L'informazione non è un optional, ma è una delle condizioni essenziali dell'esistenza dell'umanità. La lotta per la sopravvivenza, biologica e sociale, è una lotta per ottenere informazioni. |
La sapienza iniziatica occidentale ha preso strade insolite: pensiamo ai tarocchi (sviluppatesi come gioco di carte nelle corti rinascimentali) o riflettiamo sul disegno della campana che da bambini disegnavamo per terra, linee così simili all'albero cabalistico delle Sephirot. Per non parlare dell'altalena, gioco che sembra riflettere la festa greca delle Aiorie (dal mito greco di Erigone e Icario).
Molti sono i significati esoterici nascosti all'interno del gioco dell'Oca.
“Il gioco dell'Oca è il gioco del pellegrino che si mette per via sognando il ritorno a casa, dove vivono il Padre e la Madre in beata unità: quella che si irradia nella molteplicità senza perdersi” (cit.). Ma partiamo dall'animale totemico che dà il nome al gioco.
È sul dorso di un'oca che Hansel e Gretel tornano a casa, sono le oche del Campidoglio a dare l'allarme per la sopraggiunta dei Galli invasori. L'oca ha una natura celeste e solare (in contrapposizione al cane, animale psicopompo), è un animale sacro per la tradizione nordica ( i Celti proibivano la caccia di uccelli nobili come l'oca e il cigno). Oca e cigno si equivalgono simbolicamente, per gli Egizi il cigno è “l'oca del Nilo”: 4 oche venivano lanciate ai 4 punti cardinali per salutare l'incoronazione del faraone, l'oca è il simbolo geroglifico dell'imperatore.
A Roma è l'uccello di Giunone (insieme al pavone), la moglie di Brahma,Sarasvati, avanza su questi due stessi uccelli recando fra le mani un fiore di loto.
Si lancia un dado: i giochi di dadi erano permessi solo durante i Saturnali nell'antica Roma, il dado, con i suoi 12 angoli, simboleggia l'ordine materiale del mondo che viene dinamizzato nel lancio nel quale ognuno “gioca i suoi dadi”.
La prima casella parte come Io e torna come Noi: la prima casella, infatti, è direzionata verso la meta finale. Il gioco si snoda su 63 o su 90 caselle, due numeri per nulla casuali: 63 è la moltiplicazione di 7 e 9 , 9 è il numero del compiuto, prodotto della perfezione trinitaria. “7 è il numero di un affinamento interiore sofferto e costante, vivificato dalla presenza di veder esaltata la propria umanità nella rivelazione divina” (cit).
“Sette per nove, carne e spirito, spazio profano e spazio sacro, tempo ed eterno” (cit).
Il viaggio sul dorso di un'oca passa attraverso caselle “feriali” e caselle iniziatiche, come il ponte, simbolo della vertigine del passaggio, del collegamento, e la locanda, simbolo del nutrimento fisico, ma anche luogo di scambio e di incontri, zona di confine nella quale è necessari avere fiducia per mettersi nelle mani di estranei che curino il tuo cibo e il tuo riposo. Il pozzo (casella 31) è una bocca spalancata sul cielo, è intimità, raccoglimento, ritorno al grembo e all'umidità della placenta; collegata al pozzo, ma con nota negativa, è la prigione (casella 52), simbolo della vergogna. La casella 42 è il labirinto, immagine ben espressa dalla mitologia di Minosse e il Minotauro, è labor intus, lavoro interiore; al n. 58, infine, troviamo la morte.
Il libro di Roberta Borsani, arricchito da citazioni letterarie antiche e moderne e da approfondimenti etnoantropologici, è unico nel suo genere, e ben inserito all'interno di una collana “Amore e psiche” dell'editore Moretti e Vitali che offre titoli di grande qualità e intraprendenza.
“Il gioco dell'Oca è una bella e complessa metafora per dire che scegliendo liberamente ciò che ci è stato dato da vivere noi possiamo farne un viaggio, un viaggio verso casa” (cit.)
Roberta Borsani
Sul dorso di un'oca:
il simbolismo inziatico del Grande Gioco
Moretti e Vitali editore
Elio Meloni è educatore, maestro di scuola elementare, formatore e pedagogista. Ha lavorato e lavora per scuole, enti locali, agenzie educative e formative, aziende, università, dedicandosi anche alla scrittura di articoli e saggi. L’editrice Claudiana ha recentemente pubblicato un suo gradevolissimo libretto dedicato al tema della “cortesia”. Più che una apologia di questo valore sempre meno facilmente rintracciabile nel nostro incupito mondo, il suo è una sorta di manuale per chi volesse aprirsi all’esperienza della gentilezza in modo ampio ed efficace, al fine di trarne giovamento interiore e al fine di costruire relazioni umane più ricche e più belle.
La gentilezza, dice Meloni, migliora le relazioni e “come l’olio ne tiene puliti gli ingranaggi”. La gentilezza è simile alle vitamine “piccole sostanze che tengono in salute l’organismo”, anzi, è paragonabile ai fiori che intelligentemente vengono fatti crescere negli orti: non come utile cibo per essere mangiato, ma per donare bellezza all’insieme, per rendere meno gravoso il lavoro quotidiano, per ricordarci che anche nel lavoro più faticoso è possibile incontrare piacevolezza. Ricevendola e comunicandola …
Meloni, quindi, ci propone una sorta di terapia dell’anima. Ispirandosi a varie fonti, da Paolo al buddhismo, da Ignazio di Loyola a Baden Powell, da Thich Nhat Hanh ad Anselm Grun, ci spiega che la gentilezza ci aiuta “ad allargare il cuore” e a rendere “più leggera la perseveranza”, e che ci
“Rende grati per ogni cosa, ed è il risultato della gratitudine. Facilita il gioco e la messa in gioco, ed è il frutto di un gioco ben fatto!”
Il libro di Meloni è un libro saggio e salutare. Ben vengano libri come il suo, capaci di insufflarci dentro sana e serena gioiosità, capaci di ricordarci il valore del distacco e la bellezza di un altruismo non nato “dallo sforzo titanico di essere buoni”, ma “dall’osservazione della comune appartenenza a una storia e a un luogo: la Terra”!
Elio Meloni
Cortesia
Pratiche di gentilezza quotidiana
Claudiana
Torino, ottobre 2016
www.claudiana.it
L’autrice romana Maria Letizia Putti torna ad affascinare i lettori con un nuovo romanzo dal titolo curioso ‘Lo scrittore non ha fame’ edito da Graphofeel, dopo il notevole successo della biografia romanzata de ‘La signora dei baci. Luisa Spagnoli’. Il libro è frutto di un percorso di scrittura in costante evoluzione. Una scrittura in movimento, che lascia intuire la volontà di mettersi in gioco partendo dalla storia di un uomo qualunque, un bibliotecario pendolare con due grandi passioni: la scrittura e la musica. La sua quotidianità divisa tra lavoro, famiglia e amici, prende una direzione insolita, quando l’ispirazione prende il sopravvento e le parole si susseguono tra i fogli, fino a dare forma ad un romanzo. Arriva il confronto con un editore, la pubblicazione e l’inaspettato successo. E si sa che non sempre è facile gestire qualcosa che non si conosce fino in fondo. L’autrice ci porta ad intuire i dubbi, le paure, le gioie e le ambizioni di uno scrittore che scopre il sapore della fama, fino a perdere i riferimenti del proprio equilibrio. Verrà il momento di fare delle scelte. Un viaggio interiore ed esteriore tra le emozioni, che rivela luci ed ombre di una realtà non facile da comprendere. Incontriamo la scrittrice proprio per capire meglio che cosa l’ha portata a pubblicare questo libro.
