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I delitti della primavera, quarto romanzo per l’autrice Stella Stollo, è ora disponibile in lingua inglese con il titolo ‘The Botticelli Killings’. Il libro edito da Graphofeel continua ad ottenere consensi sia dai lettori che dalla critica e presto raggiungerà anche la Fiera del Libro di Francoforte che si terrà dal 19 al 23 ottobre 2016 nella città tedesca. Il thriller storico risulta avvincente sin dalle prime pagine, la scrittura è fluida e incisiva, raffinata ed avvolgente. Siamo nella Firenze di fine 1400 e la città medicea viene sconvolta da una serie di delitti. Accanto ai corpi delle vittime, tutte donne appartenenti alla ricca borghesia, vengono trovati oggetti che richiamano al dipinto “L’allegoria della primavera” di Sandro Botticelli. E sarà proprio attorno a quest’opera che si svilupperà un intreccio narrativo davvero emozionante tra personaggi reali ed altri di pura fantasia. Incontriamo Stella Stollo per saperne di più.
The Botticelli Killings, un nuovo traguardo per il libro “I delitti della primavera”, come è nata l’edizione in lingua inglese?
“L’edizione in inglese è di sicuro un traguardo importante e sono grata alla casa editrice Graphofeel per avermi aiutata ad arrivare fin qui. La traduzione eseguita da Juliet Bates (insegnante madrelingua, psicologa e traduttrice con una passione particolare per testi storici e contenuti esoterici) rispecchia con acume e sensibilità lo spirito del testo e dei personaggi. La copertina per la nuova edizione, realizzata dal grafico Carlo Vignapiano, è magnifica. Insomma, la soddisfazione è grande, ma speriamo di non fermarci qui e che si presentino altri traguardi da raggiungere… magari il libro ha in serbo nuove sorprese!”
Il romanzo prende forma intorno al dipinto “L’allegoria della primavera” di Botticelli, che significato ha per lei quest’opera?
“Rappresenta una concezione dell’arte: bellezza sì, fatta di grazia e armonia e specchio di una realtà ideale, ma bellezza non fine a se stessa. Nel mio libro Botticelli e Leonardo concordano su questo: I poeti hanno i codici linguistici e possono nascondere i loro messaggi tra le parole. Noi pittori possiamo parlare solo attraverso il linguaggio dei segni e i codici numerici. Nonostante più volte nel romanzo venga evidenziato come il modo di dipingere dei due artisti sia molto diverso, viene anche ribadito che la loro pittura si basa sullo stesso presupposto: entrambi ritengono che l’arte sia tutt’uno con la scienza e possa contenere e comunicare tutto il bagaglio delle conoscenze umane.
Botticelli non diede mai un titolo al suo capolavoro e il nome “La Primavera” gli è stato attribuito sulla base di una delle chiavi di lettura dell’opera, quella allegorica. Nel mio romanzo il pittore afferma che avrebbe voluto chiamarla “Il Viaggio”, riferendosi al viaggio dell’umanità attraverso un’alternanza ciclica di secoli bui e secoli di luce. Il compito delle opere d’arte è quello di brillare al pari di tutte le stelle destinate a guidare, nelle lunghe notti, l’umanità in viaggio.”
Cosa l’ha portata ad ambientare la narrazione nella Firenze di fine 1400? Come si è documentata per affrontare questo preciso momento storico?
“Certo, avrei potuto imbastire intorno a “La Primavera” una storia ambientata ai nostri giorni, magari con degli investigatori impegnati a collegare le figure del quadro ai noti delitti del “mostro” di Firenze , ma la tentazione di spostarmi nel passato era troppo forte. Anche come lettrice ho un debole per la narrativa storica oppure per la fantascienza che parla di viaggi nel tempo, e scrivere un romanzo a sfondo storico è senz’altro una fantastica “Macchina del Tempo” . Il lungo e necessario periodo della documentazione ha il potere di catapultarti in un’altra epoca e di farti rivivere eventi e atmosfere per le quali inizi a provare nostalgia, come facessero parte della tua vita passata. E in un certo senso è così, perché fanno parte del passato dell’Umanità. Ci sono epoche che mi attraggono particolarmente e in cui ho sempre desiderato soggiornare per un po’, epoche che sono sempre legate a luoghi: una di queste è il 1400 a Firenze.”
Un killer, delle vittime, una serie di oggetti, tutti elementi per uno sviluppo narrativo che si avvicina al thriller storico, pensa sia giusto come genere di riferimento al suo libro?
“In realtà, preferirei superare i confini del genere. Il mio romanzo come l’opera a cui si ispira, offre diverse chiavi di lettura e molteplici contenuti. All’interno dello sfondo storico della Signoria dei Medici, con i suoi fasti e il fervore culturale del nuovo Umanesimo, si incastrano storie di vario genere: artistico, filosofico, sociale, sentimentale. E poi c’è anche l’intreccio dei crimini che è una sorta di collante tra tutto il resto. Autori ben più autorevoli di me hanno usato la tecnica del poliziesco o del giallo per veicolare altri contenuti e riflessioni politiche e sociali. Ma non si tratta solo di questo. Nel mio caso devo dire che la disciplina di scrittura, la logica e il ritmo serrato tipici del Thriller mi hanno aiutata a non perdere l’orientamento tra le varie storie che andavo costruendo e a procedere con una certa coerenza narrativa.”
Botticelli, Lippi e la bellissima Simonetta Vespucci, sono al centro della trama in un triangolo di relazioni e sentimenti. L’io narrante è però Filippino Lippi, perché questa scelta?
“Tralasciando la mia infatuazione adolescenziale per Filippino Lippi ormai nota e il fatto che per anni ho girato con la cartolina del suo autoritratto nel diario, penso di averlo scelto come io narrante perché tra tutti i personaggi reali del mio libro è il meno famoso. Ingiustamente, a mio avviso, il suo grande talento di pittore è stato oscurato dalla fama di suo padre Filippo e da quella, enorme, del suo maestro Sandro Botticelli. Un specie di rivalsa, insomma. Così come cerco di dare una nuova immagine di Simonetta, passata alla Storia come musa di straordinaria bellezza fisica, mettendo in evidenza la bellezza della sua personalità brillante e la sua mentalità trasgressiva e moderna. Al contrario, trovando ingiusto che di Leonardo da Vinci venga sempre lodata la mente eccezionale e nell’aspetto fisico sia sempre ricordato come un vecchio con la barba e i capelli bianchi, ho voluto esaltare il fascino ammaliante e seducente del suo corpo giovanile.”
Il romanzo seppur ambientato nel passato ha chiari riferimenti con fatti di cronaca attuali, come i tanti casi di femminicidio, è così?
“Questa è una delle preziose opportunità offerte dalla narrativa a sfondo storico: evidenziare come nel corso dei secoli restino immutati certi atteggiamenti dell’animo umano. Sono passati ben oltre cinque secoli da quell’epoca, ma purtroppo assistiamo continuamente al ripetersi degli stessi orrori. Il fenomeno chiamato femminicidio è l’estrema conseguenza delle forme di violenza esistenti contro le donne e affonda le sue radici in pregiudizi, discriminazioni di genere e comportamenti che vengono da epoche molto lontane nel tempo, e che i governi di tutto il mondo non si sono mai impegnati seriamente a eliminare.”
Secondo lei cosa apprezzeranno i lettori anglofoni di questa edizione?
“Spero quello che hanno apprezzato finora i lettori italiani, ovvero l’ingenuità ma anche l’umiltà con cui mi sono posta di fronte a una materia di cui non conoscevo nulla; l’impegno e la serietà nel documentarmi per ricreare un contesto con personaggi e situazioni verosimili o comunque probabili. E magari li stuzzicherà l’idea che “La Primavera” possa essere stata dedicata da Botticelli al suo amico Amerigo Vespucci come talismano propiziatorio al viaggio verso il Nuovo Mondo.”
Ogni vita è un’avventura. Sia quella tranquilla, vissuta dalla gran parte di noi costellata di piccoli e (all’apparenza) innocui accadimenti, sia quella tumultuosa dei pochi che ne cavalcano i giorni al ritmo sincopato del proprio (sballato?) codice esistenziale.
