L'informazione non è un optional, ma è una delle condizioni essenziali dell'esistenza dell'umanità. La lotta per la sopravvivenza, biologica e sociale, è una lotta per ottenere informazioni. |
Descrivendo in modo mirabile la vita di un uomo che consacrò la vita a fare del bene in nome e per conto dell’ Amore Universale Enrico Malatesta pone in risalto, in maniera altrettanto documentata, le tenebre che tentarono di ostacolare il volere del Signore.
Negli stessi anni in cui venivano gettate le fondamenta dell’opera grandiosa dovuta alla carità e che si chiamava Casa della Solidarietà, fondazione voluta da P. Pio, cominciò a nascere un’altra impresa che mirava a finanziare, con metodi e mezzi diversi, la costruzione di chiese, di conventi, di seminari, di ospedali e di scuole cattoliche. Era l’impresa di Gianbattista Giufrè, un ex piccolo impiegato di banca, che divenne celebre con il soprannome “Il banchiere di Dio”.
Il caso Giuffrè, che ebbe una notevole risonanza nella penisola e diede un bel da fare ad una commissione parlamentare incaricata di definirne la responsabilità, cadde nello stesso tempo sotto il colpo del codice penale italiano e del codice di diritto canonico.
La tecnica delle operazione di Giuffrè era la seguente: quando gli organi religiosi – vescovi, ordini monastici o congregazioni – volevano costruire degli edifici a scopo religioso o sociale e avevano stabilito il preventivo della spesa e il termine della costruzione (due, tre anni o più) , esortavano i fedeli ad affidare i loro risparmi al Giuffrè per una somma e delle scadenze all’incirca uguali ai su detti preventivi e scadenze. Il Giufrè offriva ai fedeli degli interessi variabili tra il 5% e 10% annui. Ma, e qui che la cosa diventa grave, su questi stessi fondi, affidati dai fedeli a Giuffrè, egli doveva offrire agli organi religiosi che gli avevano così raccolti degli interessi variabili tra il 50 ed il 100% annui.
Tali operazioni non rientravano nella nozione di usura che la Chiesa, come il mondo laico, non ha cessato di denunciare e di condannare da secoli?
Furono dunque gli organi religiosi che praticavano l’usura e non il famoso banchiere. Essi incassarono interessi favolosi su capitali che non gli appartenevano, non corsero alun rischio, potendo spiegare un qualunque “prezzo del servizio reso”. Non prestarono nulla e si limitarono ad offrire la loro “garanzia morale” all’operazione e, così facendo a incoraggiare gli imbrogli di questo Giuffrè, il quale,evidentemente, non poteva pagare a lungo andare degli interessi così enormi a meno di non attingere da nuovi depositi.
Pi ù la spirale si allargò, più grave divenne il pericolo. Gli indizi non passarono inosservati e Pio XII che, informato della situazione, fece inviare nell’aprile 1957 una circolare al clero italiano per metterlo in guardia contro i rischi e il carattere illecito di queste operazioni, ma non fu sempre ascoltato. C’è di peggio: certi ecclesiastici,certi religiosi giunsero ad incoraggiare alcuni loro amici e penitenti laici ad affidarsi, con la complicità di Giuffrè, a tali operazioni.
Molte vittime dell’affare Giuffrè – si calcola la cifra di 25mila – si trovarono in situazioni disperate.
Tutti i mezzi furono messi all’opera per impedire alla vittime di iniziare delle procedure penali contro i responsabili. Cosa incredibile e che spiega la potente influenza delle forze in gioco, è che solo una dozzina di persone chiese la messa in fallimento del Gioffrè. Restarono gli ecclesiastici e i monaci che avevano prestato la mano a queste operazioni finanziarie e a delle pratiche usuraie a spese dei fedeli. Avrebbero dovuto sentirsi obbligati di indennizzare le vittime.
L’ordine dei cappuccini fu il più compromesso da questa triste vicenda. Al momento del crak esso avrebbe dovuto rimborsare delle somme che oltrepassavano dieci volte le sue possibilità di pagamento. La provincia monastica di Foggia fu toccata più delle altre; essa avrebbe dovuto far fronte ad un debito di più di un miliardo e mezzo di lire, ma non aveva in cassa che un milione.
E’ importante sottolineare che il caso di questa provincia era particolare. Essa non era coinvolta nell’affare Giufré che per una somma relativamente modesta, ma adottò a suo modo i metodi del banchiere fuggitivo. I monaci si fecero prestare il denaro dei fedeli e assunsero delle spese sconsiderate con imprese di costruzione per riedificare alcuni monasteri, seminari e chiese, traendo profitto dal credito che portava loro la presenza di P. Pio nella loro provincia.
Ma il fallimento di Giuffré fu anche il loro fallimento. I fedeli, sconvolti, reclamarono la restituzione dei depositi e i monaci di Foggia non poterono resistere alla tentazione di attingere alla cassa della Casa Sollievo per colmare il deficit. I superiori dell’Ordine , compromessi a loro volta attraverso tutta l’Italia, finirono con il subire la medesima tentazione.
Prevedendo il pericolo di atti illeciti con cui essi avrebbero potuto compromettersi in nome della Santa Ubbidienza, Pio XII presentò un rescritto che confermava P. Pio quale amministratore e direttore perpetuo della Casa Sollievo. Il rescritto equivaleva a dispensare il santo monaco dal voto di povertà. A lui si accordò il diritto di usare e di disporre dei beni fino alla morte. Questo rescritto è del 4 aprile 1957.
Vale la pena sottolineare che in questo mese il Pontefice fece inviare una prima diffida contro Giuffrè, come è stato detto sopra.
Ciò che il Papa aveva previsto non tardò a verificarsi: dapprima il Provinciale, poi la Curia Generalizia vollero servirsi della Casa Sollievo per pagare i loro debiti. Ma il rescritto pontificio mise, da quel momento in poi P. Pio al riparo da ogni pressione arbitraria esercitata in nome della Santa Obbedienza.
Si poteva sperare che anche dopo la morte di Pio XII, sopraggiunta nell’ottobre 1958, il carattere “perpetuo” del rescritto sarebbe stato rispettato secondo la tradizione della Chiesa.
Tale non fu, tuttavia, l’opinione della Commissione amministrativa delle Opere di Religione, sulla quale incombeva il pesante compito di liquidare i postumi dell’affare Giuffrè e, pertanto, di regolarizzare il bilancio dell’ordine dei cappuccini. Poiché questi ultimi proposero di far entrare in tale bilancio l’attivo della Casa Sollievo, essa aderì a questo espediente e decise di approvarlo.
Presieduta dal Cardinale Segretario di Stato, diretta di fatto dal Cardinale Di Iorio, grande esperto di finanza, la Commissione era responsabile delle finanze del Vaticano e custode del buon ordine amministrativo di tutte le opere religiose. Molto potente, questa provvedeva ai bisogni dello stato del Vaticano, operava degli investimenti all’estero, trattava, come il direttore di una banca, affari di cui non avrebbe dovuto render conto né tantomeno pubblicava i suoi bilanci, e per di più su tutto ciò “regnava” il segreto diplomatico.
Costatato che P. Pio restava irriducibile a ogni tentativo mirante a fargli abbandonare il suo mandato e a deviare i fondi della Casa Sollievo, si pensò di aggirare l’ostacolo con l”espropriazione” pura e semplice dell’ Opera. Ma questo non era possibile senza l’abrogazione, almeno de facto, del rescritto di Pio XII. Il suo successore, Giovanni XXIII° non avrebbe consentito a sancire una misura inconsueta di questa natura, a meno di non fornire le prove dell’incapacità intellettuale o morale di P. Pio a esercitare le funzioni perpetue che gli conferiva il rescritto.