Dalla biografia romanzata de “La signora dei baci. Luisa Spagnoli” al romanzo “Lo scrittore non ha fame”, cosa è cambiato nella sua scrittura?
“Ho scritto il romanzo dello scrittore prima di quello sulla Spagnoli, ma le scelte editoriali della Graphofeel hanno dato la priorità alla Spagnoli. Nessun cambiamento nello stile di scrittura: “La Signora” è redatto al passato in terza persona, mentre “Lo scrittore” è al presente raccontato da un io narrante, come un diario; nei numerosi dialoghi ho usato, come impone la verosimiglianza, un linguaggio familiare, in qualche caso anche gergale, fiorentino, romanesco, italo-americano.
L’allungarsi dei tempi per la pubblicazione dello “Scrittore” mi ha dato modo di rileggere e di apportare qualche ripensamento. Un testo non è mai “congelato”, ogni volta che rileggo quanto ho scritto sono portata a limare, rivedere, modificare…Mai contenta della mia scrittura devo forzarmi a mettere un punto fermo e scrivere FINE, altrimenti proseguirei all’infinito…”
Il titolo del nuovo libro è piuttosto curioso, perché lo scrittore non ha fame? Cosa significa?
“Suscitare curiosità su un romanzo che parla di uno scrittore era l’intento che ha portato a creare un titolo dall’apparenza bislacca, pronto per essere interpretato secondo diverse chiavi di lettura: lo scrittore non ha fame perché quando è concentrato nello scrivere perde la nozione del tempo e dimentica di mangiare. Ma può essere solo un gioco di parole tra fame, una condizione comune a tutti i mortali, e Fama, la gloria a cui aspira chi scrive. In realtà nel testo troviamo il protagonista amante delle tavolate e della buona cucina, anzi, negli episodi di maggior tensione emotiva, Andrea sottolinea a gran voce la necessità di soddisfare i brontolii dello stomaco”.
Il protagonista è un bibliotecario pendolare. Un uomo che si divide tra lavoro, famiglia e due passioni: la scrittura e la musica. Che cosa l’ha portata a definire la personalità di Andrea?
Le rocce |
“Mi piaceva l’idea di cimentarmi con una favola moderna: nella vita quotidiana ci si scontra con mille difficoltà, nel romanzo un individuo normale riesce con le sue sole forze e con doti innate di scrittore ad emergere. Mi è piaciuto per una volta capovolgere gli schemi tradizionali: se non si conosce qualcuno non si può tentare la scalata al successo, ormai è un assioma ben chiaro della quotidianità contemporanea. Quindi questa storia è quasi una rivincita delle capacità personali sulle consuetudini attuali: una serie fortunata di circostanze e talento da vendere fanno aumentare la notorietà del protagonista fino a obbligarlo, con sofferenza, a scegliere tra la musica e la scrittura, a scapito della prima”.
C’è un elemento fondamentale nella scrittura di Andrea: l’osservazione. Anche per lei è essenziale scrutare il mondo, la gente, gli elementi per poi dare forma alla sua creatività?
“Per quale scrittore non è fondamentale il proprio vissuto e il mondo che lo circonda? C’è sempre qualcosa di personale in quello che si scrive, anche impercettibile, anche infinitesimale ma c’è. Diffidate di chi sostiene che i propri scritti sono pura e totale invenzione!”.
Se dovesse scegliere uno scrittore del passato a chi assomiglierebbe Andrea?
“Penso a nessuno, perché Andrea è una mia invenzione, non una persona reale. Non so cosa abbia scritto, quale sia il suo stile, non ho letto nulla di suo, l’ho solo immaginato e descritto, fino a raccontarne i successi ma null’altro. L’ho creato geniale, di talento, gli ho fatto scrivere parecchi lavori, di cui conosco le trame, ma non lo stile o la profondità dei contenuti; è qui che entra in gioco la valenza surreale dell’aver fatto di uno scrittore il protagonista di un romanzo!”.
Scrivere comporta un confronto con i lettori e con la critica. Se va bene si arriva ad assaporare il successo. Lei che rapporto ha con i suoi lettori?
“Sono ancora troppo “giovane” come scrittrice (non in senso anagrafico, ovvio!) per avere il termometro di quali siano i miei lettori e per poterne descrivere il rapporto. Per quel poco che intuisco, mi sembra che ci siano apprezzamenti, ma non mi piace parlare di me stessa, mi sembra di autoincensarmi e non è nelle mie corde. Lasciamo fare al tempo…”.
Che cosa si aspetta da questo romanzo?
“Che i miei venticinque lettori, reminiscenza manzoniana, apprezzino il frutto del mio ingegno”.
Maria Letizia Putti è romana, “emigrata” nella Tuscia meridionale. Laureata in Archeologia e topografia medioevale, ha insegnato storia dell’arte e collaborato con la Rai come scrittrice di testi radiofonici. Da anni si occupa di conservazione del materiale librario antico e moderno presso una biblioteca scientifica statale. Autrice di articoli tecnici e appassionata cultrice di musica, ha esordito nella narrativa con Il passato remoto (2014, riedito nel 2016 come e-book). Per la Graphofeel ha scritto la biografia romanzata La signora dei Baci. Luisa Spagnoli (2016).
L'autrice di “Prima di Eva” torna in libreria con un nuovo libro che accompagna il lettore nella terra della mito-archeologia.
Cosmesi e cosmo hanno la stessa radice, “kosmeo” indica “mettere in ordine”: la cosmesi, dunque, è l'arte di trasformare e trasfondere nel corpo la bellezza originaria dell'antica Dea creatrice. Il passaggio da femmina a donna ha portato con sé un nuovo modo di rispettare il corpo e il cosmo: coltivare la bellezza e difenderla è ciò che ci ha reso umani.
La femmina ludens si esprime per simboli, dà inizio al gioco della seduzione, sganciando il sesso dal solo istinto di procreazione, facendolo diventare strumento di piacere e di comunicazione profonda.
Il rituale del trucco aveva nell'antico Egitto una propria Dea: Seshat, “colei che scrive”, Dea del trucco, ma anche Signora dell'architettura (definiva l'orientamento degli edifici in base agli astri) e dell'arte sacra della scrittura. L'intuizione dell'autrice è affascinante: il trucco del viso e del corpo è stata un' invenzione femminile per comunicare saperi iniziatici. “L'archeo-mitologia conferma che la scrittura pre-alfabetica era praticata dalle sacerdotesse della Dea in molte culture”(cit).Nisaba è la dea della scrittura sumera, Vac quella dell'India. Reithia nel paleo-Veneto. L'immagine della scrittura corporea richiama subito l'henné con il quale le donne indiane dipingono mani e braccia. “Forse la cura della mani fu uno dei primi maquillage inventati dalle femmine per allargare l'interesse prevalentemente erotico dei maschi nei loro confronti, a possibilità più articolate di comunicazione umana”(cit).
Lo specchio era, in origine, oggetto divinatori: i primi specchi erano in ossidiana levigata o piatti di ceramica colmi d'acqua. Il simbolo egizio del'immortalità,l'Ankh, ricorda la forma di uno specchio tondeggiante.
Il truccarsi le labbra “fu un'invenzione rituale femminile, una magia di fecondazione cosmica” (cit.), connesso al gesto di mostrare il sesso per ingraziarsi la Dea del raccolto.
Il momento del trucco come rituale iniziatico egizio è probabile che avvenisse all'alba (Aurora, Bastet, Albina, Eos, Sul, sono tutti nomi di Dee connesse al sole che nasce ad Est).