Metti, ad esempio, Albino Buticchi. Un uomo prototipo di un’ epoca che ha rappresentato – nel bene e nel male - la forte, caparbia, irriducibile voglia di vincere, di piegare la vita alla propria volontà che ha caratterizzato l’essere dei molti italiani che uscivano – negli anni Quaranta/Cinquanta - dalle tremende esperienze e dalla miseria assoluta vissuta nei lunghi anni di guerra.
“Prendi la vita per il bavero” è stata la regola di Albino Buticchi. Oggi il figlio Marco, autore di successo di grandi libri d’avventura, ne racconta i giorni, gli anni, le grandi “avventure” in un libro che travolge il lettore trascinandolo - ancora una volta - nel sapiente gorgo che lo scrittore spezzino sa sempre creare nei suoi romanzi. Ma questa volta è diverso : non è un romanzo, ma una vita vissuta, intensamente e spavaldamente, un fantastico intarsio inserito in un pezzo di Storia italiana.
Quasi timoroso, permeato di affetto filiale, il pensiero di Marco : “ Seduto di fronte all’esistenza di mio padre, densa di avventure come un romanzo, cerco il coraggio di raccontarla.”
“Casa di Mare” (edizioni Longanesi,300 pagine, euro 18.60 -) si apre con una pagina che è un forte pugno nello stomaco : il dettagliato racconto dell’ultimo e più tremendo tentativo di suicidio di Albino Buticchi nello splendore della sua grande villa di Lerici.. Un colpo di pistola alla tempia che lo renderà cieco per il resto dei suoi giorni. Altre volte nel corso della sua tumultuosa vita, carica di grandi successi e dolorose cadute. di grandi amori e di dolorosi rancori, Albino aveva tentato di “farla finita”. Per fortuna sempre senza gravi conseguenze, ma che questa volta furono disastrose.
Albino Buticchi, nato “dignitosamente povero” seppe combattere la vita giorno dopo giorno riuscendo a conquistarsi grandi successi e un posto di primo piano nel panorama dell’alta società del tempo. Una vita costellata di grandi passioni : la velocità (fu pilota di fama di auto da corsa per Alfa Romeo, Ferrari, ecc.), per il calcio che, appena quarantenne, lo vide favoloso presidente del Milan, ma anche la disastrosa schiavitù per il gioco d’azzardo che lo fece perdere autentiche fortune e fu la causa principale del suo ultimo tentativo di suicidio.
Non aveva frequentato grandi scuole, Albino Buticchi, si era fermato alla seconda elementare. Era tempo di guerra, e non c’era voglia, denaro né spirito di pensare ... alla laurea. Eppure seppe imparare – straordinario autodidatta - tutto quanto serviva per fare della sua vita un fantastico affresco. Dure esperienze di guerra con nazisti e fascisti, fughe disastrose nella Legione Straniera, contrabbandiere di prodotti petroliferi subito dopo la guerra. Un prologo alla sua ascesa vertiginosa, sociale ed economica, proprio nel settore petrolifero che segnò e accompagnò i suoi grandi successi.
Una vita all’insegna degli eccessi, positivi e negativi, vista attraverso gli occhi di un figlio-scrittore che racconta di un padre, icona di un’epoca in cui persone come lui contribuirono a “rifare l’Italia quando dell’Italia restavano solo macerie”.
”Casa di Mare” – Marco Buticchi –edizioni Longanesi -300 pag. - euro 18.60)
Un libro non solo importantissimo, ma una ricerca determinante per decodificare la nostra storia recente. Un opera unica di grande valore, di cui abbiamo avuto spesso qualche accenno nei video YouTube di G. Pucciarelli e G. Vitali. https://www.youtube.com/watch?v=TYnfbs9cvfs
Dalla presentazione dell’autore:
Mi sono ripromesso di raccogliere in questo libro alcune osservazioni riguardanti le fasi di sviluppo della società occidentale, nel periodo compreso tra i primi anni del Ventesimo Secolo e il secondo dopoguerra. Prima fra tutte, quella che mi ha permesso di rilevare il persistente contrasto fra il presunto trionfo del liberalismo democratico e le "regole" dell’economia di mercato.
Ho cercato di non ancorarmi al criterio riduttivo, adottato da Eric Hobsbawm nel suo "Il Secolo Breve", pretendendo un excursus analitico che va oltre i limiti temporali, precisati dallo storico inglese: il 1914 e il 1991, e segnala tre date altrettanto fondamentali: il 1910, l’anno in cui a Jeckill Island è ideato e perfezionato il piano di attuazione del "Federal Reserve System"; il 1913, alla fine del quale il Congresso degli Stati Uniti vota a favore del Vreeland-Aldrich act e il Presidente Thomas Woodrow Wilson lo approva; e il 1905, l’anno del primo tentativo rivoluzionario bolscevico, sostenuto dalla Casta Finanziaria di Wall Street, che poco prima ha finanziato generosamente il Giappone, affinchè la sconfitta della Russia nella guerra russo-giapponese del 1904-1905, agevoli l’instaurazione del governo comunista nella terra dello Zar. Le svolte cruciali del "Novecento" avvengono, sì nel 1914, l’anno in cui il "Potere" che domina a Washington decide di far deflagrare una guerra totale che dovrà diffondere ovunque il sistema usurocratico per assumere il controllo dell’economia mondiale e sottoporre al proprio arbitrio la politica monetaria di ogni nazione; ma la fase determinante del piano finanziario messo in atto a Wall Street si colloca nel 1919, allorché la conferenza di pace di Parigi stabilisce lo schema geopolitico più congeniale all’affermazione su scala planetaria del sistema economico liberista angloamericano, che trova i suoi efficaci strumenti nella Federal Reserve Bank di New York e nella City Londinese. È il 1917 tuttavia, l’anno in cui si registrano il successo della rivoluzione bolscevica e la prestazione della garanzia britannica per la costituzione dello Stato ebraico in Palestina.
Il termine "Usurocrazia", coniato da Ezra Pound, indica il sistema che trova tuttora concreta applicazione nella gestione monetaria, affidata a banche private, per la creazione della cosiddetta "moneta-debito". Questo sistema, operante dal dicembre del 1913 negli Stati Uniti è presto dilagato in tutto il mondo occidentale, grazie alla connivenza con una leadership politica, che obbliga lo Stato a emettere certificati di credito del Tesoro, ogniqualvolta la Banca Centrale decide di emettere un equivalente ammontare di moneta, e a consentirne la negoziazione sui mercati finanziari internazionali (Wall Street in particolare) nell’esclusivo interesse dei Grandi Investitori (Banche e Gruppi finanziari) dando luogo a fenomeni come la privatizzazione dei profitti e la socializzazione delle perdite. L’inesausto propulsore di questo sistema è il debito pubblico,che non è affatto "scritturale", come sostengono i cultori della teoria monetaria moderna, ma concreto e, spesso insostenibile. Come opporsi a questo sistema della Casta Finanziaria Usuraia?
La risposta non è semplice, visti i precedenti. Ci provò Benito Mussolini, nella seconda metà degli Anni Venti, presentando la Carta del Lavoro e le linee essenziali dello Stato Corporativo, ispirato ai principi della Carta del Carnaro, enunciati da D’Annunzio e De Ambris nel 1920, dopo l’impresa di Fiume. Ci provò Adolf Hitler nel 1933 e nel 1939, varando la legge che nazionalizzava il capitale della Banca Centrale tedesca. Entrambi i tentativi ebbero scarsa fortuna, come è noto. Il liberalismo fa grandi promesse in politica, anche se spesso tollera le dittature compiacenti, mentre riesce sempre più difficile dimostrare se un logoro rivestimento democratico sia ancora sufficiente a nascondere l’ormai secolare tirannia che, in nome della libertà, si esercita nel campo economico. Liberazione fu il pretesto per scatenare una guerra totale, il cui vero fine era: eliminare due indisciplinati Capi di Stato che non vollero adeguarsi al "sistema".
Gianpaolo Pucciarelli: "Segreto Novecento" Edizioni Capire (2014)
La mitologia sumera ha avuto le sue prime traduzioni a partire dal 1950, il mito di Inanna viene tradotto solo nel 1979, per questo motivo, forse, sono tutt'oggi poco conosciuti. Andrebbero riscoperti perché raccontano di un tempo non ancora frammentato nelle sue componenti emotive, un tempo gilanico, e la mitologia rispecchia questo equilibrio delle polarità maschile/femminile.
