L'informazione non è un optional, ma è una delle condizioni essenziali dell'esistenza dell'umanità. La lotta per la sopravvivenza, biologica e sociale, è una lotta per ottenere informazioni. |
Gabriella Gagliardi |
Lo scoprirsi ammalati, improvvisamente traditi e abbandonati da quella cosa preziosissima (e spesso ignorata) che chiamiamo salute, ci getta, in modo del tutto imprevisto e incommensurabilmente doloroso, in una condizione in cui il senso di fragilità e di vulnerabilità arriva ad opprimerci l’anima e a toglierci il respiro. Tutto, all’improvviso, cambia colore, cambia sapore, cambia di valore e di significato. Nulla è e nulla potrà restare come prima. E, soprattutto, ci invade con prepotenza la consapevolezza che, mai e poi mai, riusciremo a ritornare, noi, come prima eravamo … ciò che prima eravamo.
Ma, proprio quando un sentimento di vertigine paralizzante ci stringe la coscienza, qualcosa può accadere. Qualcosa può accendersi in noi. Un varco, uno spiraglio può aprirsi. Può cominciare a respirare, dentro di noi, un nuovo soffio vitale e rivitalizzante. Può cominciare a percepirsi, lentamente (o anche travolgentemente) un nuovo respiro del mondo e un nuovo sorriso del mondo. Un nuovo modo, anzi, di sorridere nel mondo e al mondo.
Gabriella Gagliardi* ha vissuto e sta continuando a vivere un’esperienza difficile, un’esperienza che l’ha condotta a fare scoperte nuove e a riscoprire tesori antichi. E ce ne ha parlato in un piccolo ma densissimo libro**, in cui, pur partendo dal suo incontro con il dolore, riesce a regalarci echi di una saggezza lontana, capace di avvicinarci alla vita, di prenderci per mano per continuare, con nuova fiducia, nuovi cammini ricchi di infinite frontiere da oltrepassare e di nuovi territori da esplorare.
Con lei, per cercare di comprendere meglio la complessità e la ricchezza dei percorsi interiori che sta affrontando, è nata la seguente conversazione.
- Tu sostieni che il superamento di grandi difficoltà possa produrre una vera e propria trasfigurazione esistenziale.
In che senso, “superato l’ampio spettro di frastornanti sensazioni umane” (p.64), si finirebbe per approdare a “un mondo nuovo”?
La dolorosa consapevolezza della nostra fragile condizione di precarietà non potrebbe, assai più facilmente e prevedibilmente, farci apparire la terra e l’intero universo come un luogo tutt’altro che accogliente ed ospitale? In cui forse non varrebbe tanto la pena di vivere?
Propendo per una visione di segno fortemente positivo e intendo dire che c’è un “Mondo Nuovo” dopo la malattia, perché si guarda al mondo con occhi diversi. Quando un bene si sta per perdere, lo si apprezza e considera molto di più. C’è più consapevolezza del valore della vita. Si assapora ogni momento di essa. La vita non si arrende. Ha una forza sovversiva. E ci induce a godere anche del semplice ma grandioso incanto del quotidiano. Altro che non vale la pena di vivere!
In un certo senso, il dolore insegna, come ci hanno già detto gli antichi, in particolare i tragici greci.
Eschilo fa dire ad Agamennone: “Zeus a saggezza avvia i mortali, valida legge avendo fissato, conoscenza attraverso dolore.” (Agamennone, vv176 e ss). Cito anche la Karen Blixen: “La cura per qualsiasi cosa è l’acqua salata: il sudore, le lacrime o il mare”.
La malattia, dunque, ha una sua etica. L’etica della malattia è portare un bene all’anima.
Circa la seconda parte della tua domanda sono d’accordo con te a proposito della fragilità della condizione umana, ma questa, più che un vizio, potrebbe diventare un valore. In verità, siamo tutti dei “Sisifo”, ma Sisifo è un uomo che si sa fragile e impara a volersi tale. Sisifo non è un eroe, non è Eracle. Sisifo è uomo perché quella pietra è destinata a ricadere e il suo cammino a riprendere senza sosta. Certo, non è felice la sua costrizione, ma c’è da considerare il percorso, il viaggio, gli incontri, la condivisione della fatica. Stessa strada, stessa salita, stessa fatica. Egli lo sa. Eppure sale. E risale. Perché è come una “canna pensante” (Pascal) e soprattutto perché “la lotta verso la cima basta a riempire il cuore di un uomo: bisogna immaginare un Sisifo felice”. Così ci dice questa bellissima frase di Camus. Io la condivido, e vedo in questo mito la metafora dell’esistenza umana: la vita è fatica e la fatica è vita. Ma anche con la fatica si può amare la vita.