Per ottenere l’abrogazione di questo rescritto , bisognò nascondere bene e modificare tutti questi elementi prima di presentarli al nuovo pontefice. Si adoperarono due modi:
1) Si cominciò con l’attaccare la persona e le opere di P. Pio. Questa azione fu condotta dal vescovo cappuccino di Padova, Mons. Bortignon, confidente e amico di Mons. Loris Capovilla, il segretario del Pontefice.
2) La violazione del segreto sacramentale, ordinata dai superiori – cappuccini ed altri – di P.Pio, al fine di cercare qualche prova di immoralità o di disubbidienza a suo carico.
LA VERA STORIA DI PADRE PIO
L’unica biografia completa con i documenti segreti esclusi dal processo di beatificazione
MURSIA EDITORE
ENRICO MALATESTA
L'autrice di Medichesse torna a stupire con un saggio di profonda cultura ed eleganza sulla mitologia delle piante medicamentose.
“Tutto è pieno di Dei”, affermava Talete: nelle religioni antiche il senso del sacro permeava il vivente e si esprimeva attraverso riti, preghiere, racconti mitologici.
Gli uomini manifestavano profonda gratitudine verso quelle piante o alberi che svolgevano un'azione curativa, e la pracatio omnium herbarum, preghiera che veniva recitata prima della raccolta delle piante officinali, ne è una testimonianza.
L'azione farmacologica della pianta era legata non solo alle sostanze in essa contenute ma anche al rito della raccolta che prevedeva purificazione, attenzione alla posizione del sole, invocazione, incantesimo rivolto al Dio al quale essa era consacrata.
Trasferire il principio curativo dalla pianta all'uomo assume il senso di gesto sacro, rivelatore del legame amoroso tra natura e creatura.
Le piante e la sfera del sacro erano indissolubilmente legate: i primi santuari furono le foreste, templi vegetali a tutti gli effetti; il timo porta, nella sua etimologia, il significato delle fumigazioni sugli altari. Gli Alberi sacri abitano le mitologie antiche con topoi simili: nei poemi mesopotamici l'albero Khuluppu è disturbato da un'aquila e da un serpente, proprio come accade al frassino Yggdrasill della tradizione nordica, due animali che esprimono forze opposte ma complementari; anche l'albero del giardino delle Esperidi è sorvegliato dal serpente, così come quello della conoscenza del giusto e dello sbagliato che troviamo nella Genesi.
Nella mitologia greca non assistiamo ad una metamorfosi effettiva di Dei in creature vegetali, sono piuttosto le ninfe ad essere mutate in alberi o piante.
La ninfa rappresenta la memoria di un'età più vicina allo stato di natura, dove il femminile era il paradigma delle forme vegetali: nel mito greco incarna un ideale femminile di vita libera e selvaggia , condotta nei boschi in armonia con i cicli naturali.
Dalle lacrime e dal sangue, fluidi di vita e di morte, nascono piante significative, come la viola di Attis o l'anemone di Adone.
Dee legate alle piante curative erano Era e Afrodite, che rappresentano le polarità dell'amore in costante tensione: ne è testimonianza la storia del giglio, nato dal latte di Era, ma modificato da Afrodite con l'aggiunta di un pistillo malizioso. Dee legate alle piante officinali erano anche Artemide, Kore e Demetra. Nella storia della ninfa Mintha, (amante di Ade trasformata nella pianta di menta da Demetra), risulta evidente la correlazione tra la storia narrata e il suo aspetto fitoterapico: la “freschezza” dell'amore libero entra in contrasto con la castità matrimoniale di Demetra/Kore.
Dee pharmakides legate al Sole sono Calipso, Circe e Medea (quest'ultima accoglie nel nome il verbo mèdomai che significa “io curo”).
Maga pharmakides è anche Elena di Troia, che viene chiamata in alcune fonti “dendrite” ovvero “arborea”, è lei che maneggia erbe consolatrici che dissolvono il dolore.
In Afrodite, Era, Demetra, Kore, Artemide, come anche in Dafne, Medea, Circe riecheggiano le antiche Dee Madri preindoeuropee, dee della vita, ma anche dee della morte.
Il libro di Erika Maderna, arricchito da immagini di antichi erbari e da quadri della pittura moderna è un'opera necessaria per restituire alle piante la loro dimensione narrativa. Vedere la pianta solo come un insieme di principi attivi è come vederla con un occhio solo, quello che la lega alla sfera dell'utile. Apriamo dunque anche l'altro occhio, perché Gustare la bellezza di un racconto può essere una prima forma di avvicinamento; aprire lo scrigno che ne contiene i segreti equivarrà ad affacciarsi alla soglia del mistero. Forse, se riusciremo a sciogliere qualche enigma, ma anche a recuperare un po' di quell'antico sguardo innocente, torneremo a cercare nella natura l'ispirazione per un nuovo modello di vita, più sensibile ai valori spirituali. Potremo allora credere che abbattere una foresta equivalga a violare le ninfe che vi dimorano.
Erika Maderna
Le mani degli Dèi
Mitologie e simboli delle piante officinali nel mito greco
Aboca 2016
Mentre tutto sta cambiando, con la riforma e l'accorpamento delle soprintendenze, nella prospettiva di una maggiore interazione, nel timore che, gattopardescamente, nulla cambierà e nella speranza che non cambi ciò che di buono c'era, è stato pubblicato per i tipi dell'Electa, il volume dedicato ad Amatrice, comune laziale della provincia di Rieti.
La soprintendenza dei Beni Storico, Artistici ed Etnoantropologici del Lazio aveva avviato e attivato un programma di valorizzazione, promozione e tutela del territorio di sua competenza, nell'ottica anche del decentramento del turismo gravitante su Roma e, specificatamente, su pochi siti bersagliati.
Le autrici, Anna Imponente Soprintendente alle Belle Arti e Paesaggio delle Marche (ma in precedenza del Lazio) e Rossana Torlontano dell’Università di Chieti, specificano che, Amatrice, forme e immagini del territorio, vuole rappresentare un «discorso coordinato a più voci e competenze specialistiche, tra soprintendenza e altri studiosi». La bellezza naturale e la situazione geografica hanno attirato l’attenzione sul luogo, che, l’intervento dell’uomo, ha assecondato e arricchito.
Questo discorso a più voci, tiene e rende conto delle culture e delle influenze che si sono incontrate nel territorio, crocevia di più regioni. Si dipana in modo cronologico, dal medioevo con la scultura dei portali di Sant’Agostino e di San Francesco, si passa alla pittura tra Trecento e Quattrocento. Nel XV secolo le oreficerie di Pietro Vannini, gettano luce sulla suppellettile liturgica, troppo spesso sottovalutata e sconosciuta. Mentre la pittura ha il suo campione in Pierpalma da Fermo nella chiesa della Filetta. Il XVI secolo vede gli esordi di Cola dell’Amatrice, la sua formazione è stata influenzata da grandi pittori precedenti e contemporanei come Antoniazzo Romano, Melozzo da Forlì, Perugino, ma anche meno conosciuti, ma non per questo meno importanti, come Saturnino Gatti. Un altro dei capitoli del Rinascimento è dedicato alla pittura, con Dionisio Cappelli e il Maestro della Madonna della Misericordia. Sempre il XVI secolo è protagonista di un capitolo che rende conto dell’incontro tra linguaggi artistici diversi nel territorio di Amatrice, nei borghi satellite come Varoni e Preta. Anche l’epoca barocca ha lasciato delle testimonianze. Ma forse la sorpresa più grande è quella che riservano il Novecento e la committenza religiosa in particolare. Dopo la Grande Guerra i problemi sociali del Mezzogiorno d’Italia si fanno ancora più pressanti, in risposta, il sacerdote Giovanni Minozzi, originario di Preta, paesino vicino ad Amatrice, e il barnabita Giovanni Semeria, fondano l’Opera Nazionale per il Mezzogiorno d’Italia. Alla realizzazione e decorazione degli istituti di assistenza collaborarono gli artisti dell’epoca, come testimoniano la chiesa di Santa Maria dell’Assunta e la fontana delle Pecore ad Amatrice. Nella chiesa, Ferruccio Ferrazzi ha dipinto La Resurrezione nel 1956. Negli stessi anni Venanzo Crocetti, che stava già lavorando alla Porta dei Sacramenti della Basilica di San Pietro a Roma, realizzava sei formelle a bassorilievo.