Si può pensare che la mitologia mesopotamica rappresenti l'ombra delle nostre radici ebraico - cristiane: tutto quello che non si è voluto vedere per millenni e millenni , e forse, non è un caso che la sua riscoperta sia stata così tardiva rispetto ad altre culture. (Cit)
Paola Palmiotto introduce i miti sumeri attraverso un excursus iconografico sulle raffigurazioni neolitiche della Grande Madre: statuette dal ventre gonfio e dal seno prosperoso, simboli di fertilità e rigenerazione, studiati dall'archeologa Marja Gimbutas.
L'autrice colloca geograficamente e cronologicamente i racconti mitici per poi andare ad esplicitare la visione del mondo che è alla base della narrazione.
Già la cosmogonia rivela un substrato di pensiero profondamente differente rispetto ai miti di origine greci e babilonesi: la separazione tra cielo e terra è un evento necessario e la nascita della vita è un atto d'amore e di bellezza; per i Greci, invece, fu un gesto di violenza, la castrazione di Urano, a dare origine alla vita e all'amore (dalla castrazione e dalla spuma nacque Afrodite). Solo pochi anni dopo gli assiri raccontano un'origine ancora più cruenta: il mondo nasce dal cadavere di Tiamat, la Madre-abisso, uccisa e fatta a pezzi dall'eroe Marduk.
La nascita dell'uomo ha lo scopo di alleviare la fatica degli dei minori, ed Enki, oltre a crearli si schiererà in più occasioni dalla loro parte: correggendo il loro destino e salvandoli dal diluvio contravvenendo ai divieti degli altri Dei.
Enki è “colui la cui parola è giusta”, è Enki che fa rinascere Inanna, è il maschile del pre-patriarcato, un maschile solidale e creativo, in grado di portare in superficie le acque fecondanti. Ciò che lo caratterizza non è il conflitto, non è lo scontro, ma piuttosto la saggezza, l'integrazione di parti diverse, la capacità di trovare soluzioni altre. (cit).
Da un punto di vista psicoanalitico Enki è la coscienza vivificata dal Sé, come sostiene Jung “ogni parte di inconscio che affiora alla coscienza porta nuova energia creativa” (Jung, 1946).
Il corteggiamento tra Inanna e Dumuzi offre squarci di seduzione erotica e tenerezza, sempre nell'ottica della bellezza e della fertilità vegetale: Inanna tentenna, ma poi si convince e sposa il suo pastore dando origine all'antico rito del matrimonio mistico: ogni nuovo re, infatti, doveva accoppiarsi con una sacerdotessa di Inanna per offrire alla città abbondanza e prosperità ; con l'avvento del patriarcato il matrimonio mistico così ritualizzato si trasformerà nella “meretrice di Babilonia” citata nel Nuovo testamento (Apocalisse di Giovanni).
Ma il mito che più di tutti si presta ad un'interpretazione junghiana di incontro e integrazione dell'ombra è quello della discesa di Inanna negli inferi per abbracciare la sorella oscura Ereshkigal. Non sappiamo perché la dea voglia scendere nell'oltretomba contravvenendo alle regole divine secondo le quali nessuno torna vivo dal regno dei morti (sono molti i frammenti andati perduti).
La sua discesa prevede che la dea si spogli dei 7 “me”, rimanendo nuda davanti all'ira della sorella. Inanna verrà trasformata in cadavere e appesa a un gancio e la sua salvezza verrà riposta nelle mani dell'ancella Ninsubur che pregherà prima il nonno paterno, Enlil, poi il padre, il Dio della luna Nanna, per trovare infine ascolto e comprensione solo in Enki. Sarà Enki a modellare con lo sporco le due figure che faranno da coro al lamento di Ereshkigal riuscendo ad ottenere in cambio di tale compassione il corpo della Dea, che risorgerà con il cibo e l'acqua divini. Ma per ogni corpo che esce vivo, i giudici infernali chiedono una nuova vita. Chi non abbasserà il capo, chi non avrà il dono dell'umiltà sarà il prescelto nella sostituzione: Dumuzi rimane sul trono davanti ad Inanna risorta, sarà lui, dunque, a prendere il suo posto dopo una fuga e 2 trasformazioni. Ma Inanna ascolta i lamenti della sorella di Dumuzi e così verrà deciso: Geshtinanna, la sorella, prenderà il posto di Dumuzi nell'oltretomba per 6 mesi, e per il resto dell'anno sarà il pastore a scendere nel regno dei morti. Un mito che spiega le stagioni, molto differente da quello greco di Demetra e Persefone: Persefone arriva passivamente negli inferi, qui chi scende è sia un maschile che un femminile. Gestinanna è il nuovo femminile, Dumuzi è il nuovo maschile.
Torna Enki nelle ultime pagine del libro, torna come difensore dell'umanità condannata alla sparizione attraverso il diluvio, e la simbologia animale, in questo caso, si presta a interpretazioni alchemiche: a far ritorno sulla nave, infatti, non è una colomba bianca come nel mito biblico ma un corvo nero, animale notturno collegato alla morte.
“E forse è proprio questo che dovremmo imparare, siamo abituati ad aspettare la colomba col il suo ramoscello d'olivo, invece dovremmo imparare ad apprezzare il corvo, perché è lui che ci aiuta a far emergere una nuova terraferma dal mare del nostro inconscio”. (Cit.)
PAOLA PALMIOTTO
Il pre-patriarcato nella mitologia sumera:
una lettura simbolica secondo la psicologia analitica
Persiani editore 2009
Erba magica per eccellenza, la mandragora ha assunto nel corso della storia un ruolo fondamentale nell'aspetto magico- rituale connesso al mondo vegetale.
Appartenente alla famiglia delle solanacee (la stessa famiglia dei peperoni, melanzane, patate e tabacco), la mandragora si caratterizza per la presenza di alcaloidi (atropina, iosciamina, mandragorina, joscina, piridina, scopoletina, pseudoiosciamina etc..) che ne rendono pericoloso l'uso indiscriminato. Si distinguono 6 specie di mandragore, tra le più note ricordiamo la mandragora autumnalis che fiorisce, appunto, in autunno con grandi corolle color violetto, il frutto è giallo ed ha un odore fetido, e la mandragora officinarum che fiorisce in marzo- aprile, ha fiori a corolla bianca tendenti al verde e al giallo e frutti arancioni. Dal punto di vista farmacologico le mandragore hanno potere soporifero, dato dall'inibizione del sistema neuro-vegetativo che agisce in modo preponderante sul sistema pneumogastrico. Superando le dosi sperimentate attacca la corteccia cerebrale con conseguenze tossiche ( nausea, vomito, tachicardia, respirazione difficoltosa, allucinazioni e deliri...).
L'etimologia del nome apre un ventaglio di significati: il greco la riconduce alla stalla, perché accanto ad esse era rinvenuta, nella lingua persiana assume il significato di “erba dell'uomo” (la radice ha forma antropomorfa), ma anche di “quella che espelle”, che caccia i demoni, di “erba dell'amore” e di pianta “dissotterrata dal cane”; nella radice sanscrita troviamo il connubio di “sonno” e “materia”, sostanza che induce il sogno, ma anche “pianta inebriante”; in arabo è la “lampada del diavolo” poiché dopo un temporale le mandragore tunisine diventavano bluastre, (sfumatura cromatica data da un alcaloide); il tedesco ci riporta al significato di “segreto”, “formula magica”, legata al verbo “mormorare”; in fiammingo è “l'orina del ladro”. Il latino la riconduce alla pazzia, “rende folli e dà sonno profondo e cresce nelle ombrose caverne della terra” afferma Dioscoride Longobardo.
Già nell'excursus etimologico è possibile rinvenire le caratteristiche magiche che la pianta ha assunto nelle epoche: amuleto protettivo, pianta afrodisiaca, pianta ipnotica, pianta maledetta, pianta sacra, pianta che cresce nella terra degli impiccati.