Non solo le labbra e gli occhi sono parti del corpo valorizzate, ma anche le orecchie: alcuni menhir in Corsica “hanno la parte femminile con seni e grandi orecchie rivolti all'alba e la parte fallica rivolta al tramonto” (cit). Orecchio come simbolo della parola nascente e creativa.
Il resoconto di viaggio tocca, oltre a Creta, anche la terra turco/curda, e, attraverso le parole evocative dell'autrice, riusciamo ad immergerci in siti archeologici affascinanti e poco conosciuti.
Nella parte finale un'intervista svela nuovi punti di vista. Mi colpisce la risposta alla domanda “Com'era la storia della mela e del serpente prima del patriarcato?”
“La mela riguarda il segreto della fermentazione, trasformare la frutta in alcol era un'attività gestita nel'ambito della non-religione della Dea”(cit). Il patriarcato impedirà alle donne l'estasi alcolica ritualizzando, però, tale privilegio all'interno della messa cattolica.
Il libro si chiude con ricette di cosmesi naturale dalla tradizione antica e moderna.
Un libro davvero originale, per partire alla ri-cerca della Dea che vive e pulsa in ognuno di noi, seppur nascosta in simboli, segni sul corpo, gesti quotidiani.
LUISELLA VEROLI
DAL COSMO ALLA COSMESI
Iacobelli editore 2016
L’etnologo MarcAugè è riuscito a trascinare il lettore in un sogno condiviso.
Tutto iniziò... l'anno prossimo, il 18 aprile 2018, quando dal balcone di San Pietro Papa Francesco afferma con voce chiara e precisa che Dio non è mai esistito.
Dio non esiste: tre parole danno inizio alla deflagrazione culturale.
Un mondo senza Dio. Cosa accadrebbe se la massima autorità della chiesa svelasse questa verità?
Dibattiti in tv, gente sbigottita che si ritrova orfana di un'idea sulla quale aveva riposto speranze, e alla quale, in alcuni casi, aveva dedicato l'intera vita.
Attentati islamici per conquistare l'Occidente in agonia, cinesi che mandano missionari in Occidente per convertire alla filosofia confuciana, Paesi che costringono i cattolici a scegliere una delle religioni ancora riconosciute... Forse l'opera iniziata dalle parole di Papa Francesco andrebbe conclusa.
Infatti dietro questo sconvolgimento della religione che da secoli si è considerata “universale” (l'etimologia della parola cattolico deriva dal greco katà e òlos cioè “tutt'uno, tutto intero”, in senso più ampio, “universale”) si cela il piano segreto di un movimento dal nome “Librement: movimento per la libertà e la resistenza mentali”. Sono loro i responsabili di tutto questo ed è uno di loro a interloquire con l'autore del libro e a promettergli nuovi sviluppi, perché tutto è appena cominciato.
“Non c'è alcuna rivelazione. Al contrario siamo ora in grado di donare a qualunque essere umano un'arma che elimini -una volta per tutte – quei cortocircuiti e quegli angoli oscuri che paralizzano il suo pensiero. Gli offriamo la possibilità di posare sul mondo uno sguardo sereno, curioso e attento e di godere senza remore delle sua capacità intellettuali e del piacere di vivere”
Come può raggiungere questo scopo il movimento Librement? Attraverso una sostanza che si scioglie in gocce d'acqua e che arriva a diffondersi come una silenziosa epidemia inarrestabile.
Le moschee, le chiese, i templi diventano da subito luoghi “antichi”, le passate cerimonie religiose si fanno attrazioni turistiche etnografiche, cadono le dittature edificate su fondamenta religiose, le donne sono libere di sciogliere i capelli, le somme investite nella guerra contro il terrorismo sono devolute a favore della disoccupazione e dell'istruzione.
“Vedi, la gente ha capito che dietro la parola “Dio” si nascondeva quanto di migliore custodiscono in sé gli esseri umani: la loro piena consapevolezza della vita”.
Un bel sogno, soprattutto perché collocato nel futuro imminente.
You may say I'm a dreamer. But I'm not the only one. I hope someday you'll join us. And the world will be as one risponderebbe John Lennon.
Sul finale scopriamo chi è l'uomo del movimento Libremen, colui che, insieme ad altri, ha dato origine alla rivoluzione, un uomo che non può che venire dal futuro personale che ognuno di noi, in modo concreto o simbolico, si porta dentro: un figlio.
Marc Augè:
Le tre parole che cambiarono il mondo
Raffaello Cortina editore 2016
I delitti della primavera, quarto romanzo per l’autrice Stella Stollo, è ora disponibile in lingua inglese con il titolo ‘The Botticelli Killings’. Il libro edito da Graphofeel continua ad ottenere consensi sia dai lettori che dalla critica e presto raggiungerà anche la Fiera del Libro di Francoforte che si terrà dal 19 al 23 ottobre 2016 nella città tedesca. Il thriller storico risulta avvincente sin dalle prime pagine, la scrittura è fluida e incisiva, raffinata ed avvolgente. Siamo nella Firenze di fine 1400 e la città medicea viene sconvolta da una serie di delitti. Accanto ai corpi delle vittime, tutte donne appartenenti alla ricca borghesia, vengono trovati oggetti che richiamano al dipinto “L’allegoria della primavera” di Sandro Botticelli. E sarà proprio attorno a quest’opera che si svilupperà un intreccio narrativo davvero emozionante tra personaggi reali ed altri di pura fantasia. Incontriamo Stella Stollo per saperne di più.
The Botticelli Killings, un nuovo traguardo per il libro “I delitti della primavera”, come è nata l’edizione in lingua inglese?
“L’edizione in inglese è di sicuro un traguardo importante e sono grata alla casa editrice Graphofeel per avermi aiutata ad arrivare fin qui. La traduzione eseguita da Juliet Bates (insegnante madrelingua, psicologa e traduttrice con una passione particolare per testi storici e contenuti esoterici) rispecchia con acume e sensibilità lo spirito del testo e dei personaggi. La copertina per la nuova edizione, realizzata dal grafico Carlo Vignapiano, è magnifica. Insomma, la soddisfazione è grande, ma speriamo di non fermarci qui e che si presentino altri traguardi da raggiungere… magari il libro ha in serbo nuove sorprese!”
Il romanzo prende forma intorno al dipinto “L’allegoria della primavera” di Botticelli, che significato ha per lei quest’opera?
“Rappresenta una concezione dell’arte: bellezza sì, fatta di grazia e armonia e specchio di una realtà ideale, ma bellezza non fine a se stessa. Nel mio libro Botticelli e Leonardo concordano su questo: I poeti hanno i codici linguistici e possono nascondere i loro messaggi tra le parole. Noi pittori possiamo parlare solo attraverso il linguaggio dei segni e i codici numerici. Nonostante più volte nel romanzo venga evidenziato come il modo di dipingere dei due artisti sia molto diverso, viene anche ribadito che la loro pittura si basa sullo stesso presupposto: entrambi ritengono che l’arte sia tutt’uno con la scienza e possa contenere e comunicare tutto il bagaglio delle conoscenze umane.
Botticelli non diede mai un titolo al suo capolavoro e il nome “La Primavera” gli è stato attribuito sulla base di una delle chiavi di lettura dell’opera, quella allegorica. Nel mio romanzo il pittore afferma che avrebbe voluto chiamarla “Il Viaggio”, riferendosi al viaggio dell’umanità attraverso un’alternanza ciclica di secoli bui e secoli di luce. Il compito delle opere d’arte è quello di brillare al pari di tutte le stelle destinate a guidare, nelle lunghe notti, l’umanità in viaggio.”
Cosa l’ha portata ad ambientare la narrazione nella Firenze di fine 1400? Come si è documentata per affrontare questo preciso momento storico?