L’ultimo capitolo è dedicato all’etnografia: tra le curiosità, il Libro dei secreti, che svelava soluzioni e rimedi a svariati problemi di ordine quotidiano. Ma forse ancora più accattivante è la sezione dedicata al cibo, dove un paragrafo svela i segreti della pasta all’amatriciana, diffusasi a Roma «almeno dalla fine del XVIII secolo».
Anna Imponente, Rossana Torlontano
Amatrice. Forme e immagini del territorio
Mondadori Electa, Verona 2015, €.50,00
Le piante sono intelligenti e dispongono dei 5 sensi (udito, olfatto, vista, tatto, gusto), anzi ne hanno altri 15 in più. Dalle piante dipende la nostre esistenza, eppure l'uomo si rifiuta di riconoscere il ruolo che esse hanno sul pianeta.
Sin dall'antichità ci sono stati uomini che si sono schierati apertamente dalla parte dei vegetali (Democrito, Linneo, Darwin padre e Darwin figlio, Delpino) e chi, invece, le considerava “immobili”, non degne di considerazione, esseri inferiori.
Cinquecento milioni di anni fa le piante scelsero per uno stile di vita stanziale, ricavando dalla luce, dalla terra, dall'aria tutto ciò che a loro occorreva per sopravvivere. Tale scelta ha comportato tutta una serie di modifiche per arrivare alla sopravvivenza, primo tra tutti la struttura modulare, ovvero il comporsi di parti divisibili allo scopo di resistere agli attacchi dei predatori. La pianta è un dividuo, dunque, a differenza dell'animale che è un individuo, ovvero indivisibile nelle sue parti. Nella struttura modulare la pianta non concentra un organo in un punto specifico ma lo dissemina su tutte le parti.
Oltre ai benefici universalmente noti (produzione di ossigeno, mitigazione del clima, aspetto fitoterapico, nutrimento), nuove ricerche coinvolgono le piante sul piano del benessere: la semplice vista di una pianta apporta calma e rilassatezza. I malati che, negli ospedali, hanno una finestra sul verde utilizzano meno analgesici e vengono dimessi in tempi più brevi, i bambini che, a scuola, godono della vista su piante e alberi hanno un miglioramento della capacità di attenzione.
Il terzo capitolo indaga i sensi delle piante, non senza sorprese.
La capacità di vedere è strettamente connessa al fototropismo, ovvero alla crescita in direzione della luce.
La pianta non solo riesce a distinguere la luce dall'ombra ma è anche in grado di riconoscerne la qualità in funzione della lunghezza d'onda dei suoi raggi. I recettori della luce sono concentrati soprattutto nelle foglie, ma si trovano anche nello stelo e nelle radici. Gli alberi caducifoglie vanno in letargo, dormono, per superare l'inverno.
Il senso dell'olfatto lascia davvero sorpresi perchè attraverso gli odori le piante comunicano in un avera e propria lingua vegetale: mandano messaggi di pericolo, di attrazione o repulsione.
La parte deputata al gusto sono le radici che si spostano assaggiando i nutrienti del terreno; un “gusto” a parte è dato dalle piante carnivore, che mangiano insetti nella ricerca di azoto, necessario per la produzione di proteine.
La pianta che “incarna” il senso del tatto è la “mimosa pudica” capace di chiudere in modo repentino le foglie se viene toccata. Alcuni fiori si chiudono sugli insetti impollinatori per “sporcarli” meglio di polline, mentre le piante che hanno i viticci tastano gli ogggetti intorno per scegliere da chi farsi sorreggere.
L'udito è dato dalle vibrazioni della terra , captate da tutte le cellule della pianta grazie a dei canali meccano-sensibili: la musica applicata all'agricoltura delle viti ha prodotto, a Montalcino, risultati sorprendenti: il vino di quelle viti era più ricco di sapore, colore e polifenoli.
Oltre ai 5 sensi che abbiamo in comune, le piante ne hanno sviluppati altri 15.
Il quarto capitolo indaga la comunicazione delle piante, accenniamo al fatto, per esempio, che esse riconoscono i parenti e i batteri che possono essergli amici.
Ogni anno migliaia di specie di cui non sappiamo nulla si estinguono e, con loro si perdono definitivamente chissà quali regali per l'umanità. Forse, essere consapevoli che le piante sentono, comunicano, ricordano, imparano, risolvono problemi, potrà un giorno aiutarci a considerarle più vicine a noi e magari fornirci l'opportunità di studiarle e proteggerle con maggire efficacia.
Le piante meritano diritti, e la discussione su questo punto non è più rimandabile.
STEFANO MANCUSO E ALESSANDRA VIOLA
VERDE BRILLANTE: sensibilità e intelligenza del mondo vegetale
Giunti 2015
La prima volta in cui ho sentito parlare di un caso di pedofilia che fece molto scalpore in Albania e indignò l'opinione pubblica, fu nel 2004 in una casa famiglia per bambini orfani e abbandonati. La comunità si chiamava “I Suoi Figli” ed era gestita da una fondazione religiosa di cittadini inglesi, americani, olandesi e belgi.
Gli orrori che raccontarono i bambini quando tre componenti della fondazione, compreso il presidente inglese, furono denunciati da una volontaria olandese del centro, superarono i peggiori incubi che avessi mai avuto nella mia vita. Uno di loro, religioso, prima di abusare dei bambini, leggeva loro la Bibbia. Non riuscivo neanche a leggere fino in fondo le notizie che giravano in rete, che raccontavano testimonianze di bambini abusati e violentati brutalmente.
L'opinione pubblica in Albania rimase scioccata... Nell'Albania maschilista, chiusa per cinquant'anni sotto la dittatura di Hoxha e portatrice nei secoli di una cultura che imponeva regole rigide regolarizzate dal Kanun, un codice medievale, secondo il quale i bambini non si toccano, questo bruttissimo evento, purtroppo, non sarebbe rimasto l'unico.
La società albanese contemporanea deve fare i conti adesso con le problematiche sconosciutissime alla sua cultura secolare tradizionale: la pedofilia, l'incesto, la vendita come una merce qualsiasi di bambini destinati al mercato nero degli organi, la prostituzione minorile, l'adozione illegale. Si sono moltiplicati vertiginosamente i casi dei bambini scomparsi nel nulla. A questo si aggiunge un’altra inaudibile grettezza: si uccidono i bambini nel nome di Kanun e del debito di sangue, disonorando lo stesso codice che condanna fortemente questi orrori.
Io credo che parlare di queste storie, affrontate anche nel mio nuovo romanzo “I bambini non hanno mai colpe”, aiuti la società a prendere coscienza di questi fenomeni loschi che toccano tutti i paesi. Perché le richieste per il mercato nero degli organi, la prostituzione minorile e l'adozione illegale arrivano dai paesi più sviluppati e industrializzati del mondo, Italia compresa, approfittando della povertà della gente nei paesi poveri e in via di sviluppo. È matematico: se non ci fosse richiesta, si annullerebbe l’orribile tratta degli esseri umani. Ecco perché bisogna raccontarle senza tabù, esattamente come sono in realtà: la vergogna dell'umanità.
Il silenzio molte volte uccide.
Ismete Selmanaj Leba
01/04/2016
Ismete Selmanaj Leba |
Ismete Selmanaj è nata a Durazzo, in Albania. Nel 1991 si laurea all'Università di Tirana presso la Facoltà di Ingegneria Edile, ma la passione per la letteratura, che l’ha accompagnata sin da quando era bambina e che le ha fatto vincere medaglie e numerosi premi, non l’ha mai abbandonata. Vive sulla sua pelle la crisi politica albanese: nel 1992, infatti, decide di trasferirsi in Italia, risiedendo da allora in provincia di Messina.