- In che senso “la paura della morte” andrebbe distinta dalla “percezione della morte”?
Sì, “la paura della morte” è altro dalla “percezione della morte”. Nel senso, come dice Epitteto, che una cosa sono le cose, un’altra l’opinione che noi ci creiamo di esse. Quindi, una cosa è la “cosa-paura”, altra cosa la sua percezione. La prima è una realtà oggettiva, e reale appunto, la seconda è una espressione soggettiva e personale, l’idea che noi ci formiamo in quanto sensazione individuale. Potremmo sartrianamente parlare di puro cinestetico, di puro sentire. In particolare, poi, nel caso del paziente oncologico, la morte non è più qualcosa di generico e vago, come per tutti i mortali, ma si presenta in costante agguato: è percepita come una sorta di vero e proprio “avviso di scadenza”, addirittura forse come un pre-sentimento. La si tocca quasi con mano. Anche per questo, poi, una volta superato il rischio della morte reale, si vive meglio e di più! L’esperienza dello scampato pericolo ci fa rivivere. Diventa la nostra resurrezione. Si cerca sempre un di più, di tempo, di qualità, di desiderio,* di attività.
“Non muore il desiderio”, appunto!
- Tu fai riferimento, con grande delicatezza e con un velo di toccante poesia, alla serena saggezza di tua madre che amava ripetere : “Quando il Signore mi chiama sono qua.”
E dichiari anche che conquistare una analoga condizione di serenità rappresenta per te l’aspirazione più grande.
Ora, però, credo che sia impossibile sganciare la saldezza interiore di una persona come tua madre dalla sua visione della vita intrinsecamente religiosa, imperniata su incrollabili certezze relative alla sopravvivenza dell’anima e all’esistenza di una dimensione trascendente. Per cui, mi chiedo e ti chiedo:
tu che non abbracci (e non intendi abbracciare) una simile visione della realtà, restando ancorata ad una concezione di carattere ateistico, come pensi di poter mai riuscire a condividere con tua madre lo stesso atteggiamento di fronte all’evento della morte?
Prima di rispondere, devo fare due precisazioni, una su mia madre e una su di me.
Non credo che mia madre traesse la sua forza solamente dalla fede. Lei aveva una sua “saldezza interiore” - uso le tue parole - insita nel suo carattere: una spontanea saggezza, una dolcezza, una serenità e una gentilezza d’animo innate, con cui aveva affrontato sempre ogni esperienza della sua vita: cinque figlie, una guerra, il lavoro, la casa. Quindi, il suo essere così non era solo frutto della sua fede (e, fra l’altro, non era certo una bigotta, ma amava la vita e il piacere della vita).
A riprova di quanto affermo, basterebbe notare quante persone, convintamente cattoliche e credenti, non siano poi così miti, ma, all’opposto, inquiete, pessimiste, chiuse e, sovente, anche egoiste.
Per quanto riguarda me, poi, io non mi sento di potermi definire perentoriamente atea. Sono forse agnostica, più che altro incredula, dubbiosa, ma ho, a modo mio, sviluppato, nel corso degli anni, una particolare forma di religiosità, tutta mia e personale.
Talvolta, ho pregato e, dal pregare, ho potuto trarre sollievo. Strano? Contraddittorio? Può darsi, ma è così.
E, quindi, vengo a rispondere alla tua domanda, che potrebbe sembrare quasi retorica, su come io pensi di riuscire, da non credente, a condividere con mia madre lo stesso atteggiamento di fronte alla morte, dicendo che … questa è la mia scommessa.
La mia speranza è di poter raggiungere la stessa serenità ereditando il suo modello fatto di impegno, altruismo, solidarietà e fiducia. Spero, cioè, che la mia cultura, assieme a questi valori che costituiscono il mio bagaglio etico, possano, alla fine, premiarmi!