“Certo, avrei potuto imbastire intorno a “La Primavera” una storia ambientata ai nostri giorni, magari con degli investigatori impegnati a collegare le figure del quadro ai noti delitti del “mostro” di Firenze , ma la tentazione di spostarmi nel passato era troppo forte. Anche come lettrice ho un debole per la narrativa storica oppure per la fantascienza che parla di viaggi nel tempo, e scrivere un romanzo a sfondo storico è senz’altro una fantastica “Macchina del Tempo” . Il lungo e necessario periodo della documentazione ha il potere di catapultarti in un’altra epoca e di farti rivivere eventi e atmosfere per le quali inizi a provare nostalgia, come facessero parte della tua vita passata. E in un certo senso è così, perché fanno parte del passato dell’Umanità. Ci sono epoche che mi attraggono particolarmente e in cui ho sempre desiderato soggiornare per un po’, epoche che sono sempre legate a luoghi: una di queste è il 1400 a Firenze.”
Un killer, delle vittime, una serie di oggetti, tutti elementi per uno sviluppo narrativo che si avvicina al thriller storico, pensa sia giusto come genere di riferimento al suo libro?
“In realtà, preferirei superare i confini del genere. Il mio romanzo come l’opera a cui si ispira, offre diverse chiavi di lettura e molteplici contenuti. All’interno dello sfondo storico della Signoria dei Medici, con i suoi fasti e il fervore culturale del nuovo Umanesimo, si incastrano storie di vario genere: artistico, filosofico, sociale, sentimentale. E poi c’è anche l’intreccio dei crimini che è una sorta di collante tra tutto il resto. Autori ben più autorevoli di me hanno usato la tecnica del poliziesco o del giallo per veicolare altri contenuti e riflessioni politiche e sociali. Ma non si tratta solo di questo. Nel mio caso devo dire che la disciplina di scrittura, la logica e il ritmo serrato tipici del Thriller mi hanno aiutata a non perdere l’orientamento tra le varie storie che andavo costruendo e a procedere con una certa coerenza narrativa.”
Botticelli, Lippi e la bellissima Simonetta Vespucci, sono al centro della trama in un triangolo di relazioni e sentimenti. L’io narrante è però Filippino Lippi, perché questa scelta?
“Tralasciando la mia infatuazione adolescenziale per Filippino Lippi ormai nota e il fatto che per anni ho girato con la cartolina del suo autoritratto nel diario, penso di averlo scelto come io narrante perché tra tutti i personaggi reali del mio libro è il meno famoso. Ingiustamente, a mio avviso, il suo grande talento di pittore è stato oscurato dalla fama di suo padre Filippo e da quella, enorme, del suo maestro Sandro Botticelli. Un specie di rivalsa, insomma. Così come cerco di dare una nuova immagine di Simonetta, passata alla Storia come musa di straordinaria bellezza fisica, mettendo in evidenza la bellezza della sua personalità brillante e la sua mentalità trasgressiva e moderna. Al contrario, trovando ingiusto che di Leonardo da Vinci venga sempre lodata la mente eccezionale e nell’aspetto fisico sia sempre ricordato come un vecchio con la barba e i capelli bianchi, ho voluto esaltare il fascino ammaliante e seducente del suo corpo giovanile.”
Il romanzo seppur ambientato nel passato ha chiari riferimenti con fatti di cronaca attuali, come i tanti casi di femminicidio, è così?
“Questa è una delle preziose opportunità offerte dalla narrativa a sfondo storico: evidenziare come nel corso dei secoli restino immutati certi atteggiamenti dell’animo umano. Sono passati ben oltre cinque secoli da quell’epoca, ma purtroppo assistiamo continuamente al ripetersi degli stessi orrori. Il fenomeno chiamato femminicidio è l’estrema conseguenza delle forme di violenza esistenti contro le donne e affonda le sue radici in pregiudizi, discriminazioni di genere e comportamenti che vengono da epoche molto lontane nel tempo, e che i governi di tutto il mondo non si sono mai impegnati seriamente a eliminare.”
Secondo lei cosa apprezzeranno i lettori anglofoni di questa edizione?
“Spero quello che hanno apprezzato finora i lettori italiani, ovvero l’ingenuità ma anche l’umiltà con cui mi sono posta di fronte a una materia di cui non conoscevo nulla; l’impegno e la serietà nel documentarmi per ricreare un contesto con personaggi e situazioni verosimili o comunque probabili. E magari li stuzzicherà l’idea che “La Primavera” possa essere stata dedicata da Botticelli al suo amico Amerigo Vespucci come talismano propiziatorio al viaggio verso il Nuovo Mondo.”
Ogni vita è un’avventura. Sia quella tranquilla, vissuta dalla gran parte di noi costellata di piccoli e (all’apparenza) innocui accadimenti, sia quella tumultuosa dei pochi che ne cavalcano i giorni al ritmo sincopato del proprio (sballato?) codice esistenziale.
Metti, ad esempio, Albino Buticchi. Un uomo prototipo di un’ epoca che ha rappresentato – nel bene e nel male - la forte, caparbia, irriducibile voglia di vincere, di piegare la vita alla propria volontà che ha caratterizzato l’essere dei molti italiani che uscivano – negli anni Quaranta/Cinquanta - dalle tremende esperienze e dalla miseria assoluta vissuta nei lunghi anni di guerra.
“Prendi la vita per il bavero” è stata la regola di Albino Buticchi. Oggi il figlio Marco, autore di successo di grandi libri d’avventura, ne racconta i giorni, gli anni, le grandi “avventure” in un libro che travolge il lettore trascinandolo - ancora una volta - nel sapiente gorgo che lo scrittore spezzino sa sempre creare nei suoi romanzi. Ma questa volta è diverso : non è un romanzo, ma una vita vissuta, intensamente e spavaldamente, un fantastico intarsio inserito in un pezzo di Storia italiana.
Quasi timoroso, permeato di affetto filiale, il pensiero di Marco : “ Seduto di fronte all’esistenza di mio padre, densa di avventure come un romanzo, cerco il coraggio di raccontarla.”
“Casa di Mare” (edizioni Longanesi,300 pagine, euro 18.60 -) si apre con una pagina che è un forte pugno nello stomaco : il dettagliato racconto dell’ultimo e più tremendo tentativo di suicidio di Albino Buticchi nello splendore della sua grande villa di Lerici.. Un colpo di pistola alla tempia che lo renderà cieco per il resto dei suoi giorni. Altre volte nel corso della sua tumultuosa vita, carica di grandi successi e dolorose cadute. di grandi amori e di dolorosi rancori, Albino aveva tentato di “farla finita”. Per fortuna sempre senza gravi conseguenze, ma che questa volta furono disastrose.
Albino Buticchi, nato “dignitosamente povero” seppe combattere la vita giorno dopo giorno riuscendo a conquistarsi grandi successi e un posto di primo piano nel panorama dell’alta società del tempo. Una vita costellata di grandi passioni : la velocità (fu pilota di fama di auto da corsa per Alfa Romeo, Ferrari, ecc.), per il calcio che, appena quarantenne, lo vide favoloso presidente del Milan, ma anche la disastrosa schiavitù per il gioco d’azzardo che lo fece perdere autentiche fortune e fu la causa principale del suo ultimo tentativo di suicidio.
Non aveva frequentato grandi scuole, Albino Buticchi, si era fermato alla seconda elementare. Era tempo di guerra, e non c’era voglia, denaro né spirito di pensare ... alla laurea. Eppure seppe imparare – straordinario autodidatta - tutto quanto serviva per fare della sua vita un fantastico affresco. Dure esperienze di guerra con nazisti e fascisti, fughe disastrose nella Legione Straniera, contrabbandiere di prodotti petroliferi subito dopo la guerra. Un prologo alla sua ascesa vertiginosa, sociale ed economica, proprio nel settore petrolifero che segnò e accompagnò i suoi grandi successi.