Con Bonfirraro lo scorso anno ha pubblicato il libro di successo Verginità Rapite che segna il suo esordio in lingua italiana, adottato dalla cattedra di “Cultura e Letteratura Albanese” presso l’Università di Palermo. I bambini non hanno mai colpe è il suo secondo romanzo, in cui la fa da padrona l’attualità e la sua piaga più mostruosa, la pedofilia, a cui viene intersecato il Kanun, il codice di comportamento albanese di tradizione medievale che grida perennemente alla vendetta.
Il prossimo 27 gennaio esce per i Ricci delle Edizioni Gruppo Abele il nuovo libro di Daniele Poto "Italia diseguale. Poveri e ricchi nel Belpaese"
«L’Italia e un paese ricco abitato da poveri o un paese povero abitato da ricchi?».
La domanda, volutamente provocatoria, percorre il libro di Daniele Poto.
Il 28,4 per cento degli italiani e a rischio povertà e la Sicilia ha la quota più alta in Europa con un ragguardevole 55,3 per cento. I ricchi tengono le posizioni. La classe media s’inabissa, i poveri tradizionali si avvicinano a uno status infimo di pura sopravvivenza. Ma nonostante questi dati preoccupanti (e i molti altri che il libro riporta, nello stile giornalistico che contraddistingue la scrittura dell’autore) i governi sembrano continuare a posticipare la necessità di mettere al primo posto nell’agenda politica la lotta alla povertà.
L’autore, in queste pagine, riporta con lo stile snello e accessibile che contraddistingue la sua scrittura giornalistica, numerosi dati e esempi, mettendo in mostra mancanze e contraddizioni di questo nostro Paese, in cui i pochi ricchi si contrappongono sempre di più ad un numero crescente di poveri, il familismo impera, la corruzione e il potere delle attività criminali sembra non diminuire, la filantropia diventa metodo di arricchimento, in un excursus in grado di fornire una visione generale dell’attuale crisi in atto.
Al più famoso PIL si accosta il FIL (indice di felicità). Nella particolare classifica stilata del World Happiness Report l’Italia è al cinquantesimo posto; dopo di noi, in Europa, solo la Grecia, sconvolta da una crisi economica di dimensioni ben maggiori. Che ne è stato, quindi, del Belpaese?
Sei milioni di poveri: questo è il combinato disposto dei cancri che abitano il Belpaese. Corruzione, evasione fiscale, mafie declinate al plurale. Una tassa fissa di 550 miliardi di euro che impedisce un qualunque avanzamento nelle gerarchie di crescita dell’Unione Europea. Eppure le priorità dei Governi che si sono succeduti al potere nella seconda Repubblica inclinano ad altre distraenti priorità. Daniele Poto ne “l’Italia diseguale” risale alle cause endemiche della povertà, indicando con precisione i fattori di depauperamento della nazione, comprendendo nell’analisi il tiro al bersaglio, soprattutto fiscale, su alcune categorie facilmente colpibili come i pensionati e i lavoratori dipendenti. Il miraggio del rilancio grazie a Expo 2015 o alle velleitaria candidatura per l’Olimpiade del 2024 la dice lunga sulla volontà di sopravvivenza della casta politica che con questi target evoca obiettivi e conquiste che non mutano le difficili condizioni di vita di una larga parte di italiani. Un connazionale su sei oggi rinuncia a curarsi per l’impossibilità di provvedere al pagamento delle spese sanitarie. E nelle graduatorie di corruzione in Europa solo la Bulgaria ci batte. La resistenza all’introduzione del reddito di cittadinanza, la china obbedienza ai diktat europei descrive un paese immobile, sigillato da un apparato burocratico che lascia poche speranze.
L’analisi muove dalla povertà che attanaglia l’intero pianeta ma subito si addentra, come un racconto di avventura, nei meandri delle ragioni politiche e strutturali della crisi dell’Italia: un paese di vecchi e nuovi poveri, sei milioni in totale, con il rigonfiamento di una classe media che si inabissa portando involontariamente a fondo l’economia e che lo Stato colpevolmente non sostiene.
Per arrivare alla meta finale il testo affronta la povertà da molteplici punti di vista, che diventano altrettanti capitoli: la politica drogata dei derivati, l’accanimento sulle pensioni, la politica fiscale, lo “sfogo” della beneficenza, il mancato reddito di dignità o di cittadinanza, l’incidenza della criminalità e della corruzione a livello endemico, il familismo imperante, lo scenario internazionale, l’etero-direzione del Brussels Group e molto altro ancora.
L'autore
Daniele Poto, giornalista, scrittore e ricercatore, si occupa di legalità, socialità, sport e gioco d'azzardo. Ha all'attivo diciotto libri che oscillano tra letteratura e saggistica, tra cui Le mafie nel pallone (Edizioni Gruppo Abele, 2010). Impegnato in Libera (Associazioni, nomi e numeri contro le mafie), gira l'Italia cercando, con alterni risultati, di spargere semi di sensibilità civile e culturale.
Per saperene di più:
www.edizionigruppoabele.it
www.facebook.com/EdizioniGruppoAbele
@AbeleEd
Rinascimento: sono gli anni di Leonardo, Botticelli, Michelangelo, gli anni della cultura umanistica. Ma sono anche gli anni nei quali si consuma la strage delle donne, bollate come “streghe”, anni nei quali inizia la dissociazione tra corpo e psiche, tra materia e spirito che dominerà fino ai nostri giorni.
1400 e 1500: è del 1426 il rogo di Matteuccia da Todi, è del 1589 il rogo di Crezia Mariani, e non sarà l'ultima ad essere torturata e bruciata.
Tra le donne accusate c'erano molte curatrici di campagna, unici punti di riferimento medico per molte persone. Perché la Chiesa e lo Stato si sono accaniti così tanto contro di loro? Il libro “Donne senza Rinascimento” è l'unico che indaga questa questione.
Nel medioevo l'attività curativa delle donne si affianca a quella di altri operatori, ed è ancora valutata positivamente, ne sono una testimonianza gli scritti della scuola medica salernitana, tra i quali vengono riportate ricette e preparati proprie della tradizione delle mulieres.
Nel rinascimento senza donne la malattia e il corpo entrano nelle Università, subentra una visione duale: si separa il corpo dalla totalità dell'essere umano, disanimandolo, per farne oggetto di osservazione, insieme alla malattia, anch'essa oggettivata, resa atemporale, da affrontare uniformemente.
La salute è sempre stato un terreno ambito dai poteri forti: la restrizione delle molteplici figure di guaritori e guaritrici (empirici, farmacisti, speziali, litotomi, levatrici, aggiustaossa, rinoplastici, herbari...) è cominciata con le “patenti” , una sorta di licenza con la quale si poteva continuare a lavorare.
Con l'avvento delle università si delinea la figura del medico addottorato (che sa il latino) che si distingue dal pratico empirico.
Nel 1511 lo stato di Milano stabilisce che chiunque voglia medicare debba essere approvato dal Collegio dei Fisici. Ad essere colpite sono le basi dell'autonomia e dell'uguaglianza sociale.
La medicina ufficiale è galenica, si basa sulla teoria degli umori e trova come strumenti di azione soprattutto salassi e purghe, pratiche contro le quali le herbarie e le medichesse si scagliavano, perché il sangue è vita e non va disperso, preferendo rimedi dolci, come i massaggi, le tisane, gli impacchi, senza far mancare l'ascolto attivo.
Le scoperte fisiologiche e i principi dell'umoralismo del tempo reintroducono e riconfermano il topos dell'inferiorità femminile: il corpo femminile è più cagionevole perché formato da elementi meno dinamici e privi di calore che implicano il prevalere, a differenza dell'elemento aereiforme e ligneo dell'uomo, di quello terracque che significa staticità, passività, freddezza, e soprattutto incapacità di procedere oltre l'intuizione.