- Trovo molto bella l’esortazione di tua madre (“Vogliatevi bene!”) di fronte alla tragedia di una figlia morta: una sorta di pragmatica risposta di sapore leopardiano-schopenhaueriano all’ineffabilità e all’inaccettabilità del Male?
Sì, è proprio così. L’esortazione “vogliatevi bene” era una sorta di pragmatica risposta alla ineffabilità del Male. Con quella frase, era quasi come se mia madre avesse voluto dire: affrettatevi ad amarvi, non indugiate, non perdete tempo, non restate inerti. Perché si muore, e si muore anche giovani. E, così dicendo, affermava, senza rendersene conto, una profonda verità: il dolore trova la sua unica cura nell’amore.
- Da quello che hai scritto e dalle cose che mi stai dicendo adesso, emerge in maniera evidente il peso che la tua formazione filosofica ha esercitato sul tuo cammino interiore e sulle tue scelte di vita.
Ma quanto ti ha potuto aiutare l’esperienza della scrittura?
Passione filosofica e scrittura sono state la mia linfa vitale. La seconda ha avuto un valore non solo liberatorio, ma anche ludico e sublimante. L’io creativo che risponde all’io biologico. La libertà alla necessità!
Così è nato questo piccolo libro, che non è affatto uno scritto sul malessere, ma, anzi, sulla vita e sulla sua bellezza. Un elogio di essa.
Ho cercato di esprimermi in forma gradevole, e, finora, ho ricevuto lusinghieri apprezzamenti.
Una cosa a cui tengo molto è sottolineare che il ricavato delle vendite sarà devoluto alla Ricerca per la lotta contro il cancro. Per cui, mi auguro che, oltre al consenso della critica, ci potrà essere anche un generoso consenso di pubblico!
*Gabriella Gagliardi, nata a Salerno, laureata a Napoli in Filosofia Morale, vive da molti anni a Roma dove ha insegnato Filosofia, Pedagogia e Psicologia nell’indirizzo sperimentale pedagogico di un Istituto Magistrale.
**Gabriella Gagliardi
N.B. Con la speranza di poter essere di aiuto a qualcuno, Gabriella Gagliardi sarà ben felice di ricevere commenti e opinioni di qualsiasi tipo:
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Siamo esseri narrativi, siamo fatti e modellati dalle storie. La scrittura ci modella dentro un immaginario. Quali sono le storie che ci abitano? E soprattutto: quali storie sono state cancellate dalla nostra storia e perché?
Risponde a queste domande la penna di Ginevra Bompiani e lo fa mossa dall’ansia tratteggiando tre figure ricorrenti: la distruzione, la punizione e la mistificazione. Tre ferite che hanno origini precise ma che non sono sempre esistite. Il fondamento di questi tre nuclei si rintraccia nelle religioni delle civiltà patriarcali indoeuropee.
Respiriamo distruzione nel nostro contemporaneo, una distruzione che parte dall'uomo e che lo coinvolge, in una vera corsa suicida. Distruggono Sodoma gli angeli sterminatori, con il diluvio solo Noè si salva, crolla Babele sotto i dettami del Dio sterminatore. La distruzione positiva crea spazio, reinventa il caso, come quando i bambini gridano “di nuovo” davanti a una novità che li entusiasma. La distruzione negativa è ripetizione, ritornello stanco di un tempo senza tempo.
La creazione biblica vede prima di tutto gli Elohim che creano due volte, “di nuovo”. Elohim è un Dio molteplice, composto di maschile e femminile, che riflette la sua natura nella creazione dell'umano che nasce maschio e femmina insieme. “Gli Elohim, creando l'uomo a loro immagine e somiglianza, lo lasciano libero. La memoria collettiva, confondendo le due origini, ha dimenticat la sua libertà”.
Peccato che la storia biblica abbia esaltato Jahvè a discapito degli Elohim. Jahvè pretende obbedienza e per ottenerla punisce.
“Il dio geloso, dotato di mani e voce, ha vinto, forse perchè l'uomo vuole sentirselo addosso, forse perchè gli permetteva di spiegare le sue pene, forse perchè gli conferiva il potere sulla donna, responsabile di tutti i suoi mali”.
