sui prezzi.
C'era poi un grande assente al meeting dei tre plenipotenziari, quella potente ma ancor più preveggente Goldman Sachs, vera regina del mercato dei derivati sul petrolio e sulle altre materie prime energetiche che deve buona parte delle sue fortune a come gestì l'ascesa del prezzo del greggio fino al massimo storico di 147 dollari al barile per poi farne altrettanti girando per tempo le sue posizioni in questo turbolento mercato!
Come indico nel titolo, quella del petrolio e del gas è una bolla speculativa già scoppiata e che, almeno al momento, non ha prodotto l'effetto che i produttori dell'OPEC e non solo si attendevano: quello di determinare lo stop della produzione dello shell oil statunitense che ha dei prezzi di produzione molto più alti di quelli dei concorrenti e che, tuttavia, grazie a incisivi miglioramenti tecnologici, ha subito solo perdite marginali e continua a rappresentare una fonte di offerta, in particolare per la domanda interna a stelle e strisce.
Se fossi ancora un previsore di una trading room, vedrei una strada one way al rialzo per le materie prime energetiche, ma il livello di concorrenzialità esistente in questo immenso mercato mi fa ritenere che difficilmente si giungerà a quegli accordi di cartello a livello planetario che soli potrebbero produrre significative impennate nei prezzi.
Per chi come me ha tenuto il libro di bordo della tempesta perfetta dal settembre 2007 in poi, lo scoppio di una o più bolle speculative non dice nulla di nuovo, anche perché i comportamenti degli operatori e degli analisti sono pressoché identici a prescindere da quale sia l'epicentro della crisi e da quanto siano alti i marosi della tempesta perfetta.
Ai tempi del molto evitabile fallimento di Lehman e dell'incredibile salvataggio del colosso assicurativo statunitense AIG, non riuscivo quasi a credere ai miei occhi di fronte ai comportamenti del duo Paulson-Bernspan e alle tragiche conseguenze del capolavoro che furono in grado di realizzare finalizzato ad eliminare l'unica vera concorrente di Goldman Sachs.
Ma tornando allo scoppio delle tre bolle speculative che stanno iniziando a sgonfiarsi quasi contemporaneamente, mi ha colpito molto quanto ha detto in una trasmissione televisiva il numero uno di un'entità finanziaria il quale spiegava che i problemi con i quali ci si stava confrontando in questo primo squarcio del 2016 erano presenti in modo pressoché identico nel 2015, anno in cui, come tutti ricorderanno, le borse di tutto il mondo, non esclusa certo la piazza milanese pivot a livello europeo, macinavano record su record, facendo pensare ai più che la tempesta perfetta ce l'avevamo ormai alle spalle.
Quello che sta accadendo, in buona sostanza e al netto di eccessi speculativi che non mancano, è un ritorno verso valori più normali e più in linea con i fondamentali delle aziende ed è un tragitto che è tutt'altro che terminato con buona pace degli investitori che hanno comprato i titoli a caro prezzo nei mesi passati.
Come tutti oramai sanno, una delle componenti dei principali listini europei ad avere pagato il prezzo più alto al doloroso processo di aggiustamento in corso è quello bancario, con una media di correzione nel corso delle ultime sei settimane pari al 50 per cento e in qualche caso anche di più, un drastico ridimensionamento a cui non è estranea l'entrata in vigore del bail in un provvedimento che prevede che gli azionisti, gli obbligazionisti subordinati e i depositanti per la parte eccedente i centomila euro partecipino alle perdite della banca in dissesto.
Il Governatore della Banca d'Italia, il Governo e anche i partiti di opposizione hanno proposto di applicare il provvedimento con gradualità, ma Super Mario ha spiegato ieri al Parlamento europeo che non se ne parla proprio!