Una vita all’insegna degli eccessi, positivi e negativi, vista attraverso gli occhi di un figlio-scrittore che racconta di un padre, icona di un’epoca in cui persone come lui contribuirono a “rifare l’Italia quando dell’Italia restavano solo macerie”.
”Casa di Mare” – Marco Buticchi –edizioni Longanesi -300 pag. - euro 18.60)
Un libro non solo importantissimo, ma una ricerca determinante per decodificare la nostra storia recente. Un opera unica di grande valore, di cui abbiamo avuto spesso qualche accenno nei video YouTube di G. Pucciarelli e G. Vitali. https://www.youtube.com/watch?v=TYnfbs9cvfs
Dalla presentazione dell’autore:
Mi sono ripromesso di raccogliere in questo libro alcune osservazioni riguardanti le fasi di sviluppo della società occidentale, nel periodo compreso tra i primi anni del Ventesimo Secolo e il secondo dopoguerra. Prima fra tutte, quella che mi ha permesso di rilevare il persistente contrasto fra il presunto trionfo del liberalismo democratico e le "regole" dell’economia di mercato.
Ho cercato di non ancorarmi al criterio riduttivo, adottato da Eric Hobsbawm nel suo "Il Secolo Breve", pretendendo un excursus analitico che va oltre i limiti temporali, precisati dallo storico inglese: il 1914 e il 1991, e segnala tre date altrettanto fondamentali: il 1910, l’anno in cui a Jeckill Island è ideato e perfezionato il piano di attuazione del "Federal Reserve System"; il 1913, alla fine del quale il Congresso degli Stati Uniti vota a favore del Vreeland-Aldrich act e il Presidente Thomas Woodrow Wilson lo approva; e il 1905, l’anno del primo tentativo rivoluzionario bolscevico, sostenuto dalla Casta Finanziaria di Wall Street, che poco prima ha finanziato generosamente il Giappone, affinchè la sconfitta della Russia nella guerra russo-giapponese del 1904-1905, agevoli l’instaurazione del governo comunista nella terra dello Zar. Le svolte cruciali del "Novecento" avvengono, sì nel 1914, l’anno in cui il "Potere" che domina a Washington decide di far deflagrare una guerra totale che dovrà diffondere ovunque il sistema usurocratico per assumere il controllo dell’economia mondiale e sottoporre al proprio arbitrio la politica monetaria di ogni nazione; ma la fase determinante del piano finanziario messo in atto a Wall Street si colloca nel 1919, allorché la conferenza di pace di Parigi stabilisce lo schema geopolitico più congeniale all’affermazione su scala planetaria del sistema economico liberista angloamericano, che trova i suoi efficaci strumenti nella Federal Reserve Bank di New York e nella City Londinese. È il 1917 tuttavia, l’anno in cui si registrano il successo della rivoluzione bolscevica e la prestazione della garanzia britannica per la costituzione dello Stato ebraico in Palestina.
Il termine "Usurocrazia", coniato da Ezra Pound, indica il sistema che trova tuttora concreta applicazione nella gestione monetaria, affidata a banche private, per la creazione della cosiddetta "moneta-debito". Questo sistema, operante dal dicembre del 1913 negli Stati Uniti è presto dilagato in tutto il mondo occidentale, grazie alla connivenza con una leadership politica, che obbliga lo Stato a emettere certificati di credito del Tesoro, ogniqualvolta la Banca Centrale decide di emettere un equivalente ammontare di moneta, e a consentirne la negoziazione sui mercati finanziari internazionali (Wall Street in particolare) nell’esclusivo interesse dei Grandi Investitori (Banche e Gruppi finanziari) dando luogo a fenomeni come la privatizzazione dei profitti e la socializzazione delle perdite. L’inesausto propulsore di questo sistema è il debito pubblico,che non è affatto "scritturale", come sostengono i cultori della teoria monetaria moderna, ma concreto e, spesso insostenibile. Come opporsi a questo sistema della Casta Finanziaria Usuraia?
La risposta non è semplice, visti i precedenti. Ci provò Benito Mussolini, nella seconda metà degli Anni Venti, presentando la Carta del Lavoro e le linee essenziali dello Stato Corporativo, ispirato ai principi della Carta del Carnaro, enunciati da D’Annunzio e De Ambris nel 1920, dopo l’impresa di Fiume. Ci provò Adolf Hitler nel 1933 e nel 1939, varando la legge che nazionalizzava il capitale della Banca Centrale tedesca. Entrambi i tentativi ebbero scarsa fortuna, come è noto. Il liberalismo fa grandi promesse in politica, anche se spesso tollera le dittature compiacenti, mentre riesce sempre più difficile dimostrare se un logoro rivestimento democratico sia ancora sufficiente a nascondere l’ormai secolare tirannia che, in nome della libertà, si esercita nel campo economico. Liberazione fu il pretesto per scatenare una guerra totale, il cui vero fine era: eliminare due indisciplinati Capi di Stato che non vollero adeguarsi al "sistema".
Gianpaolo Pucciarelli: "Segreto Novecento" Edizioni Capire (2014)
La mitologia sumera ha avuto le sue prime traduzioni a partire dal 1950, il mito di Inanna viene tradotto solo nel 1979, per questo motivo, forse, sono tutt'oggi poco conosciuti. Andrebbero riscoperti perché raccontano di un tempo non ancora frammentato nelle sue componenti emotive, un tempo gilanico, e la mitologia rispecchia questo equilibrio delle polarità maschile/femminile.
Si può pensare che la mitologia mesopotamica rappresenti l'ombra delle nostre radici ebraico - cristiane: tutto quello che non si è voluto vedere per millenni e millenni , e forse, non è un caso che la sua riscoperta sia stata così tardiva rispetto ad altre culture. (Cit)
Paola Palmiotto introduce i miti sumeri attraverso un excursus iconografico sulle raffigurazioni neolitiche della Grande Madre: statuette dal ventre gonfio e dal seno prosperoso, simboli di fertilità e rigenerazione, studiati dall'archeologa Marja Gimbutas.
L'autrice colloca geograficamente e cronologicamente i racconti mitici per poi andare ad esplicitare la visione del mondo che è alla base della narrazione.
Già la cosmogonia rivela un substrato di pensiero profondamente differente rispetto ai miti di origine greci e babilonesi: la separazione tra cielo e terra è un evento necessario e la nascita della vita è un atto d'amore e di bellezza; per i Greci, invece, fu un gesto di violenza, la castrazione di Urano, a dare origine alla vita e all'amore (dalla castrazione e dalla spuma nacque Afrodite). Solo pochi anni dopo gli assiri raccontano un'origine ancora più cruenta: il mondo nasce dal cadavere di Tiamat, la Madre-abisso, uccisa e fatta a pezzi dall'eroe Marduk.
La nascita dell'uomo ha lo scopo di alleviare la fatica degli dei minori, ed Enki, oltre a crearli si schiererà in più occasioni dalla loro parte: correggendo il loro destino e salvandoli dal diluvio contravvenendo ai divieti degli altri Dei.
Enki è “colui la cui parola è giusta”, è Enki che fa rinascere Inanna, è il maschile del pre-patriarcato, un maschile solidale e creativo, in grado di portare in superficie le acque fecondanti. Ciò che lo caratterizza non è il conflitto, non è lo scontro, ma piuttosto la saggezza, l'integrazione di parti diverse, la capacità di trovare soluzioni altre. (cit).