La grande mistificazione si collega al titolo: l'”altra metà di Dio” è ciò che ci è stato nascosto, ovvero le civiltà che abitavano l'Europa prima dell'arrivo degli Dei patriarcali.
“Non vi è mistifcazioen più antica e durevole, più tenace e silenziosa di quella che qualche migliaio di anni fa ha sostituito il mondo pacifico ed egualitario delle società matrifocali con il patriarcato, facendo delle prime il grande rimosso della storia”.
Catal Huyuk (7400- 5400 aC) ci consegna una città evoluta senza mura difensive, persino senza porte di casa; a fondare il loro immagianario la Dea steatopigia.
Cosa ha favorito, dunque, questa rimozione, questo rimpiazzamento?
La religione e la scrittura (oltre alle armi dei conquistatori Kurgan).
“La scrittura serve a ricordare, ma anche a dimenticare”: a leggi non scritte obbedisce Antigone, a leggi scritte obbediscono i personaggi biblici e mitologici che arrivano persino a sacrificare i loro figli.
Con una scrittura evocativa e poetica, Ginevra Bompiani, ci sussurra una storia che sarebbe importante ritrovare e riscoprire nel nostro dna narrativo. Che sia una storia antica a fondare un futuro arcaico.
Ginevra Bompiani
L' altra metà di Dio
Feltrinelli 2019
La Storia avanza spedita e noi qui, il suo fugace quarto d’ora, a dissipare occasioni di evoluzione umana e civile.
Per reggere l’urto della complessificazione delle migrazioni contemporanee, Tiziana Grassi * ha avvertito la necessità di approfondirne i molteplici aspetti in un’ottica corale. Perché interpretare i profondi mutamenti socio-culturali in atto attraverso la lente ampliante del confronto tra diverse discipline e punti di osservazione, è forse l’unica via per affrontare l’insostenibile egemonia delle attuali miopie su fenomeni epocali. Da osservare con il giusto e necessario respiro e con quella visione d’insieme e a più voci che ci dice che un’altra direzione è possibile.
Scegliendo da che parte stare, ha voluto raccontare quell’Italia invisibile e reale, viva e solidale, di donne e uomini che non hanno mai smesso di essere dalla parte delle persone e dei diritti umani, di pensare universalmente, di compartecipare, di accogliere. Capace di partecipare con fermezza silenziosa alle vicende umane, è l’Italia che non si rassegna al clima d’odio e anzi coltiva la socialità rendendola pratica quotidiana nella sobrietà di gesti semplici e proattivi che includono e uniscono. Quella che, nel senso comunitario di umanità e di giustizia rivolte al bene comune, riconosce i propri fondamentali, i valori grandi ed essenziali che restituiscono all’essere umano tutta la sua centralità.
Ha voluto raccontare quell’Italia aperta all’incontro dialogante che, nella pacifica e conviviale coesistenza delle differenti identità, abbraccia la crescente complessità dei processi migratori contemporanei costruendo ponti, legami e relazioni significanti in un quotidiano spesso destinato a non ‘fare notizia’. L’orizzonte ideale e la valenza connettiva di questa comunità civile che ogni giorno genera gesti importanti di altruismo, che cresce anche tra i giovani e ci fa sperare, pervade diffusamente e a maglie strette il nostro Paese.
In questo volume si fa dunque luce sulle ombre di infondati quanto corrosivi allarmi sociali che - in attesa di una proposta di governance europea organica e lungimirante - hanno voluto far passare l’immigrazione come uno dei problemi più gravi e urgenti del Paese [...]
* Tiziana Grassi
Tiziana Grassi è nata a Taranto, vive e
lavora a Roma.
Giornalista, laureata in Lettere Moderne,
studiosa di emigrazione-immigrazione e di sociologia della comunicazione, autrice di programmi televisivi di servizio per gli Italiani all’estero a Rai International, consulente di programmi di cultura e cronaca per Rai1 e Rai2.
In tema di migrazioni e di multiculturalismo collabora con testate nazionali e internazionali. Ha svolto e svolge la propria attività professionale in ambito di didattica e ricerca in Master presso il Dipartimento di comunicazione e Ricerca Sociale, Sapienza Università di Roma; l’Università Cattolica “A. Gemelli” di Roma; la Lumsa di Roma; le Università di Teramo, Bari-Taranto, Macerata.