La donna risulta “interessante” solo come strumento di riproduzione. Il corpo femminile si fa oggetto di conquista, e il primo passo è quello di “eliminare” le sapienti levatrici (pensiamo al Lucia Bertozzi, definita dagli stessi inquisitori “strega eccellentissima”). La ginecologia entra a far parte del settore specialistico controllato dagli uomini, la mollities fisica femminile va sostenuta perché impossibilitata a gestire il proprio corpo.
Nel frattempo la magia si va accostando al demoniaco, portando con sé tutte quelle pratiche di cura che non rientrano nei dettami istituzionali.
I roghi fanno comodo ai physici perché tolgono di mezzo avversarie spesso particolarmente efficienti, come accade nel caso di Crezia Mariani di Lucca, donna che curava con erbe, massaggi, unzioni, ma anche con parole e segni, caso storico che il libro indaga in dettaglio.
Una donna come Crezia, del sottoproletariato contadino, viene facilmente relegata tra gli scarti della storia (..) ma essa può anche servire quale testimonianza ed esemplificazione di una medicina empirica popolare un tempo a protagonismo femminile che ormai si è deteriorata e appare scomoda, anche perché presupponeva l'impossibile: che nel gruppo di riferimento e nel corpo sociale le donne mantenessero spazi in cui veder riconosciuto e rispettato un loro modo autonomo di operare, di fare.
Chiaramonte Enrica, Frezza Giovanna,Tozzi Silvia
Donne senza rinascimento
Eleuthera edizioni, 1991
Negli ultimi anni Roberto Fantini, da sempre attivo in Amnesty International, insegnante di filosofia e pittore sottilmente visionario, ha iniziato a pubblicare alcuni libri di piccole dimensioni, molto curati, densi ma leggibilissimi. Ricordo La morte spiegata ai miei figli, Dogliani 2010 e Vivi o morti? Efesto 2015, testi molto diversi tra di loro nonostante il tema comune – il secondo è sui trapianti d’organo, tema che nasconde alcuni aspetti oscuri, di cui mai si parla.
Questa volta Fantini ci invita a leggere uno dei pensatori italiani più rivoluzionari del Novecento, Aldo Capitini, conosciuto da pochissimi, al punto che è difficile reperirne i testi. Capitini (1899-1968) ebbe grande influenza sulla generazione degli intellettuali che hanno vissuto sotto il fascismo, ma avendo mantenuto una grande coerenza di comportamento e per il suo altissimo concetto della politica, rimase fuori da qualsiasi partito. Qualche anno fa fu ricordato nella trasmissione di RAI3 Uomini e profeti, dopo la sua morte sono usciti alcuni testi a lui dedicati, che Fantini cita e ai quali attinge, ma rimane un autore da scoprire.
Il contributo di Fantini, come egli stesso spiega nella prefazione, vuole essere appunto quello di avvicinarci a un pensiero vivificato da una vita gandhianamente costruttiva, cioè orientata a valori che ci si sforza di mettere in pratica. Quando Fantini scrive, nella stessa prefazione, dell’aiuto che ci può venire quando ci abbeveriamo alla sorgente capitiniana, parla esplicitamente di una schiavitù intellettuale e morale alla quale siamo vincolati. Con eleganza Fantini evita di fare riferimenti più precisi e conviene seguirlo, anche se si affollano alla mente tanti, ma veramente tanti, riveriti “maîtres à penser” il cui pensiero non ci aiuta per nulla ad affrontare costruttivamente le grandi sfide con cui ci dobbiamo confrontare. Quello di cui abbiamo bisogno non è l’ennesima analisi di ciò che non va e delle presunte ragioni per cui il mondo funziona così male, ma di una visione che ci sollevi e ci indichi una direzione diversa, da percorrere umilmente ma con tenacia e senso di affratellamento. L’idea del nemico ha già fatto abbastanza danni, è una costruzione mentale di chi non vuole vedere la fondamentale unità, se non del Tutto, quanto meno di tutti gli abitanti di questo pianeta, animali inclusi, e piante e perché no, minerali.
Fantini suddivide il libro in capitoli in parte biografici, in parte tematici. L’antifascismo, la religiosità autentica, singolare, profonda, perché aconfessionale, e infine un capitolo sul vegetarianismo di Capitini, espressione di rispetto e intuizione del fatto che una nonviolenza che comincia dai non umani è più vera. Molto utili sono le pagine in cui sinteticamente l’autore ricorda le moltissime fonti occidentali e alcune anche orientali della religiosità di Capitini.
In un testo tutto sommato davvero di dimensioni contenute, Fantini arriva così allo scopo che si era prefisso: invogliarci a leggere Capitini, a cercare e a reclamare i suoi libri quasi irreperibili, a far uscire la sua luce da sotto il moggio, a respirare le sue parole per assorbirle e trasformarci in persone attivamente efficaci nella ricerca di una migliore convivenza con tutti e fra di tutti.
Roberto Fantini. Aldo Capitini. La bellezza della luce.
Roma, Efesto 2015, pp. 104, € 12,90.
Quando pensiamo ad una iniziazione ci viene in mente il passaggio dall'adolescenza all'età adulta o l'ingresso in una setta o in un culto misterico. Il percorso iniziatico nel nostro immaginario è connesso all'ingresso di un io (individuo) all'interno di in un noi (collettività).
I confini del mondo sfata questi presupposti parlando di un modo strettamente personale di superare se stessi e di diventare nuovi.
L'iniziazione passa attraverso differenti fasi: allontanamento dal consueto, impreparazione, paura, mascheramento, potenziamento dell'attenzione, morte rituale, rinascita.
Il merito di Sibaldi, come esegeta, è quello di invitare a ri-scoprire l'insegnamento di alcune parti della bibbia e dei vangeli attraverso l'etimologia ebraica, capace di dischiudere riflessioni fuori dal comune e profondamente attuali.
Un libro sull'iniziazione non poteva, quindi, non partire dalla Genesi, da Adamo, o meglio dall'adam, termine ebraico che indica l'umanità, ma anche, sciogliendo i significati delle singole lettere ebraiche: la potenzialità, le braccia del delta di un fiume e lo spazio circoscritto. Adam è la circolazione psichica delimitata, un limite che la psiche stessa non può vedere perché se ne potrà accorgere solo quando il confine sarà superato. L'iniziazione prevede che l'involucro venga infranto, che l'adam incontri l'adamah, l'invisibile.
Dio differenzia due facoltà dell'adam: ys cioè l'apparato razionale e l'isah, la donna, la moglie, che nelle lettere ebraiche assume il significato di capacità di conoscere l'invisibile. È l'isah a guidare l'ys fino all'albero della conoscenza.
In realtà e' all'adam che YHWH vieta la conoscenza non all'ys. Dio rimprovera l'adam, per la disobbedienza, e non l'ys.
Il messaggio iniziatico si ritrova anche nelle fiabe classiche.
L'autore ci accompagna nella ri-scoperta di Aladino, dove l'isah è rappresentata dal Genio, e l'allontanamento dal consueto passa attraverso l'atto dell'accorgersi. È l'accorgersi che interrompe il dialogo interiore e tutta la realtà che esso permetteva di vedere, e che diventa poca.
Cappuccetto rosso indossa l'adam in testa, nel cappuccio, e lo abbandona lasciando la casa della madre, ma anche passando attraverso la maschera della nonna-lupo e la morte rituale all'interno del felino.
L'iniziato saprà allora che la nonna non è e non è mai stata soltanto la nonna, bensì una sacerdotessa che ha voluto presentarsi come nonna prima e come Lupo poi; e scoprirà ben presto che il Cacciatore è quel che lui stesso ha imparato a diventare, nel buio del ventre del Lupo.
L'iniziazione di Cenerentola presuppone l'abbandono del focolare e del grembiule.
Cenerentola, cenere, il rischio del rogo. È una che conosce i segreti: è una strega.
La nostra capacità di conoscere le cose invisibili poggia un piede nel mondo noto, l'altro piede è scalzo, perché cammina in un'altra dimensione.