Vita e morte, santità e maledizione sembrano ritrovarsi in un'unica entità vegetale, una coincidentiae oppositorum che compare già nei dipinti egizi, e trova menzione anche nell'Antico testamento (nella storia di Giacobbe il solo tocco della pianta rende fertile Lia).
Per Ildegarda di Bingen la pianta è connessa al demonio perché nata dalla terra con la quale è stato creato Adamo.
La raccolta della mandragora era uno dei compiti del rizotomo (raccoglitore di radici), il quale, secondo più autori latini doveva adempiere a rituali ben precisi: dopo aver effettuato lo scavo nel terreno e dopo aver tracciato cerchi magici, legava la radice a un cane nero (animale psicopompo) molto affamato che, attirato da un pezzo di carne, l'avrebbe tirata fuori dal terreno e si sarebbe immolato alla fine del rito.
Utilizzata nella farmacopea per le sue qualità anestetizzanti, era uno degli ingredienti della spongia sonnifera, una spugna che veniva data da inalare a chi doveva subire un intervento chirurgico.
Arnaldo Villanova la cita a proposito della “mela sonnifera” realizzata con la scorza della mandragora, il succo e le foglie del papavero e la farina d'orzo da mettere sotto il naso del paziente.
In dose precisa, aggiunta al vino, aiutava a vincere la malinconia e il suicidio, ma se le dosi erano aumentate si aveva l'impressione di trasformarsi in animale o pianta.
Una sensazione, quella della trasformazione, che richiama i processi contro le streghe, le quali, spalmandosi di un unguento magico composto di piante alcaloidee, avevano la sensazione di trasformarsi in animali e di compiere voli magici verso il Sabba. Tra le accuse contro Giovanna d'Arco c'era quella di portare nel seno una radice di mandragora.
Mandragoritis è uno degli appellativi di Afrodite, dea dell'amore. L'aspetto eccitante è menzionato da Dioscoride, mentre Ippocrate la suggeriva per le irrigazioni vaginali dei pessari imbevuti di succo di mandragora, cetriolo e latte di donna.
Santa Ildegarda, al contrario, consigliava la pianta nella cura della satirasi maschile e della ninfomania femminile.
Il libro di Massimo Lizzi, arricchito da interessanti immagini di erbari antichi e dipinti, è un testo unico, appassionato e ben documentato.
Massimo Izzi
La radice dell'uomo: alla ricerca della mandragora
Venexia 2016
La guerra di Corea fu combattuta dal 1950 al 1953 e vide contrapposte da una parte la Corea del Nord e la Cina e dall'altra la Corea del Sud, gli Stati Uniti d'America e le Forze dell'ONU.
La popolazione coreana, terrorizzata, fu ben presto ridotta in estreme condizioni di terrore, miseria e abbandono. La fame e le malattie contribuirono ad accrescere il numero delle vittime delle azioni belliche.
Per fronteggiare questa drammatica situazione la Croce Rossa internazionale si attivò per inviare aiuti umanitari, lanciando un appello a tutte le sue Società nazionali per portare soccorso ai cittadini coinvolti nella guerra.
Il 20 settembre 1951, la Repubblica Italiana, pur non facendo ancora parte delle Nazioni Unite, mise a disposizione del Segretario Generale dell'ONU un ospedale del Corpo Militare della Croce Rossa, contrassegnato con il numero 68, completo di equipaggiamento e personale.
L'impiego dell'ospedale italiano nella guerra di Corea si protrasse dal novembre '51 al dicembre '54, rimanendo operativo un anno e mezzo dopo la fine delle ostilità.
Della gloriosa e lontana missione in terra coreana del personale della Croce Rossa è rimasta in Italia, purtroppo, una memoria labile e confusa.
Quella degli uomini del Corpo Militare, supportata dalle infermiere volontarie CRI, è stata la prima operazione fuori dai confini nazionali di una nostra unità militare dopo la Seconda guerra mondiale.
La missione, che riscosse il plauso del Governo coreano, dei vertici militari americani e delle autorità dei Paesi alleati, va giustamente ricordata in quanto costituì il primo elemento di un reale reinserimento della nuova Italia nel contesto internazionale delle Nazioni impiegate a sostenere gli sforzi e le decisioni dell'ONU.
Questo volume, nel ripercorrere le commemorazioni per il 60° anniversario della guerra di Corea, celebrate sia Italia sia nella Repubblica di Corea, a testimonianza del profondo senso di riconoscenza che il popolo coreano nutre tuttora verso i 21 Paesi che corsero in suo aiuto durante i terribili anni della guerra, rende finalmente onore alla memoria dei veterani ormai scomparsi e alle gesta dei pochissimi reduci ancora in vita.
Il tenente colonnello De Felici ricostruisce in modo scrupoloso, puntuale e rigoroso le vicende del conflitto bellico in tutte le sue declinazioni, dalla glorificazione dei momenti salienti della storia nazionale alla rievocazione delle principali battaglie, dal gesto di isolato eroismo al compianto per i caduti, dalle umili retrovie all'esaltazione retorica di episodi e figure che fanno parte della memoria storica del Corpo Militare della Croce Rossa Italiana.
Il libro di grande formato, con capitoli redatti in lingua inglese, è arricchito da un'accurata e inedita documentazione fotografica attuale e dell'epoca. Riporta, inoltre, un interessante panoramica delle ultime ostilità fra le due Coree e una doviziosa bibliografia, consigliata per chi volesse approfondire gli argomenti inerenti alla guerra di Corea e la partecipazione della missione italiana.
La guerra di Corea, 60 anni dopo
I veterani in visita ai luoghi più significativi
di Claudio De Felici
Di Virgilio Editore, Roma - pagine 224
La missione in Iraq può essere considerata come uno dei capisaldi degli interventi all’estero eseguiti dal Corpo Militare della Croce Rossa Italiana dopo la Seconda guerra mondiale.
Il concorso fornito nel territorio iracheno alle forze del Contingente italiano impegnate nell’operazione “Antica Babilonia” da parte del personale del Corpo Militare CRI, affiancato dalle “sorelle” del Corpo delle Infermiere Volontarie,
si dimostrò assolutamente di spessore e valore come risulta
dai numerosi encomi e riconoscimenti di autorità ed Enti civili
e militari riportati anche in questo testo.
La permanenza in territorio iracheno del personale del Corpo Militare della Croce Rossa Italiana, protrattasi dal giugno 2003
al novembre 2006, ha visto impiegati in totale 1.054 uomini e può essere considerata come un’ulteriore prestigiosa pagina
nella storia del Corpo, ausiliario delle Forze Armate dello Stato.
L’ospedale da campo Role 2+ e la 68^ Unità sanitaria, presenti nella base italiana di Camp Mittica, sono stati due presidi preziosi per la cura dei nostri militari e soprattutto per l’assistenza medica alla popolazione irachena, svolta sia all’interno del compound sia nei villaggi della provincia del Dhi Qar.
I militari del Contingente italiano si sono impegnati per portare la pace, la sicurezza e la stabilità in un Paese nobile e ricco di storia attraverso lo svolgimento di attività di alto valore umanitario, al fine di rafforzare la coesione di un popolo martoriato dalle guerre.
La missione, che riscosse il plauso delle autorità del governatorato del Dhi Qar, dei comandanti militari americani e dei vertici dei Paesi della Coalizione, va giustamente ricordata in quanto costituì la base di un primo reale reinserimento del nuovo Iraq nel contesto delle altre nazioni del Medio Oriente.
Nel volume “La mia Nassiriya” il tenente colonnello Claudio De Felici, referente per la comunicazione del Corpo Militare della Croce Rossa Italiana, ricostruisce in modo scrupoloso, puntuale e rigoroso le vicende storiche della missione in tutte le sue declinazioni, con dovizia di particolari e attenta ricostruzione storica: dalla glorificazione dei momenti salienti alla rievocazione delle principali commemorazioni e cerimonie avvenute durante il suo periodo di comando della 68^ Unità sanitaria CRI, dalla memoria e dal compianto per i Caduti all’esaltazione retorica di episodi e figure che fanno parte, a distanza di dieci anni dalla fine di quella gloriosa missione, della memoria storica del Corpo Militare della Croce Rossa Italiana.
Il testo è arricchito con numerosi documenti, varie testimonianze e un vasto repertorio iconografico per lo più inedito.