Per la Società Dante Alighieri, ha collaborato alla programmazione scientifica della Prima Conferenza dei Giovani Italiani nel Mondo promossa dal Ministero degli Affari Esteri (Fao, Roma 2008).
Tra i riconoscimenti per il giornalismo sociale: Premio internazionale “Globo Tricolore - Italian Women in the World all’eccellenza italiana nel Mondo” (2010); Premio internazionale “Nelson Mandela” per i diritti umani (2014); Premio internazionale “Giornalisti del Mediterraneo” (2015); Premio Internazionale “Italia Diritti Umani 2019” - Free Lance International Press (2019).
Dal 2015 è referente per la Comunicazione e la Stampa dell’INMP (Istituto Nazionale per la promozione della salute delle popolazioni Migranti e per il contrasto alle malattie della Povertà), centro di riferimento nazionale per le problematiche di assistenza sanitaria verso le popolazioni migranti e la povertà. L’ente, afferente al Ministero della Salute, è un’eccellenza riconosciuta best practice dall’OMS, Agenzia dell’ONU.
Tra le sue pubblicazioni: Dicono di Roma - 50 interviste per il terzo millennio (Palombi, Roma 2000); Noi bambini e la tv prima e dopo l’11 settembre (Stango, Roma 2002); Dicono di Taranto - Semiotica del territorio - Lontananza. Appartenenza. Percorsi (Provincia di Taranto-Ink Line, Taranto 2004); con Mario Morcellini (a cura di), La guerra negli occhi dei bambini - Le immagini televisive dei conflitti tra critica e proposta (Rai-Eri-Pellegrini, Roma-Cosenza 2005); con Catia Monacelli e Giovanna Chiarilli (a cura di) l’opera multimediale in dvd Segni e sogni dell’emigrazione - L’Italia dall’emigrazione all’immigrazione (Eurilink, Roma 2009); anatomie degli Invisibili. Precari nel lavoro, precari nella vita (Nemapress, Alghero 2012); Taranto. Oltre la notte (Progedit, Bari 2013); eu-Calendario solidale L’Aquila+Taranto. Insieme oltre la notte (L’Aquila, 2013); Dizionario Enciclopedico delle Migrazioni Italiane nel Mondo, progetto e co/curatela (SER ItaliAteneo-Fondazione Migrantes, Roma 2014.
Questo lo scenario descritto ieri sera a Mussomeli durante la presentazione del libro “La mafia dei pascoli” da Giuseppe Antoci, sopravvissuto fortunosamente all’attentato avvenuto in territorio dei Nebrodi, la notte fra il 17 e il 18 maggio 2016: un affare da 5 miliardi di euro perpetrato ai danni della Comunità Europea con il tacito consenso delle Istituzioni regionali.
In un clima di intimidazioni e vessazioni che umiliava i contadini onesti impedendogli di partecipare ai bandi pubblici, pena la condanna per “Lesa Maestà”, si è creato quel fertile humus in grado di alimentare la fonte principale di sostentamento della mafia in Sicilia, l’Agricoltura.
Basti pensare che la latitanza di Messina Denaro si è mantenuta proprio “grazie” ai fondi europei per l’agricoltura.
A partecipare ai bandi in un territorio molto esteso, capace di includere anche più province, sempre e solo un’azienda, con incremento di 1- 1,50 euro al massimo per asta.
Ad ogni bando veniva costituita una nuova società sempre con infiltrazioni mafiose dove affitti che normalmente rendono 36- 36,40 euro compreso IVA ad ettaro riuscivano a lucrare anche 1.300 euro adottando lo stratagemma di applicare più misure con una sola particella.
Contratti medi da 5 a 9 anni per una stima di 7/8 milioni di euro ad affare.
Cercando anche di contenersi per “non dare all’occhio”!
I cognomi sempre gli stessi: Riina, Madonia, Ercolano, Santapaola, Gallino, Pesce, … colleghi fuori isola compresi, che, sempre “grazie” alla Legge dello Stato sugli appalti, POTEVANO partecipare ai bandi con certificato antimafia autocertificato, una procedura di evidentissima semplicità.
E così, con i fondi europei destinati ed erogati per l’agricoltura, si mantiene Cosa Nostra e si alimentano i mercati illeciti…e qualora qualche mafioso dovesse, per fortuite circostanze, trovarsi a scontare qualche debito di giustizia, ecco i figli sfrecciare in paese con le loro Jeep di lusso a rimarcare un potere che non si sconfigge.