Da un punto di vista psicoanalitico Enki è la coscienza vivificata dal Sé, come sostiene Jung “ogni parte di inconscio che affiora alla coscienza porta nuova energia creativa” (Jung, 1946).
Il corteggiamento tra Inanna e Dumuzi offre squarci di seduzione erotica e tenerezza, sempre nell'ottica della bellezza e della fertilità vegetale: Inanna tentenna, ma poi si convince e sposa il suo pastore dando origine all'antico rito del matrimonio mistico: ogni nuovo re, infatti, doveva accoppiarsi con una sacerdotessa di Inanna per offrire alla città abbondanza e prosperità ; con l'avvento del patriarcato il matrimonio mistico così ritualizzato si trasformerà nella “meretrice di Babilonia” citata nel Nuovo testamento (Apocalisse di Giovanni).
Ma il mito che più di tutti si presta ad un'interpretazione junghiana di incontro e integrazione dell'ombra è quello della discesa di Inanna negli inferi per abbracciare la sorella oscura Ereshkigal. Non sappiamo perché la dea voglia scendere nell'oltretomba contravvenendo alle regole divine secondo le quali nessuno torna vivo dal regno dei morti (sono molti i frammenti andati perduti).
La sua discesa prevede che la dea si spogli dei 7 “me”, rimanendo nuda davanti all'ira della sorella. Inanna verrà trasformata in cadavere e appesa a un gancio e la sua salvezza verrà riposta nelle mani dell'ancella Ninsubur che pregherà prima il nonno paterno, Enlil, poi il padre, il Dio della luna Nanna, per trovare infine ascolto e comprensione solo in Enki. Sarà Enki a modellare con lo sporco le due figure che faranno da coro al lamento di Ereshkigal riuscendo ad ottenere in cambio di tale compassione il corpo della Dea, che risorgerà con il cibo e l'acqua divini. Ma per ogni corpo che esce vivo, i giudici infernali chiedono una nuova vita. Chi non abbasserà il capo, chi non avrà il dono dell'umiltà sarà il prescelto nella sostituzione: Dumuzi rimane sul trono davanti ad Inanna risorta, sarà lui, dunque, a prendere il suo posto dopo una fuga e 2 trasformazioni. Ma Inanna ascolta i lamenti della sorella di Dumuzi e così verrà deciso: Geshtinanna, la sorella, prenderà il posto di Dumuzi nell'oltretomba per 6 mesi, e per il resto dell'anno sarà il pastore a scendere nel regno dei morti. Un mito che spiega le stagioni, molto differente da quello greco di Demetra e Persefone: Persefone arriva passivamente negli inferi, qui chi scende è sia un maschile che un femminile. Gestinanna è il nuovo femminile, Dumuzi è il nuovo maschile.
Torna Enki nelle ultime pagine del libro, torna come difensore dell'umanità condannata alla sparizione attraverso il diluvio, e la simbologia animale, in questo caso, si presta a interpretazioni alchemiche: a far ritorno sulla nave, infatti, non è una colomba bianca come nel mito biblico ma un corvo nero, animale notturno collegato alla morte.
“E forse è proprio questo che dovremmo imparare, siamo abituati ad aspettare la colomba col il suo ramoscello d'olivo, invece dovremmo imparare ad apprezzare il corvo, perché è lui che ci aiuta a far emergere una nuova terraferma dal mare del nostro inconscio”. (Cit.)
PAOLA PALMIOTTO
Il pre-patriarcato nella mitologia sumera:
una lettura simbolica secondo la psicologia analitica
Persiani editore 2009
Erba magica per eccellenza, la mandragora ha assunto nel corso della storia un ruolo fondamentale nell'aspetto magico- rituale connesso al mondo vegetale.
Appartenente alla famiglia delle solanacee (la stessa famiglia dei peperoni, melanzane, patate e tabacco), la mandragora si caratterizza per la presenza di alcaloidi (atropina, iosciamina, mandragorina, joscina, piridina, scopoletina, pseudoiosciamina etc..) che ne rendono pericoloso l'uso indiscriminato. Si distinguono 6 specie di mandragore, tra le più note ricordiamo la mandragora autumnalis che fiorisce, appunto, in autunno con grandi corolle color violetto, il frutto è giallo ed ha un odore fetido, e la mandragora officinarum che fiorisce in marzo- aprile, ha fiori a corolla bianca tendenti al verde e al giallo e frutti arancioni. Dal punto di vista farmacologico le mandragore hanno potere soporifero, dato dall'inibizione del sistema neuro-vegetativo che agisce in modo preponderante sul sistema pneumogastrico. Superando le dosi sperimentate attacca la corteccia cerebrale con conseguenze tossiche ( nausea, vomito, tachicardia, respirazione difficoltosa, allucinazioni e deliri...).
L'etimologia del nome apre un ventaglio di significati: il greco la riconduce alla stalla, perché accanto ad esse era rinvenuta, nella lingua persiana assume il significato di “erba dell'uomo” (la radice ha forma antropomorfa), ma anche di “quella che espelle”, che caccia i demoni, di “erba dell'amore” e di pianta “dissotterrata dal cane”; nella radice sanscrita troviamo il connubio di “sonno” e “materia”, sostanza che induce il sogno, ma anche “pianta inebriante”; in arabo è la “lampada del diavolo” poiché dopo un temporale le mandragore tunisine diventavano bluastre, (sfumatura cromatica data da un alcaloide); il tedesco ci riporta al significato di “segreto”, “formula magica”, legata al verbo “mormorare”; in fiammingo è “l'orina del ladro”. Il latino la riconduce alla pazzia, “rende folli e dà sonno profondo e cresce nelle ombrose caverne della terra” afferma Dioscoride Longobardo.
Già nell'excursus etimologico è possibile rinvenire le caratteristiche magiche che la pianta ha assunto nelle epoche: amuleto protettivo, pianta afrodisiaca, pianta ipnotica, pianta maledetta, pianta sacra, pianta che cresce nella terra degli impiccati.
Vita e morte, santità e maledizione sembrano ritrovarsi in un'unica entità vegetale, una coincidentiae oppositorum che compare già nei dipinti egizi, e trova menzione anche nell'Antico testamento (nella storia di Giacobbe il solo tocco della pianta rende fertile Lia).
Per Ildegarda di Bingen la pianta è connessa al demonio perché nata dalla terra con la quale è stato creato Adamo.
La raccolta della mandragora era uno dei compiti del rizotomo (raccoglitore di radici), il quale, secondo più autori latini doveva adempiere a rituali ben precisi: dopo aver effettuato lo scavo nel terreno e dopo aver tracciato cerchi magici, legava la radice a un cane nero (animale psicopompo) molto affamato che, attirato da un pezzo di carne, l'avrebbe tirata fuori dal terreno e si sarebbe immolato alla fine del rito.
Utilizzata nella farmacopea per le sue qualità anestetizzanti, era uno degli ingredienti della spongia sonnifera, una spugna che veniva data da inalare a chi doveva subire un intervento chirurgico.
Arnaldo Villanova la cita a proposito della “mela sonnifera” realizzata con la scorza della mandragora, il succo e le foglie del papavero e la farina d'orzo da mettere sotto il naso del paziente.
In dose precisa, aggiunta al vino, aiutava a vincere la malinconia e il suicidio, ma se le dosi erano aumentate si aveva l'impressione di trasformarsi in animale o pianta.
Una sensazione, quella della trasformazione, che richiama i processi contro le streghe, le quali, spalmandosi di un unguento magico composto di piante alcaloidee, avevano la sensazione di trasformarsi in animali e di compiere voli magici verso il Sabba. Tra le accuse contro Giovanna d'Arco c'era quella di portare nel seno una radice di mandragora.