La mia Nassiriya
Documenti, ricerche e testimonianze
di un operatore di pace
di Claudio De Felici
Di Virgilio Editore - pagine 246
“La felicità è la nostra condizione naturale, l’estasi è insita nella nostra natura”.
Abbiamo bisogno di “libri-ponte”: testi che siano collegamento tra Oriente e Occidente, tra medicina alternativa e medicina allopatica. In questa direzione si sono mosse le ricerche di autori quali Watts, Capra, Narby: con il risultato di un incontro (seppur con molto ritardo da parte dell'occidente scientifico), tra la scienza moderna e le culture antiche yogiche e sciamaniche. Anche il libro di Candace Pert si colloca in questo ambito.
A lei si deve la scoperta delle molecole che sono la base biochimica delle emozioni: i peptidi.
Dove nascono le emozioni? Nascono nel corpo o solo nel cervello? Entrambe le risposte sono corrette perché il processo viaggia in doppia direzione: i peptidi, le molecole messaggere, infatti, vengono prodotte da più parti del corpo. Ne è ricco il cervello, ma anche l'intestino crasso e l' intestino tenue sono rivestiti da un fitto strato di neuropeptidi e recettori. Queste molecole, per attivare delle modifiche cellulari, devono avere un recettore adeguato. È il recettore che permette a qualsiasi farmaco di fissarsi. Le molecole del recettore sono in costante vibrazione e si trovano all'esterno della cellula, sulla membrana. Qui esse danzano nell'attesa di incontrare il legante. Quando avviene l'incontro il legante trasmette il messaggio al recettore, il recettore lo trasmette alla cellula dove il messaggio può modificare lo stato della cellula stessa dando luogo ad eventi biochimici.
Nel cervello i neuropeptidi sono concentrati soprattutto nel limbico, sede delle emozioni. Dal libero flusso di peptidi tuttavia dipende il nutrimento del prosencefalo che è la sede delle funzioni cognitive superiori (questa parte del cervello raggiunge il suo pieno sviluppo non prima dei vent'anni). La pianificazione del futuro, la capacità di prendere decisioni e di formulare l’intenzione di cambiare sono tutte funzioni del prosencefalo. Quando ci sentiamo passivi, statici, “in gabbia”, ripetendo vecchi schemi di comportamento, è segno che le emozioni non trovano il loro libero flusso, e, di conseguenza, il prosencefalo malnutrito non riesce a promuovere un cambiamento.
“Se le nostre emozioni sono bloccate a causa di negazioni, repressioni o traumi, il flusso del sangue può diventare cronicamente limitato, deprivando la corteccia frontale del suo nutrimento”.
Come si traduce in termini scientifici il blocco delle emozioni? Il CFR è il peptide delle aspettative negative che può essere stimolato dalle esperienze traumatiche che abbiamo vissuto nell’infanzia . Se il livello di CFR è alto, le fluttuazioni degli altri peptidi risultano limitate. Quando il crf aumenta i recettori si desensibilizzano e diminuiscono di numero: la memoria del trauma, dunque, è fissata a livello del recettore dei neuropetidi.
Un blocco, quello delle emozioni, che ci predispone all'insorgere di malattie più o meno importanti: il reovirus del raffreddore usa lo stesso recettore della norepinefrina che è secreta da uno stato d’animo felice. Quando siamo felici, quindi, il virus non entra perché tutti i recettori sono occupati.
L'autrice conferma la validità della PNEI: la PsicoNeuroEndocrinoImmunologia nasce circa trent' anni fa come incontro di discipline scientifiche quali le scienze comportamentali, le neuroscienze, l'endocrinologia e l'immunologia. La PNEI studia le interazioni reciproche tra attività mentale, comportamento, sistema nervoso, sistema endocrino e reattività immunitaria, con lo scopo di riunire sistemi psico-fisiologici che da 200 anni sono stati separati nel loro studio e approccio.
Due fasci di fibre nervose sono collocate ai lati della spina dorsale, ciascuno dei quali è ricco di peptidi che trasportano informazioni: queste fasce corrispondono ai punti dei chakra della tradizione orientale.
Le parti scientifiche sono intervallate dalle parti biografiche, in cui vengono narrate in prima persona le difficoltà che l'autrice ha dovuto affrontare per riuscire a continuare la sua ricerca; le parti biografiche, anche se possono risultare meno interessanti, sono utili per comprendere quanto ostracismo si cela dietro un tipo di ricerca scientifica (e medica) che promuove l'uso delle terapie naturali.
“io credo che la felicità sia ciò che proviamo quando le componenti biochimiche alla base delle emozioni cioè i neuropeptidi e i loro recettori sono aperte e possono circolare liberamente nella rete psicosomatica interagendo e coordinando sistemi, organi, cellule in movimento continuo e ritmico. La felicità è la nostra condizione naturale l’estasi è insita nella nostra natura.
CANDACE PERT : MOLECOLE DI EMOZIONI
in ristampa per edizioni Tea
200 giovanissime vite di soldati “seppellite” senza nome dal Segreto Militare di Stato
“Mulazzo (Massa Carrara), capitale in Italia della Cultura nel 2017 !” Lo ha annunciato alla stampa Claudio NOVOA, sindaco appunto della piccola Mulazzo. Parole che hanno suscitato una certa perplessità in chi immagina di accostare alla cittadina della Lunigiana una Bologna “la dotta”, una Firenze del rinascimentale splendore Mediceo o ancora, una Roma imperiale. Ma Novoa intende riferirsi alla cultura del “libro”, infatti la provincia lunigianese è famosa nel mondo per la sua plurisecolare tradizione libraria. Dai “bancarellisti” di Montereggio alle mitiche librerie di Pontremoli fino a giungere ad editori conterranei come BIETTI, SALANI, CORBACCIO, DALL’OGLIO, fino ad arrivare alla gloriosa SONZOGNO ecc.. Tutte fiorenti imprese dell’Editoria italiana sviluppatesi nella potente ed industriale Milano ma con un cuore che batte nella lunigiana. Insomma, tutto partì da quei “bancarellieri” che peregrinando per e diverse province parmensi, emiliane, toscane e romagnole seppero diffondere quei classici scaturiti nientemeno che dalla penna di un Macchiaveli, di un Boccaccio o ancora da un Petrarca, per non parlare dei grandi romanzi di Deledda, Salgari, Serao, Verne, fino ad arrivare a Leon Tolstoj, Victor Hugò, Guy de Maupassant, Emil Zola, Fedor Dostoevskij, Diumas padre e figlio ecc. ecc. Insomma Novoa in piena polemica con l’editoria attuale lancia la sua sfida:« Come si fa a criticare i giovani perché si interessano solo a telefonini, computers o tabet, e non leggono ....? Come si fa a dire che c’è una crisi di valori ....?.. Se si è voluto deliberatamente uccidere la cultura con un’editoria lanciatasi nella “politica libraria” del “facile consenso”, con libri che vanno dalle barzellette di Francesco Totti fino all’assurda volgarità di Zalone ?... Cosa insegniamo ai nostri figli ...? Il turpiloquio ?! » e lo fa ad alta voce presentando un libro edito proprio a Mulazzo dall’ editore TARKA, appunto “I librai Pontremolesi” di Gian Battista Martinelli, che dimostra eloquentemente come proprio da quell’importantissima funzione svolta dai librai nel favorire la vendita di una buona “stampa” sono poi emerse firme come Montanelli, Fallaci e Buzzati. Ma non basta. Novoa annuncia la scoperta di un fortunato ritrovamento documentale sulla Grande Guerra.
Un “carteggio” top-secrett gravato ancor oggi, in tempo di celebrazioni del “Centenario”, dal “Segreto Militare di Stato” . Una storiaccia di quelle “all’italiana” che ha torbidamente nascosto alla Magistratura di Stato ma soprattutto agl’italiani, la morte di circa 200 ragazzi, tra i 18 e i 20 anni. Sottraendo l’inchiesta ed affidandola fraudolentemente alla giurisdizione del Tribunale Militare adducendo false motivazioni causate da “fatti di guerra” e non invece dei reali motivi. Rivelazioni storiche di portata Europea che saranno comunicate in una Conferenza che si terrà prossimamente a Mulazzo da parte di un noto giornalista d’inchiesta specializzato “cacciatore” di documenti occultati. Ne nascerà un libro che racconterà con documenti secretati alla mano, tutto quanto è ignobilmente accaduto. E come per portar via i poveri resti dei giovani soldati, sono occorsi 36 cassoni (camions militari) della Croce Rossa, per raccogliere le innumerevoli membra umane dilaniate dall’esplosione dolosa..