La bara di Biancaneve è anche la bolla/specchio dalla quale aveva guardato il mondo finora; la sua iniziazione è favorita dai sacerdoti-nani.
Pinocchio è una favola cabalistica iniziatica piena di simboli e “botole” semantiche da aprire, a partire dal suo principio ”C'era una volta un pezzo di legno” (tz ebraico è il legno ma anche l'albero-crescita).
Amleto, il Conte di Montecristo, Jekyll e Hyde sono le altre storie che l'autore indaga e svela da un punto di vista iniziatico, tornando poi indietro nel tempo al mito egizio di Thot-Hermes.
Un libro che si pone come coraggioso esempio di revisione e riscoperta di nuovi inaspettati significati all'interno del conosciuto, per aprire la strada all'altro, all'oltre, all'inaspettato.
IGOR SIBALDI
I CONFINI DEL MONDO:STORIE E DINAMICHE DELL'INIZIAZIONE PERSONALE
ARTE DI ESSERE 2015
La nostra biografia, cioè le esperienze che plasmano la vita, diventa la nostra biologia.
Le relazioni, gli eventi traumatici, gli atteggiamenti, le fedi e le superstizioni vengono codificate e immagazzinate dal sistema cellulare. I pensieri entrano nel corpo sotto forma di energia. C'è equivalenza tra energia e potere: il potere fa da mediatore tra il nostro mondo interiore e quello esteriore, comunicando attraverso il linguaggio del mito e dei simboli.
Denaro, sicurezza, bellezza, autorità, lavoro: ognuno si costruisce simboli di potere, ai quali è associata una controparte biologica; è necessario identificare quali sono i nostri simboli di potere e il linguaggio metaforico che utilizziamo per descrivere il loro effetto su di noi. L'ascolto del corpo e dei suoi messaggi è già una strumento per comprendere a fondo le questioni mentali ed emotive sulle quali dobbiamo lavorare.
La cura è passiva, mentre la guarigione è un processo attivo. La guarigione non può prescindere dal recupero del potere personale e da un re-indirizzamento di tale potere. Questo potere è dato dalla nostra capacità di scegliere in ogni momento quali sono le direzioni da prendere.
Ogni essere vivente vibra di energia carica di informazioni; queste informazioni possono essere percepite dall'intuizione ed espresse in modo simbolico.
Dalla tradizione orientale proviene il sistema dei 7 chakra o centri energetici: a questi l'autrice collega i 7 sacramenti cristiani visti nel loro ambito simbolico: battesimo, comunione, cresima, matrimonio, confessione, ordine ed estrema unzione. Caroline Myss dipana questi 7 centri di potere all'interno delle 10 sephirot dell'albero cabalistico. Le dieci sephirot sono le qualità del divino che costituiscono anche l'archetipo dell'essere umano. Chakra, sacramenti, cabala: 3 sistemi di pensieri si incontrano per fornirci strumenti di guarigione spirituale
Fondere le tradizioni induista, buddhista, cristiana ed ebraica in un complesso ordinato e dotato di verità sacre comuni significa creare un potente sistema di orientamento capace di elevare la nostra mente e il nostro corpo, e di mostrarci come gestire lo spirito del mondo.
Il primo livello riflette il nostro attaccamento alla tribù, intesa come famiglia o gruppo originario, il secondo livello amplia la sfera energetica alle relazioni personali e alla comunità, il terzo livello ci indica il livello di autostima e di rispetto di sé, il quarto livello esce dalla sfera concreta per iniziare un percorso nel divino.
Ricerca dell'approvazione, rabbia, incapacità di perdonare, persone che sentono il bisogno di controllare, sentirsi legato a qualcuno o qualcosa ci rendono acquisitori di potere dall'esterno togliendo energia dal campo magnetico corporeo per indirizzarla all'esterno.
Il libro offre domande per comprendere gli schemi di pensiero associati ai 7 livelli e delle meditazioni quotidiane per auto-valutare la propria condizione energetica.
La cosa importante non è tanto il tipo di cambiamento quanto la decisione di modificare quegli aspetti della nostra vita che ci impediscono di guarire.
Caroline Myss
Anatomia dello spirito: I sette livelli del potere personale
Anima edizioni 2011
Asclepio è il dio, o meglio il semidio della medicina. Secondo Pindaro è figlio di Apollo e Coronide e fu istruito all'arte della cura dal centauro Chirone, a sua volta figlio di Zeus e della ninfa Filira, poi tramutata in tiglio. La medicina nasce incorporata alla sfera religiosa per distaccarsene con Ippocrate. Nel nome Ascelpio è contenuta la parola epios che significa “dolcemente”, poiché dolce era la sua cura.
Salute e malattia erano emanazione diretta delle divinità, che, inviandole, premiavano o sanzionavano i comportamenti degli uomini.
La medicina antica integrava in sé l'aspetto rituale, caratterizzato da gesti, preghiere, incantesimi. Una medicina legata ad Apollo ma anche ad Atena e alla gorgone Medusa. Fu la dea a trasferire in Asclepio le vene di Medusa, quella adibita a guarire e quella adibita alla morte; la superbia del dio fu quella di utilizzare la vena che guarisce anche per resuscitare i morti, riuscendo a superare persino il padre Apollo.
In suo onore furono costruiti templi, detti Asklepieia, nei quali i sacerdoti apportavano la guarigione praticando la chirurgia e la fitoterapia; nella parte del tempio detta abaton i visitatori dormivano a terra nella speranza che il dio stesso comparisse loro, in sogno, a consigliare il rimedio. Nel tempio circolavano liberamente cani, serpenti e oche, animali a lui cari.
Chi beneficiava della cura lasciava scritto nel tempio quali rimedi erano stati seguiti e quale parte del corpo era stata coinvolta.
Sia Plino il Vecchio che Strabone riportano la notizia secondo la quale Ippocrate avrebbe ricopiato i documenti che i visitatori lasciavano negli Asklepieia, documenti che riportavano il rimedio suggerito loro dal dio, per poi dar fuoco al tempio, in modo da istituire una forma di medicina detta clinica.
Secondo Celso fu Ippocrate a staccare la filosofia dalla medicina che venne divisa, così, in differenti branche: diaiteike (cura attarveros il cibo), pharmaka (cura attraverso le erbe) e chirurgia.
Il saggio di Squillace passa in rassegna anche i botanici antichi e i medici di corte, per poi approfondire i medicamenti.
Olio, vino, aceto e miele erano utilizzati sia per le estrazioni dei principi attivi delle piante, sia come rimedi di per sé. La farmacopea era composta da vari tipi di rimedi,: frizioni, colliri, decotti, cataplasmi, fomenti, malagmi, impiastri, unguenti, pessari...
La parte finale del libro indaga le piante utilizzate, e un capitolo a parte riguarda la cosmetica, dal verbo kosmeo che indica il “mettere in ordine”, portare il cosmo nell'aspetto esteriore.
Le numerose immagini tratte dell'arte antica, fanno de I balsami di Afrodite un'opera preziosa.