Mandragoritis è uno degli appellativi di Afrodite, dea dell'amore. L'aspetto eccitante è menzionato da Dioscoride, mentre Ippocrate la suggeriva per le irrigazioni vaginali dei pessari imbevuti di succo di mandragora, cetriolo e latte di donna.
Santa Ildegarda, al contrario, consigliava la pianta nella cura della satirasi maschile e della ninfomania femminile.
Il libro di Massimo Lizzi, arricchito da interessanti immagini di erbari antichi e dipinti, è un testo unico, appassionato e ben documentato.
Massimo Izzi
La radice dell'uomo: alla ricerca della mandragora
Venexia 2016
La guerra di Corea fu combattuta dal 1950 al 1953 e vide contrapposte da una parte la Corea del Nord e la Cina e dall'altra la Corea del Sud, gli Stati Uniti d'America e le Forze dell'ONU.
La popolazione coreana, terrorizzata, fu ben presto ridotta in estreme condizioni di terrore, miseria e abbandono. La fame e le malattie contribuirono ad accrescere il numero delle vittime delle azioni belliche.
Per fronteggiare questa drammatica situazione la Croce Rossa internazionale si attivò per inviare aiuti umanitari, lanciando un appello a tutte le sue Società nazionali per portare soccorso ai cittadini coinvolti nella guerra.
Il 20 settembre 1951, la Repubblica Italiana, pur non facendo ancora parte delle Nazioni Unite, mise a disposizione del Segretario Generale dell'ONU un ospedale del Corpo Militare della Croce Rossa, contrassegnato con il numero 68, completo di equipaggiamento e personale.
L'impiego dell'ospedale italiano nella guerra di Corea si protrasse dal novembre '51 al dicembre '54, rimanendo operativo un anno e mezzo dopo la fine delle ostilità.
Della gloriosa e lontana missione in terra coreana del personale della Croce Rossa è rimasta in Italia, purtroppo, una memoria labile e confusa.
Quella degli uomini del Corpo Militare, supportata dalle infermiere volontarie CRI, è stata la prima operazione fuori dai confini nazionali di una nostra unità militare dopo la Seconda guerra mondiale.
La missione, che riscosse il plauso del Governo coreano, dei vertici militari americani e delle autorità dei Paesi alleati, va giustamente ricordata in quanto costituì il primo elemento di un reale reinserimento della nuova Italia nel contesto internazionale delle Nazioni impiegate a sostenere gli sforzi e le decisioni dell'ONU.
Questo volume, nel ripercorrere le commemorazioni per il 60° anniversario della guerra di Corea, celebrate sia Italia sia nella Repubblica di Corea, a testimonianza del profondo senso di riconoscenza che il popolo coreano nutre tuttora verso i 21 Paesi che corsero in suo aiuto durante i terribili anni della guerra, rende finalmente onore alla memoria dei veterani ormai scomparsi e alle gesta dei pochissimi reduci ancora in vita.
Il tenente colonnello De Felici ricostruisce in modo scrupoloso, puntuale e rigoroso le vicende del conflitto bellico in tutte le sue declinazioni, dalla glorificazione dei momenti salienti della storia nazionale alla rievocazione delle principali battaglie, dal gesto di isolato eroismo al compianto per i caduti, dalle umili retrovie all'esaltazione retorica di episodi e figure che fanno parte della memoria storica del Corpo Militare della Croce Rossa Italiana.
Il libro di grande formato, con capitoli redatti in lingua inglese, è arricchito da un'accurata e inedita documentazione fotografica attuale e dell'epoca. Riporta, inoltre, un interessante panoramica delle ultime ostilità fra le due Coree e una doviziosa bibliografia, consigliata per chi volesse approfondire gli argomenti inerenti alla guerra di Corea e la partecipazione della missione italiana.
La guerra di Corea, 60 anni dopo
I veterani in visita ai luoghi più significativi
di Claudio De Felici
Di Virgilio Editore, Roma - pagine 224
La missione in Iraq può essere considerata come uno dei capisaldi degli interventi all’estero eseguiti dal Corpo Militare della Croce Rossa Italiana dopo la Seconda guerra mondiale.
Il concorso fornito nel territorio iracheno alle forze del Contingente italiano impegnate nell’operazione “Antica Babilonia” da parte del personale del Corpo Militare CRI, affiancato dalle “sorelle” del Corpo delle Infermiere Volontarie,
si dimostrò assolutamente di spessore e valore come risulta
dai numerosi encomi e riconoscimenti di autorità ed Enti civili
e militari riportati anche in questo testo.
La permanenza in territorio iracheno del personale del Corpo Militare della Croce Rossa Italiana, protrattasi dal giugno 2003
al novembre 2006, ha visto impiegati in totale 1.054 uomini e può essere considerata come un’ulteriore prestigiosa pagina
nella storia del Corpo, ausiliario delle Forze Armate dello Stato.
L’ospedale da campo Role 2+ e la 68^ Unità sanitaria, presenti nella base italiana di Camp Mittica, sono stati due presidi preziosi per la cura dei nostri militari e soprattutto per l’assistenza medica alla popolazione irachena, svolta sia all’interno del compound sia nei villaggi della provincia del Dhi Qar.
I militari del Contingente italiano si sono impegnati per portare la pace, la sicurezza e la stabilità in un Paese nobile e ricco di storia attraverso lo svolgimento di attività di alto valore umanitario, al fine di rafforzare la coesione di un popolo martoriato dalle guerre.
La missione, che riscosse il plauso delle autorità del governatorato del Dhi Qar, dei comandanti militari americani e dei vertici dei Paesi della Coalizione, va giustamente ricordata in quanto costituì la base di un primo reale reinserimento del nuovo Iraq nel contesto delle altre nazioni del Medio Oriente.
Nel volume “La mia Nassiriya” il tenente colonnello Claudio De Felici, referente per la comunicazione del Corpo Militare della Croce Rossa Italiana, ricostruisce in modo scrupoloso, puntuale e rigoroso le vicende storiche della missione in tutte le sue declinazioni, con dovizia di particolari e attenta ricostruzione storica: dalla glorificazione dei momenti salienti alla rievocazione delle principali commemorazioni e cerimonie avvenute durante il suo periodo di comando della 68^ Unità sanitaria CRI, dalla memoria e dal compianto per i Caduti all’esaltazione retorica di episodi e figure che fanno parte, a distanza di dieci anni dalla fine di quella gloriosa missione, della memoria storica del Corpo Militare della Croce Rossa Italiana.
Il testo è arricchito con numerosi documenti, varie testimonianze e un vasto repertorio iconografico per lo più inedito.
La mia Nassiriya
Documenti, ricerche e testimonianze
di un operatore di pace
di Claudio De Felici
Di Virgilio Editore - pagine 246
“La felicità è la nostra condizione naturale, l’estasi è insita nella nostra natura”.
Abbiamo bisogno di “libri-ponte”: testi che siano collegamento tra Oriente e Occidente, tra medicina alternativa e medicina allopatica. In questa direzione si sono mosse le ricerche di autori quali Watts, Capra, Narby: con il risultato di un incontro (seppur con molto ritardo da parte dell'occidente scientifico), tra la scienza moderna e le culture antiche yogiche e sciamaniche. Anche il libro di Candace Pert si colloca in questo ambito.
A lei si deve la scoperta delle molecole che sono la base biochimica delle emozioni: i peptidi.