Aspettiamo di sapere la verità. Anche di quest’altra “Piazza Fontana” di ... sangue, d’inizio secolo.
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Descrivendo in modo mirabile la vita di un uomo che consacrò la vita a fare del bene in nome e per conto dell’ Amore Universale Enrico Malatesta pone in risalto, in maniera altrettanto documentata, le tenebre che tentarono di ostacolare il volere del Signore.
Negli stessi anni in cui venivano gettate le fondamenta dell’opera grandiosa dovuta alla carità e che si chiamava Casa della Solidarietà, fondazione voluta da P. Pio, cominciò a nascere un’altra impresa che mirava a finanziare, con metodi e mezzi diversi, la costruzione di chiese, di conventi, di seminari, di ospedali e di scuole cattoliche. Era l’impresa di Gianbattista Giufrè, un ex piccolo impiegato di banca, che divenne celebre con il soprannome “Il banchiere di Dio”.Il caso Giuffrè, che ebbe una notevole risonanza nella penisola e diede un bel da fare ad una commissione parlamentare incaricata di definirne la responsabilità, cadde nello stesso tempo sotto il colpo del codice penale italiano e del codice di diritto canonico.
La tecnica delle operazione di Giuffrè era la seguente: quando gli organi religiosi – vescovi, ordini monastici o congregazioni – volevano costruire degli edifici a scopo religioso o sociale e avevano stabilito il preventivo della spesa e il termine della costruzione (due, tre anni o più) , esortavano i fedeli ad affidare i loro risparmi al Giuffrè per una somma e delle scadenze all’incirca uguali ai su detti preventivi e scadenze. Il Giufrè offriva ai fedeli degli interessi variabili tra il 5% e 10% annui. Ma, e qui che la cosa diventa grave, su questi stessi fondi, affidati dai fedeli a Giuffrè, egli doveva offrire agli organi religiosi che gli avevano così raccolti degli interessi variabili tra il 50 ed il 100% annui.
Tali operazioni non rientravano nella nozione di usura che la Chiesa, come il mondo laico, non ha cessato di denunciare e di condannare da secoli?
Furono dunque gli organi religiosi che praticavano l’usura e non il famoso banchiere. Essi incassarono interessi favolosi su capitali che non gli appartenevano, non corsero alun rischio, potendo spiegare un qualunque “prezzo del servizio reso”. Non prestarono nulla e si limitarono ad offrire la loro “garanzia morale” all’operazione e, così facendo a incoraggiare gli imbrogli di questo Giuffrè, il quale,evidentemente, non poteva pagare a lungo andare degli interessi così enormi a meno di non attingere da nuovi depositi.
Pi ù la spirale si allargò, più grave divenne il pericolo. Gli indizi non passarono inosservati e Pio XII che, informato della situazione, fece inviare nell’aprile 1957 una circolare al clero italiano per metterlo in guardia contro i rischi e il carattere illecito di queste operazioni, ma non fu sempre ascoltato. C’è di peggio: certi ecclesiastici,certi religiosi giunsero ad incoraggiare alcuni loro amici e penitenti laici ad affidarsi, con la complicità di Giuffrè, a tali operazioni.
Molte vittime dell’affare Giuffrè – si calcola la cifra di 25mila – si trovarono in situazioni disperate.
Tutti i mezzi furono messi all’opera per impedire alla vittime di iniziare delle procedure penali contro i responsabili. Cosa incredibile e che spiega la potente influenza delle forze in gioco, è che solo una dozzina di persone chiese la messa in fallimento del Gioffrè. Restarono gli ecclesiastici e i monaci che avevano prestato la mano a queste operazioni finanziarie e a delle pratiche usuraie a spese dei fedeli. Avrebbero dovuto sentirsi obbligati di indennizzare le vittime.
L’ordine dei cappuccini fu il più compromesso da questa triste vicenda. Al momento del crak esso avrebbe dovuto rimborsare delle somme che oltrepassavano dieci volte le sue possibilità di pagamento. La provincia monastica di Foggia fu toccata più delle altre; essa avrebbe dovuto far fronte ad un debito di più di un miliardo e mezzo di lire, ma non aveva in cassa che un milione.
E’ importante sottolineare che il caso di questa provincia era particolare. Essa non era coinvolta nell’affare Giufré che per una somma relativamente modesta, ma adottò a suo modo i metodi del banchiere fuggitivo. I monaci si fecero prestare il denaro dei fedeli e assunsero delle spese sconsiderate con imprese di costruzione per riedificare alcuni monasteri, seminari e chiese, traendo profitto dal credito che portava loro la presenza di P. Pio nella loro provincia.
Ma il fallimento di Giuffré fu anche il loro fallimento. I fedeli, sconvolti, reclamarono la restituzione dei depositi e i monaci di Foggia non poterono resistere alla tentazione di attingere alla cassa della Casa Sollievo per colmare il deficit. I superiori dell’Ordine , compromessi a loro volta attraverso tutta l’Italia, finirono con il subire la medesima tentazione.
Prevedendo il pericolo di atti illeciti con cui essi avrebbero potuto compromettersi in nome della Santa Ubbidienza, Pio XII presentò un rescritto che confermava P. Pio quale amministratore e direttore perpetuo della Casa Sollievo. Il rescritto equivaleva a dispensare il santo monaco dal voto di povertà. A lui si accordò il diritto di usare e di disporre dei beni fino alla morte. Questo rescritto è del 4 aprile 1957.
Vale la pena sottolineare che in questo mese il Pontefice fece inviare una prima diffida contro Giuffrè, come è stato detto sopra.
Ciò che il Papa aveva previsto non tardò a verificarsi: dapprima il Provinciale, poi la Curia Generalizia vollero servirsi della Casa Sollievo per pagare i loro debiti. Ma il rescritto pontificio mise, da quel momento in poi P. Pio al riparo da ogni pressione arbitraria esercitata in nome della Santa Obbedienza.
Si poteva sperare che anche dopo la morte di Pio XII, sopraggiunta nell’ottobre 1958, il carattere “perpetuo” del rescritto sarebbe stato rispettato secondo la tradizione della Chiesa.
Tale non fu, tuttavia, l’opinione della Commissione amministrativa delle Opere di Religione, sulla quale incombeva il pesante compito di liquidare i postumi dell’affare Giuffrè e, pertanto, di regolarizzare il bilancio dell’ordine dei cappuccini. Poiché questi ultimi proposero di far entrare in tale bilancio l’attivo della Casa Sollievo, essa aderì a questo espediente e decise di approvarlo.
Presieduta dal Cardinale Segretario di Stato, diretta di fatto dal Cardinale Di Iorio, grande esperto di finanza, la Commissione era responsabile delle finanze del Vaticano e custode del buon ordine amministrativo di tutte le opere religiose. Molto potente, questa provvedeva ai bisogni dello stato del Vaticano, operava degli investimenti all’estero, trattava, come il direttore di una banca, affari di cui non avrebbe dovuto render conto né tantomeno pubblicava i suoi bilanci, e per di più su tutto ciò “regnava” il segreto diplomatico.
Costatato che P. Pio restava irriducibile a ogni tentativo mirante a fargli abbandonare il suo mandato e a deviare i fondi della Casa Sollievo, si pensò di aggirare l’ostacolo con l”espropriazione” pura e semplice dell’ Opera. Ma questo non era possibile senza l’abrogazione, almeno de facto, del rescritto di Pio XII. Il suo successore, Giovanni XXIII° non avrebbe consentito a sancire una misura inconsueta di questa natura, a meno di non fornire le prove dell’incapacità intellettuale o morale di P. Pio a esercitare le funzioni perpetue che gli conferiva il rescritto.