Giuseppe Squillace
I balsami di Afrodite: Medici malattie e farmaci nel mondo antico
Aboca 2015
Per (ri)leggere un pensatore che ha immaginato, diffuso e messo in pratica un nuovo modo di intendere l'individuo e la società
Sintetico ed efficace, il nuovo libro di Roberto Fantini invita a scoprire o a riscoprire (per i pochi che lo conoscono già) il filosofo italiano Aldo Capitini (1899-1968), che alla brutalità irrazionale del fascismo oppose la ragionevolezza della nonviolenza. Il rifiuto della retorica e dell'etica fasciste, infatti, era per lui parte integrante del distacco sempre più profondo “da una civiltà che valuta positivamente soltanto chi fa, chi rende, chi è forte, chi è attivo”. Un discorso che, a settant'anni dalla “liberazione”, calza a pennello anche alle nostre cosiddette democrazie, il cui unico imperativo indiscutibile (malgrado i princìpi sanciti dalle varie costituzioni, in primo luogo da quella italiana) è tenere in piedi il sistema economico capitalista, nonostante le sue crisi cicliche si siano finora sempre concluse con guerre e campagne di conquista tra il tragico e il grottesco. Per questo, fondando il Movimento liberalsocialista, Capitini intendeva “portare l'anima alla libertà e alla socialità della civiltà futura”, una civiltà senza sopraffazione e, più in generale, senza divisioni di partito, religione, etnia e persino senza distinzioni tra regni della natura. Una civiltà che, secondo lui, avrebbe dovuto progressivamente allargare i propri orizzonti, fino a comprendere il mondo animale (e – perché no? - vegetale) nella sfera di applicazione dell'imperativo categorico kantiano, che esorta a considerare l'umanità sempre come fine e mai semplicemente come mezzo. Tuttavia, la sua scelta di non aderire al Partito d'azione (nel quale era confluito il Movimento liberalsocialista) né ad alcuna formazione politica lo ha condannato a un progressivo isolamento, che ha impedito alla sua coerente e radicale opposizione al fascismo di avere la giusta risonanza.
Capitini scelse infatti di rifuggire dalle forme armate dell'antifascismo (nonostante il suo profondo rispetto della resistenza partigiana), identificando invece quest'ultimo con la spinta all'elaborazione non solo di una nuova società, ma soprattutto di un nuovo modello educativo, che tenesse conto del “lume acceso” di ogni individuo, delle sue peculiarità e del suo inalienabile diritto all'esistenza libera. Poiché dunque non esiste libertà senza responsabilità e partecipazione, nel 1944 Capitini iniziò a fondare i Centri di Orientamento Sociale (COS), “assemblee disseminate dappertutto... a equilibrare il fatto del potere dell'iniziativa autoritaria”. Queste strutture, erano concepite come strumento di denuncia delle diverse forme di ingiustizia e conformismo, ma anche come spazi di profonda “tramutazione” dell'individuo e, di conseguenza, della società. Come Rousseau, Capitini auspicava dunque la fondazione di una comunità aperta e in grado di formare i cittadini al confronto e alle responsabilità democratiche.
Ispirato al pensiero indiano, in particolare a Gandhi, il suo progetto di ri-fondazione pedagogica e sociale includeva la scelta della dieta vegetariana come radicale rifiuto della violenza e dell'ingiustizia tra simili. Occorre osservare che alla base della nonviolenza radicale di Capitini non c'è un semplice rispetto per forme di vita diverse dall'uomo, ma un profondo senso di unità di tutto l'essere, che lo condusse ad ampliare progressivamente il concetto di “prossimo” estendendolo al mondo animale e, successivamente, a tutti i viventi: “una compresenza di esseri aperti l'uno all'altro, tutti amati e liberi”. Quindi, il rifiuto di cibarsi di animali morti è parte integrante dello stesso progetto pedagogico che induce ad opporsi a ogni forma di violenza (fascismi e dogmatismi compresi), poiché da un lato esso spinge a “sottrarsi al gioco dell'abitudine, del tradizionalismo inerte, del conformismo”, dall'altro “uccidendo meno animali, diminuendo la faciloneria a riguardo di essi, si sarebbe acquistata una convinzione più profonda dell'importanza dell'esistenza degli esseri umani”. Una posizione analoga (ma portata alle sue estreme conseguenze) a quella espressa da Plutarco nel dialogo Sull'intelligenza degli animali, in cui la caccia e la macellazione vengono considerati fonte di crudeltà, che rendono l'uomo più feroce degli altri carnivori, per i quali (a differenza di quanto avviene per gli uomini) le prede sono un cibo necessario.
Il senso del progetto di riforma dell'uomo e della società elaborato da Capitini, inteso come un cammino di autocoscienza che si configura al contempo come coscienza dell'altro, quindi compresenza, non poteva non includere un'aspra polemica nei confronti del dogmatismo della Chiesa cattolica, colpevole, inoltre, di aver collaborato con la dittatura fascista. Di qui l'elaborazione di una religione “aperta”, che prevede la salvezza di tutti e nessuna dannazione: “non possiamo vivere con il privilegio che ci salveremo noi se crederemo ai dogmi e se seguiremo i sacramenti, mentre gli altri andranno all'inferno”. Pertanto, secondo Capitini, religione è, ad esempio, “assistere un moribondo, e sentire che quella persona non va nel nulla, ma, lasciato il suo corpo, si unisce all'intima presenza con tutti”. Ai sacramenti (ritualità formale), opponeva in tal modo una religiosità fatta di gesti e scelte quotidiane in direzione dell'apertura nei confronti dell'altro e dell'amore e dell'affratellamento universali. Una religiosità libera e liberante, che reca in sé concetti desunti dalla filosofia antica e moderna, dal pensiero cristiano e dalle tradizioni culturali orientali. La dottrina cattolica, invece, ha sempre adottato la categoria della “divisione” per mantenere il proprio potere assoluto, come fosse un impero. Tale conservatorismo sociale, peraltro, si fonda da sempre su affermazioni e princìpi inaccettabili sia a livello storico che a livello razionale: la nascita miracolosa di Gesù, il peccato originale, la differenza tra battezzati e non battezzati. La religione aperta proposta da Capitini prevede invece azioni concrete per la liberazione e la salvezza di tutti, tanto nel mondo terreno quanto dopo la morte, poiché, secondo lui, “ogni lotta per la libertà è lotta religiosa”. In tale immaginario, Dio non è considerato come creatore, ma come “totalità delle persone, dei soggetti, dei “tu”, dunque Dio amore”. Solo attraverso l'amore infatti tutti possono partecipare alla continua creazione collettiva dei valori, un'opera destinata a non finire mai. Ecco il senso della religione per Capitini, un'opera di perenne edificazione collettiva delle coscienze. Un pensiero che trova la sua massima espressione nel concetto di compresenza: “la compresenza unisce i vivi e i morti; la compresenza è di tutti, in essa ognuno ha la sua parte... è lo sviluppo del meglio... è eterna perché crescente... la felicità è dell'individuo, la beatitudine della compresenza”. Qui è la convergenza tra educazione religiosa ed educazione democratica, entrambe proiettate verso il loro fine ultimo, ovvero l'omnicrazia: “espressione di un'elevazione della coscienza collettiva”, per la quale ciascun individuo ha il suo spazio nella costruzione continua della società.
Aldo Capitini. La bellezza della luce, si configura dunque, al contempo, come spunto di riflessione teoretica ed etica, in virtù del legame indissolubile tra conoscenza e pratica, su cui mai è stato urgente riflettere come in questo periodo di conflitti e assurdi arroccamenti ideologici. Il libro, che si apre con una biografia sintetica di Capitini (necessaria per la comprensione del suo pensiero, essendo quest'ultimo un pensiero vissuto), affronta i tre nuclei fondamentali della sua filosofia, che sono al contempo i tre cardini inscindibilmente connessi della sua proposta di “società liberata”. Il primo è rappresentato da una scelta antifascista rigorosa e radicale in quanto si identifica con il rifiuto della violenza tout court, senza ammettere eccezioni. Il secondo è costituito invece dalla sua “eresia”, ovvero dalle proposte attualissime avanzate in merito alla religione. Per Capitini, infatti, la religione non è nei dogmi e negli articoli di fede, ma in un'azione che allarghi progressivamente l'orizzonte di fratellanza, culminando nella compresenza. Il terzo nucleo, infine, riguarda la scelta vegetariana, come espressione necessaria del senso di unità ed empatia con tutto l'universo vivente, inclusi, dunque, gli animali. Un cammino progressivo di riduzione del molteplice all'uno, prevedendo la possibilità che l'ottica di inclusione arrivi a comprendere anche il mondo vegetale.