Dove nascono le emozioni? Nascono nel corpo o solo nel cervello? Entrambe le risposte sono corrette perché il processo viaggia in doppia direzione: i peptidi, le molecole messaggere, infatti, vengono prodotte da più parti del corpo. Ne è ricco il cervello, ma anche l'intestino crasso e l' intestino tenue sono rivestiti da un fitto strato di neuropeptidi e recettori. Queste molecole, per attivare delle modifiche cellulari, devono avere un recettore adeguato. È il recettore che permette a qualsiasi farmaco di fissarsi. Le molecole del recettore sono in costante vibrazione e si trovano all'esterno della cellula, sulla membrana. Qui esse danzano nell'attesa di incontrare il legante. Quando avviene l'incontro il legante trasmette il messaggio al recettore, il recettore lo trasmette alla cellula dove il messaggio può modificare lo stato della cellula stessa dando luogo ad eventi biochimici.
Nel cervello i neuropeptidi sono concentrati soprattutto nel limbico, sede delle emozioni. Dal libero flusso di peptidi tuttavia dipende il nutrimento del prosencefalo che è la sede delle funzioni cognitive superiori (questa parte del cervello raggiunge il suo pieno sviluppo non prima dei vent'anni). La pianificazione del futuro, la capacità di prendere decisioni e di formulare l’intenzione di cambiare sono tutte funzioni del prosencefalo. Quando ci sentiamo passivi, statici, “in gabbia”, ripetendo vecchi schemi di comportamento, è segno che le emozioni non trovano il loro libero flusso, e, di conseguenza, il prosencefalo malnutrito non riesce a promuovere un cambiamento.
“Se le nostre emozioni sono bloccate a causa di negazioni, repressioni o traumi, il flusso del sangue può diventare cronicamente limitato, deprivando la corteccia frontale del suo nutrimento”.
Come si traduce in termini scientifici il blocco delle emozioni? Il CFR è il peptide delle aspettative negative che può essere stimolato dalle esperienze traumatiche che abbiamo vissuto nell’infanzia . Se il livello di CFR è alto, le fluttuazioni degli altri peptidi risultano limitate. Quando il crf aumenta i recettori si desensibilizzano e diminuiscono di numero: la memoria del trauma, dunque, è fissata a livello del recettore dei neuropetidi.
Un blocco, quello delle emozioni, che ci predispone all'insorgere di malattie più o meno importanti: il reovirus del raffreddore usa lo stesso recettore della norepinefrina che è secreta da uno stato d’animo felice. Quando siamo felici, quindi, il virus non entra perché tutti i recettori sono occupati.
L'autrice conferma la validità della PNEI: la PsicoNeuroEndocrinoImmunologia nasce circa trent' anni fa come incontro di discipline scientifiche quali le scienze comportamentali, le neuroscienze, l'endocrinologia e l'immunologia. La PNEI studia le interazioni reciproche tra attività mentale, comportamento, sistema nervoso, sistema endocrino e reattività immunitaria, con lo scopo di riunire sistemi psico-fisiologici che da 200 anni sono stati separati nel loro studio e approccio.
Due fasci di fibre nervose sono collocate ai lati della spina dorsale, ciascuno dei quali è ricco di peptidi che trasportano informazioni: queste fasce corrispondono ai punti dei chakra della tradizione orientale.
Le parti scientifiche sono intervallate dalle parti biografiche, in cui vengono narrate in prima persona le difficoltà che l'autrice ha dovuto affrontare per riuscire a continuare la sua ricerca; le parti biografiche, anche se possono risultare meno interessanti, sono utili per comprendere quanto ostracismo si cela dietro un tipo di ricerca scientifica (e medica) che promuove l'uso delle terapie naturali.
“io credo che la felicità sia ciò che proviamo quando le componenti biochimiche alla base delle emozioni cioè i neuropeptidi e i loro recettori sono aperte e possono circolare liberamente nella rete psicosomatica interagendo e coordinando sistemi, organi, cellule in movimento continuo e ritmico. La felicità è la nostra condizione naturale l’estasi è insita nella nostra natura.
CANDACE PERT : MOLECOLE DI EMOZIONI
in ristampa per edizioni Tea
200 giovanissime vite di soldati “seppellite” senza nome dal Segreto Militare di Stato
“Mulazzo (Massa Carrara), capitale in Italia della Cultura nel 2017 !” Lo ha annunciato alla stampa Claudio NOVOA, sindaco appunto della piccola Mulazzo. Parole che hanno suscitato una certa perplessità in chi immagina di accostare alla cittadina della Lunigiana una Bologna “la dotta”, una Firenze del rinascimentale splendore Mediceo o ancora, una Roma imperiale. Ma Novoa intende riferirsi alla cultura del “libro”, infatti la provincia lunigianese è famosa nel mondo per la sua plurisecolare tradizione libraria. Dai “bancarellisti” di Montereggio alle mitiche librerie di Pontremoli fino a giungere ad editori conterranei come BIETTI, SALANI, CORBACCIO, DALL’OGLIO, fino ad arrivare alla gloriosa SONZOGNO ecc.. Tutte fiorenti imprese dell’Editoria italiana sviluppatesi nella potente ed industriale Milano ma con un cuore che batte nella lunigiana. Insomma, tutto partì da quei “bancarellieri” che peregrinando per e diverse province parmensi, emiliane, toscane e romagnole seppero diffondere quei classici scaturiti nientemeno che dalla penna di un Macchiaveli, di un Boccaccio o ancora da un Petrarca, per non parlare dei grandi romanzi di Deledda, Salgari, Serao, Verne, fino ad arrivare a Leon Tolstoj, Victor Hugò, Guy de Maupassant, Emil Zola, Fedor Dostoevskij, Diumas padre e figlio ecc. ecc. Insomma Novoa in piena polemica con l’editoria attuale lancia la sua sfida:« Come si fa a criticare i giovani perché si interessano solo a telefonini, computers o tabet, e non leggono ....? Come si fa a dire che c’è una crisi di valori ....?.. Se si è voluto deliberatamente uccidere la cultura con un’editoria lanciatasi nella “politica libraria” del “facile consenso”, con libri che vanno dalle barzellette di Francesco Totti fino all’assurda volgarità di Zalone ?... Cosa insegniamo ai nostri figli ...? Il turpiloquio ?! » e lo fa ad alta voce presentando un libro edito proprio a Mulazzo dall’ editore TARKA, appunto “I librai Pontremolesi” di Gian Battista Martinelli, che dimostra eloquentemente come proprio da quell’importantissima funzione svolta dai librai nel favorire la vendita di una buona “stampa” sono poi emerse firme come Montanelli, Fallaci e Buzzati. Ma non basta. Novoa annuncia la scoperta di un fortunato ritrovamento documentale sulla Grande Guerra.
Un “carteggio” top-secrett gravato ancor oggi, in tempo di celebrazioni del “Centenario”, dal “Segreto Militare di Stato” . Una storiaccia di quelle “all’italiana” che ha torbidamente nascosto alla Magistratura di Stato ma soprattutto agl’italiani, la morte di circa 200 ragazzi, tra i 18 e i 20 anni. Sottraendo l’inchiesta ed affidandola fraudolentemente alla giurisdizione del Tribunale Militare adducendo false motivazioni causate da “fatti di guerra” e non invece dei reali motivi. Rivelazioni storiche di portata Europea che saranno comunicate in una Conferenza che si terrà prossimamente a Mulazzo da parte di un noto giornalista d’inchiesta specializzato “cacciatore” di documenti occultati. Ne nascerà un libro che racconterà con documenti secretati alla mano, tutto quanto è ignobilmente accaduto. E come per portar via i poveri resti dei giovani soldati, sono occorsi 36 cassoni (camions militari) della Croce Rossa, per raccogliere le innumerevoli membra umane dilaniate dall’esplosione dolosa..
Aspettiamo di sapere la verità. Anche di quest’altra “Piazza Fontana” di ... sangue, d’inizio secolo.
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