Per ottenere l’abrogazione di questo rescritto , bisognò nascondere bene e modificare tutti questi elementi prima di presentarli al nuovo pontefice. Si adoperarono due modi:
1) Si cominciò con l’attaccare la persona e le opere di P. Pio. Questa azione fu condotta dal vescovo cappuccino di Padova, Mons. Bortignon, confidente e amico di Mons. Loris Capovilla, il segretario del Pontefice.
2) La violazione del segreto sacramentale, ordinata dai superiori – cappuccini ed altri – di P.Pio, al fine di cercare qualche prova di immoralità o di disubbidienza a suo carico.
LA VERA STORIA DI PADRE PIO
L’unica biografia completa con i documenti segreti esclusi dal processo di beatificazione
MURSIA EDITORE
ENRICO MALATESTA
L'autrice di Medichesse torna a stupire con un saggio di profonda cultura ed eleganza sulla mitologia delle piante medicamentose.
“Tutto è pieno di Dei”, affermava Talete: nelle religioni antiche il senso del sacro permeava il vivente e si esprimeva attraverso riti, preghiere, racconti mitologici.
Gli uomini manifestavano profonda gratitudine verso quelle piante o alberi che svolgevano un'azione curativa, e la pracatio omnium herbarum, preghiera che veniva recitata prima della raccolta delle piante officinali, ne è una testimonianza.
L'azione farmacologica della pianta era legata non solo alle sostanze in essa contenute ma anche al rito della raccolta che prevedeva purificazione, attenzione alla posizione del sole, invocazione, incantesimo rivolto al Dio al quale essa era consacrata.
Trasferire il principio curativo dalla pianta all'uomo assume il senso di gesto sacro, rivelatore del legame amoroso tra natura e creatura.
Le piante e la sfera del sacro erano indissolubilmente legate: i primi santuari furono le foreste, templi vegetali a tutti gli effetti; il timo porta, nella sua etimologia, il significato delle fumigazioni sugli altari. Gli Alberi sacri abitano le mitologie antiche con topoi simili: nei poemi mesopotamici l'albero Khuluppu è disturbato da un'aquila e da un serpente, proprio come accade al frassino Yggdrasill della tradizione nordica, due animali che esprimono forze opposte ma complementari; anche l'albero del giardino delle Esperidi è sorvegliato dal serpente, così come quello della conoscenza del giusto e dello sbagliato che troviamo nella Genesi.
Nella mitologia greca non assistiamo ad una metamorfosi effettiva di Dei in creature vegetali, sono piuttosto le ninfe ad essere mutate in alberi o piante.
La ninfa rappresenta la memoria di un'età più vicina allo stato di natura, dove il femminile era il paradigma delle forme vegetali: nel mito greco incarna un ideale femminile di vita libera e selvaggia , condotta nei boschi in armonia con i cicli naturali.
Dalle lacrime e dal sangue, fluidi di vita e di morte, nascono piante significative, come la viola di Attis o l'anemone di Adone.
Dee legate alle piante curative erano Era e Afrodite, che rappresentano le polarità dell'amore in costante tensione: ne è testimonianza la storia del giglio, nato dal latte di Era, ma modificato da Afrodite con l'aggiunta di un pistillo malizioso. Dee legate alle piante officinali erano anche Artemide, Kore e Demetra. Nella storia della ninfa Mintha, (amante di Ade trasformata nella pianta di menta da Demetra), risulta evidente la correlazione tra la storia narrata e il suo aspetto fitoterapico: la “freschezza” dell'amore libero entra in contrasto con la castità matrimoniale di Demetra/Kore.
Dee pharmakides legate al Sole sono Calipso, Circe e Medea (quest'ultima accoglie nel nome il verbo mèdomai che significa “io curo”).
Maga pharmakides è anche Elena di Troia, che viene chiamata in alcune fonti “dendrite” ovvero “arborea”, è lei che maneggia erbe consolatrici che dissolvono il dolore.
In Afrodite, Era, Demetra, Kore, Artemide, come anche in Dafne, Medea, Circe riecheggiano le antiche Dee Madri preindoeuropee, dee della vita, ma anche dee della morte.
Il libro di Erika Maderna, arricchito da immagini di antichi erbari e da quadri della pittura moderna è un'opera necessaria per restituire alle piante la loro dimensione narrativa. Vedere la pianta solo come un insieme di principi attivi è come vederla con un occhio solo, quello che la lega alla sfera dell'utile. Apriamo dunque anche l'altro occhio, perché Gustare la bellezza di un racconto può essere una prima forma di avvicinamento; aprire lo scrigno che ne contiene i segreti equivarrà ad affacciarsi alla soglia del mistero. Forse, se riusciremo a sciogliere qualche enigma, ma anche a recuperare un po' di quell'antico sguardo innocente, torneremo a cercare nella natura l'ispirazione per un nuovo modello di vita, più sensibile ai valori spirituali. Potremo allora credere che abbattere una foresta equivalga a violare le ninfe che vi dimorano.
Erika Maderna
Le mani degli Dèi
Mitologie e simboli delle piante officinali nel mito greco
Aboca 2016
Mentre tutto sta cambiando, con la riforma e l'accorpamento delle soprintendenze, nella prospettiva di una maggiore interazione, nel timore che, gattopardescamente, nulla cambierà e nella speranza che non cambi ciò che di buono c'era, è stato pubblicato per i tipi dell'Electa, il volume dedicato ad Amatrice, comune laziale della provincia di Rieti.
La soprintendenza dei Beni Storico, Artistici ed Etnoantropologici del Lazio aveva avviato e attivato un programma di valorizzazione, promozione e tutela del territorio di sua competenza, nell'ottica anche del decentramento del turismo gravitante su Roma e, specificatamente, su pochi siti bersagliati.
Le autrici, Anna Imponente Soprintendente alle Belle Arti e Paesaggio delle Marche (ma in precedenza del Lazio) e Rossana Torlontano dell’Università di Chieti, specificano che, Amatrice, forme e immagini del territorio, vuole rappresentare un «discorso coordinato a più voci e competenze specialistiche, tra soprintendenza e altri studiosi». La bellezza naturale e la situazione geografica hanno attirato l’attenzione sul luogo, che, l’intervento dell’uomo, ha assecondato e arricchito.
Questo discorso a più voci, tiene e rende conto delle culture e delle influenze che si sono incontrate nel territorio, crocevia di più regioni. Si dipana in modo cronologico, dal medioevo con la scultura dei portali di Sant’Agostino e di San Francesco, si passa alla pittura tra Trecento e Quattrocento. Nel XV secolo le oreficerie di Pietro Vannini, gettano luce sulla suppellettile liturgica, troppo spesso sottovalutata e sconosciuta. Mentre la pittura ha il suo campione in Pierpalma da Fermo nella chiesa della Filetta. Il XVI secolo vede gli esordi di Cola dell’Amatrice, la sua formazione è stata influenzata da grandi pittori precedenti e contemporanei come Antoniazzo Romano, Melozzo da Forlì, Perugino, ma anche meno conosciuti, ma non per questo meno importanti, come Saturnino Gatti. Un altro dei capitoli del Rinascimento è dedicato alla pittura, con Dionisio Cappelli e il Maestro della Madonna della Misericordia. Sempre il XVI secolo è protagonista di un capitolo che rende conto dell’incontro tra linguaggi artistici diversi nel territorio di Amatrice, nei borghi satellite come Varoni e Preta. Anche l’epoca barocca ha lasciato delle testimonianze. Ma forse la sorpresa più grande è quella che riservano il Novecento e la committenza religiosa in particolare. Dopo la Grande Guerra i problemi sociali del Mezzogiorno d’Italia si fanno ancora più pressanti, in risposta, il sacerdote Giovanni Minozzi, originario di Preta, paesino vicino ad Amatrice, e il barnabita Giovanni Semeria, fondano l’Opera Nazionale per il Mezzogiorno d’Italia. Alla realizzazione e decorazione degli istituti di assistenza collaborarono gli artisti dell’epoca, come testimoniano la chiesa di Santa Maria dell’Assunta e la fontana delle Pecore ad Amatrice. Nella chiesa, Ferruccio Ferrazzi ha dipinto La Resurrezione nel 1956. Negli stessi anni Venanzo Crocetti, che stava già lavorando alla Porta dei Sacramenti della Basilica di San Pietro a Roma, realizzava sei formelle a bassorilievo.