Dal momento che tutte le divisioni che hanno lacerato l'umanità nella sua storia sembrano condurla sull'orlo dell'abisso della guerra permanente, il pensiero capitiniano potrebbe rappresentare una preziosa opportunità per ripensare con maggiore consapevolezza critica le relazioni dell'individuo con gli altri e con l'ambiente in cui vive.
Aldo Capitini. La bellezza della luce. Invito a (ri)scoprire il pensiero di un profeta della nonviolenza, antifascista, eretico, vegetariano
Libreria Efesto, Roma 2015
http://www.libreriaefesto.com/
Dicembre ( e giugno) sono mesi solstiziali.
I solstizi sono le due porte dell'anno: “la porta degli Dei” è il solstizio d'inverno, la “porta degli uomini” è quello estivo. Il dio delle porte nella religione romana era Giano, da Iunua (porta) sembra derivare non solo Giano, ma anche Giovanni: due sono infatti i “Giovanni” celebrati nella tradizione cristiana: Giovanni Battista (Il 24 Giugno) e Giovanni Evangelista (IL 27 Dicembre).
A dicembre si festeggia la nascita della luce, secondo tradizioni che spaziano nel tempo, ma anche nello spazio.
Il libro di Nino Modugno ci accompagna nella scoperta dei riti collettivi che ancora oggi sono celebrati in Italia e nel mondo.
Ecco qualche accenno ai riti praticati nei primi giorni del mese:
Il 5 dicembre si festeggia San Nicola, celebre sia per aver salvato dalla prostituzione tre ragazze senza dote, ma anche per aver salvato tre ragazzi da un oste che voleva cucinarli: così a San Nicola sono associati sia riti collegati al matrimonio, come quelli che accadono a Fermo, o a Bari, sia riti legati all'infanzia:in Croazia i bambini appendono alla finestra calze che il giorno dopo San Nicola riempirà di dolci, mentre i bambini di Sutrio o di Lublino (Polonia) lasciano le scarpe fuori dalla porta con la stessa intenzione.
Spostandoci verso Nord, Nicolaus diventa Claus (Babbo Natale) e l'asinello diventa renna. Ma in alcuni paesi in provincia di Belluno, Treviso, Gorizia si porgono ancora attenzioni all'asinello che trasportava San Nicola e all'animale si lasciano pane, o farina, o fieno, sale o carota. Per il santo, invece si lascia un bicchiere di vino o grappa, un panino, una frittella, o una fetta di formaggio.
Il 7 dicembre nelle Canarie e in America Latina, il diavolo è libero di circolare in modo che possa essere calpestato dalla Madonna il giorno successivo. Il giorno di Maria, nell'Italia centrale, ci si veste con un abito nuovo “ chi si cambia di Maria scampa la malattia”.
il 13 dicembre (Santa Lucia) a Sorrento si bacia il suolo, a Palombara Sabina ci si lava gli occhi con acqua benedetta. I riti proseguono scandendo il ritmo del mese di passaggio.
Ritmo è armonia, rito è religione nel senso di re- ligio, ri-legarsi al vivente.
Nino Modugno: Il mondo magico di Dicembre
Fefè editore 2009
Marco Mamone Capria* è autore-editore di un pregevole libro, Scienziati e laici. Per un controllo democratico della scienza, a cui non possiamo che augurare una sorte felice. Si tratta di un libro nato sulla scia delle varie esperienze condotte sia in ambiti accademici, sia in ambiti legati al mondo dell’associazionismo, e nato, soprattutto, dalla voglia di invitare i lettori a riflettere su numerose questioni raramente affrontate a livello mediatico, in modo da favorire lo sviluppo di “anticorpi permanenti contro gli usurati stereotipi” di quello che viene definito “scientismo reazionario” (qualcosa di assai diverso dalla onesta e preziosa “razionalità scientifica”).
Scienziati e laici, composto da tre capitoli che possono essere letti autonomamente uno dall’altro (in pratica, tre veri e propri libri in uno!), sostiene, in maniera puntigliosa, agguerrita e rigorosamente documentata, la necessità irrinunciabile di operare, nei confronti della scienza, da parte dei non-scienziati (i “laici”), un inesausto e caparbio esame critico relativamente ai suoi indirizzi (“su che cosa si debba finanziare la ricerca scientifica”), ai suoi metodi (“particolarmente che tipo di esperimenti la società è disposta a concedere di effettuare agli scienziati”) e ai suoi “prodotti finiti” (ovvero quanto viene presentato/esibito agli occhi del comune cittadino, come risultati conseguiti).
Il primo capitolo affronta la problematica in una prospettiva storico-epistemologica, trattando varie questioni relative al “come rendere gli scienziati più responsabili del loro operato nei riguardi delle società che li ospitano e finanziano.”
Il secondo capitolo è strutturato in forma dialogata e si cimenta su temi di straordinario interesse, sempre con un punto di vista originale, acuto e fuori da schemi prefissati e imposti (omeopatia, vaccinazioni, eugenismo, trapianti di organi, vivisezione, scienza e guerra, ecc.).
Il terzo capitolo, infine, “tratta del ruolo degli scienziati in uno degli episodi più drammatici e simbolici del secolo scorso: la decisione da parte del governo degli Stati Uniti di gettare le bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki”, abnorme crimine contro l’umanità, troppo a lungo vergognosamente giustificato da ignobili architetture di menzogne.
Tutto il lavoro di Mamone Capria è attraversato da una vivida volontà di squarciare i veli dell’ipocrisia e dell’ignoranza, delle falsità stereotipate e delle “vulgate” abilmente progettate e diffuse (potremmo dire inoculate), riuscendo, anche grazie ad una scrittura appassionatamente pungente, a innescare, nonostante la complessità delle tematiche trattate, un indiscutibile coinvolgimento intellettuale e anche emozionale.
Bellissime ed eloquenti, in particolare, le considerazioni che incontriamo a conclusione dell’opera:
La conclusione da trarre è che senza una vigilanza costante da parte dei laici è irragionevole far affidamento sulla speranza che una data comunità scientifica riesca a sviluppare al proprio interno antidoti efficaci contro le peggiori derive antiumanitarie, qualora queste ne favoriscano, come è accaduto e accade in particolari congiunture storiche, una nuova apertura di credito da parte di governi e finanziatori privati.
Alle vittime della follia (ma con metodo) delle classi dirigenti, coscienziosamente assistite da decine di migliaia di scienziati disposti a lavorare allo sviluppo di armi di distruzione di massa, e vincolati da patti di segretezza su tutta una gamma di questioni connesse direttamente o indirettamente a questo tipo di ricerca, dobbiamo soprattutto un tipo di “memoria”: quella che, mettendo in guardia i popoli contro la soggezione alle élite politiche e scientifiche, serva a costruire un futuro in cui non sia più possibile il sacrificio di cittadini alle patologiche ambizioni di pochissimi e alla cecità indotta o volontaria della maggioranza.
*Marco Mamone Capria, ricercatore all’Università di Perugia, è dal 2001 coordinatore del progetto “Scienza e Democrazia/Science and Democracy” e dal 2007 presidente della Fondazione Hans Ruesch per una Medicina Senza Vivisezione. Tra i libri usciti a sua cura: La costruzione dell’immagine scientifica del mondo (1999), Scienza e democrazia (2003), Physics before and after Einstein (2005), Scienze , poteri e democrazia (2006), Science and the Citizen (2013).
Per l'acquisto di
MARCO MAMONE CAPRIA
SCIENZIATI E LAICI
Per un controllo democratico della scienza
si può ricorrere a Lulu.com:
http://www.lulu.com/shop/marco-mamone-capria/scienziati-e-laici/paperback/product-22227632.html
oppure a Amazon:
oppure a Giunti (che utilizza il canale Amazon):
http://www.giuntialpunto.it/product/1326199927/libri-scienziati-e-laici-marco-mamone-capria
L'elenco non è esaustivo: per esempio da qui
il libro può essere inviato, spese postali incluse, per 17,96 euro.
Roberto Fantini