L’ultimo capitolo è dedicato all’etnografia: tra le curiosità, il Libro dei secreti, che svelava soluzioni e rimedi a svariati problemi di ordine quotidiano. Ma forse ancora più accattivante è la sezione dedicata al cibo, dove un paragrafo svela i segreti della pasta all’amatriciana, diffusasi a Roma «almeno dalla fine del XVIII secolo».
Anna Imponente, Rossana Torlontano
Amatrice. Forme e immagini del territorio
Mondadori Electa, Verona 2015, €.50,00
Le piante sono intelligenti e dispongono dei 5 sensi (udito, olfatto, vista, tatto, gusto), anzi ne hanno altri 15 in più. Dalle piante dipende la nostre esistenza, eppure l'uomo si rifiuta di riconoscere il ruolo che esse hanno sul pianeta.
Sin dall'antichità ci sono stati uomini che si sono schierati apertamente dalla parte dei vegetali (Democrito, Linneo, Darwin padre e Darwin figlio, Delpino) e chi, invece, le considerava “immobili”, non degne di considerazione, esseri inferiori.
Cinquecento milioni di anni fa le piante scelsero per uno stile di vita stanziale, ricavando dalla luce, dalla terra, dall'aria tutto ciò che a loro occorreva per sopravvivere. Tale scelta ha comportato tutta una serie di modifiche per arrivare alla sopravvivenza, primo tra tutti la struttura modulare, ovvero il comporsi di parti divisibili allo scopo di resistere agli attacchi dei predatori. La pianta è un dividuo, dunque, a differenza dell'animale che è un individuo, ovvero indivisibile nelle sue parti. Nella struttura modulare la pianta non concentra un organo in un punto specifico ma lo dissemina su tutte le parti.
Oltre ai benefici universalmente noti (produzione di ossigeno, mitigazione del clima, aspetto fitoterapico, nutrimento), nuove ricerche coinvolgono le piante sul piano del benessere: la semplice vista di una pianta apporta calma e rilassatezza. I malati che, negli ospedali, hanno una finestra sul verde utilizzano meno analgesici e vengono dimessi in tempi più brevi, i bambini che, a scuola, godono della vista su piante e alberi hanno un miglioramento della capacità di attenzione.
Il terzo capitolo indaga i sensi delle piante, non senza sorprese.
La capacità di vedere è strettamente connessa al fototropismo, ovvero alla crescita in direzione della luce.
La pianta non solo riesce a distinguere la luce dall'ombra ma è anche in grado di riconoscerne la qualità in funzione della lunghezza d'onda dei suoi raggi. I recettori della luce sono concentrati soprattutto nelle foglie, ma si trovano anche nello stelo e nelle radici. Gli alberi caducifoglie vanno in letargo, dormono, per superare l'inverno.
Il senso dell'olfatto lascia davvero sorpresi perchè attraverso gli odori le piante comunicano in un avera e propria lingua vegetale: mandano messaggi di pericolo, di attrazione o repulsione.
La parte deputata al gusto sono le radici che si spostano assaggiando i nutrienti del terreno; un “gusto” a parte è dato dalle piante carnivore, che mangiano insetti nella ricerca di azoto, necessario per la produzione di proteine.
La pianta che “incarna” il senso del tatto è la “mimosa pudica” capace di chiudere in modo repentino le foglie se viene toccata. Alcuni fiori si chiudono sugli insetti impollinatori per “sporcarli” meglio di polline, mentre le piante che hanno i viticci tastano gli ogggetti intorno per scegliere da chi farsi sorreggere.
L'udito è dato dalle vibrazioni della terra , captate da tutte le cellule della pianta grazie a dei canali meccano-sensibili: la musica applicata all'agricoltura delle viti ha prodotto, a Montalcino, risultati sorprendenti: il vino di quelle viti era più ricco di sapore, colore e polifenoli.
Oltre ai 5 sensi che abbiamo in comune, le piante ne hanno sviluppati altri 15.
Il quarto capitolo indaga la comunicazione delle piante, accenniamo al fatto, per esempio, che esse riconoscono i parenti e i batteri che possono essergli amici.
Ogni anno migliaia di specie di cui non sappiamo nulla si estinguono e, con loro si perdono definitivamente chissà quali regali per l'umanità. Forse, essere consapevoli che le piante sentono, comunicano, ricordano, imparano, risolvono problemi, potrà un giorno aiutarci a considerarle più vicine a noi e magari fornirci l'opportunità di studiarle e proteggerle con maggire efficacia.
Le piante meritano diritti, e la discussione su questo punto non è più rimandabile.
STEFANO MANCUSO E ALESSANDRA VIOLA
VERDE BRILLANTE: sensibilità e intelligenza del mondo vegetale
Giunti 2015
La prima volta in cui ho sentito parlare di un caso di pedofilia che fece molto scalpore in Albania e indignò l'opinione pubblica, fu nel 2004 in una casa famiglia per bambini orfani e abbandonati. La comunità si chiamava “I Suoi Figli” ed era gestita da una fondazione religiosa di cittadini inglesi, americani, olandesi e belgi.
Gli orrori che raccontarono i bambini quando tre componenti della fondazione, compreso il presidente inglese, furono denunciati da una volontaria olandese del centro, superarono i peggiori incubi che avessi mai avuto nella mia vita. Uno di loro, religioso, prima di abusare dei bambini, leggeva loro la Bibbia. Non riuscivo neanche a leggere fino in fondo le notizie che giravano in rete, che raccontavano testimonianze di bambini abusati e violentati brutalmente.
L'opinione pubblica in Albania rimase scioccata... Nell'Albania maschilista, chiusa per cinquant'anni sotto la dittatura di Hoxha e portatrice nei secoli di una cultura che imponeva regole rigide regolarizzate dal Kanun, un codice medievale, secondo il quale i bambini non si toccano, questo bruttissimo evento, purtroppo, non sarebbe rimasto l'unico.
La società albanese contemporanea deve fare i conti adesso con le problematiche sconosciutissime alla sua cultura secolare tradizionale: la pedofilia, l'incesto, la vendita come una merce qualsiasi di bambini destinati al mercato nero degli organi, la prostituzione minorile, l'adozione illegale. Si sono moltiplicati vertiginosamente i casi dei bambini scomparsi nel nulla. A questo si aggiunge un’altra inaudibile grettezza: si uccidono i bambini nel nome di Kanun e del debito di sangue, disonorando lo stesso codice che condanna fortemente questi orrori.
Io credo che parlare di queste storie, affrontate anche nel mio nuovo romanzo “I bambini non hanno mai colpe”, aiuti la società a prendere coscienza di questi fenomeni loschi che toccano tutti i paesi. Perché le richieste per il mercato nero degli organi, la prostituzione minorile e l'adozione illegale arrivano dai paesi più sviluppati e industrializzati del mondo, Italia compresa, approfittando della povertà della gente nei paesi poveri e in via di sviluppo. È matematico: se non ci fosse richiesta, si annullerebbe l’orribile tratta degli esseri umani. Ecco perché bisogna raccontarle senza tabù, esattamente come sono in realtà: la vergogna dell'umanità.
Il silenzio molte volte uccide.
Ismete Selmanaj Leba
01/04/2016
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Ismete Selmanaj Leba |
Ismete Selmanaj è nata a Durazzo, in Albania. Nel 1991 si laurea all'Università di Tirana presso la Facoltà di Ingegneria Edile, ma la passione per la letteratura, che l’ha accompagnata sin da quando era bambina e che le ha fatto vincere medaglie e numerosi premi, non l’ha mai abbandonata. Vive sulla sua pelle la crisi politica albanese: nel 1992, infatti, decide di trasferirsi in Italia, risiedendo da allora in provincia di Messina.
Con Bonfirraro lo scorso anno ha pubblicato il libro di successo Verginità Rapite che segna il suo esordio in lingua italiana, adottato dalla cattedra di “Cultura e Letteratura Albanese” presso l’Università di Palermo. I bambini non hanno mai colpe è il suo secondo romanzo, in cui la fa da padrona l’attualità e la sua piaga più mostruosa, la pedofilia, a cui viene intersecato il Kanun, il codice di comportamento albanese di tradizione medievale che grida perennemente alla vendetta.