Ma il bando civetta di Giuseppe Antoci, uscito proprio 5 giorni prima dell’approvazione del Protocollo, a stessa firma, che impone alle aziende la presentazione del certificato antimafia rilasciato dalla Prefettura, ha scoperchiato un calderone pericoloso e incandescente…perché, come riferisce, “in italiano puro”, il Giornalista Nuccio Anselmo, coautore del libro, con le sue spiccate doti di cronista: “La mafia si scatena quando vai a toccare la sacchetta”.
E da quel momento la reazione è stata spietata.
Intimidazioni in tipico stile mafioso sfociate poi la notte del 17 maggio in quel tentato attentato che è stato e continua ad essere motivo di dibattito non solo nazionale, (del caso Antoci ha parlato anche la più importante emittente televisiva cinese) peraltro anche controverso, viste le incongruenze e le divergenze fra gli organi preposti a Fare Giustizia.
Perché, di fatto, ancora Giustizia non è stata fatta…e, su quel teatrino fatto di mashere e “mascariamenti”, paradossi e recite a soggetto, ancora ci si chiede quale, fra le tre opzioni, proposte dall’Antimafia sia la più plausibile!
Perché in questa terra la mistificazione la fa da padrona e così chi fa agisce nell’ambito della legalità è un “cornuto” (così, almeno, veniva definito Antoci dai mafiosi nelle loro comunicazioni intercettate) e chi vive nell’ inganno e nel sopruso ci appare come paladino del bene.
E’ quello status quo che, ad un anziano signore, con in mano il bastone da pastore, fa rispondere alle domande provocatorie di un giornalista: “Ma signor mio siamo nella pace e ci dobbiamo mettere nelle guerra”?
“Il giuoco delle parti”… Pirandello docet!
Intanto le indagini sono state archiviate, senza assicurare alcun colpevole alla Giustizia, senza “risarcire” gli uomini della scorta né tantomeno Antoci che rivendica la perdita della propria libertà e che, alla sottesa domanda: “Ma cosa ne pensa della relazione conclusiva dell’Antimafia?”, secco, risponde: “Mi sarei aspettato che l’Antimafia si occupasse delle collusioni e delle connivenze, di tutti quei funzionari regionali che, nel visionare pratiche riportanti certi “cognomi illustri” quantomeno accennassero a un sospetto, piuttosto che mettersi a discutere su dei particolari che, a suo modo, inquinassero la scena del mancato crimine”!
E quello che, per l’efferatezza e il modus operandi è stato paragonato agli eventi stragisti del 92/93 , rimane comunque un caso irrisolto.
Il debito di giustizia non vale solo per i morti!
Non solo i morti sono eroi ma anche quanti hanno fatto e continuano a fare per una terra che, indubbiamente, non è solo Cosa Nostra.
E Cosa Nostra qualche volta perde, lo provano i 14 arresti scattati immediatamente dopo l’applicazione del Protocollo, un Protocollo di legalità adottato ad oggi in tutto il Paese.
“Ai miei tempi sono stata chiamata in molti modi: sorella, amante, sacerdotessa, maga, regina. Ora, in verità, sono una maga e forse verrà un giorno in cui queste cose dovranno essere conosciute...” con queste parole la scrittrice Zimmer Bradley ci presenta Morgana, antagonista degli “eroi solari” Artù, Ginevra e Merlino.
È dall'albero genealogico di Morgana che le autrici fanno emergere dieci ritratti di donne. “Strane, difficili, non convenzionali e persino stronze... un seme che passa di mano in mano e arriva a chiunque, maschio o femmina, voglia vivere senza dover giustificare l'unicità della propria storia”
Ci sono storie solari che ci trasmettono messaggi “puliti”, e ci sono eroine torbide, confuse, che sono controcorrente per il solo fatto di aver scelto e perseguito la via della propria unicità.
Il libro prende origine dal podcast https://storielibere.fm/morgana: è un progetto è importante e mai scontato: riscoprire il valore della biografia, quando la storia narrata e la vita si intrecciano per creare un valore intrinseco.
Vite distanti, nel tempo e nella realizzazione, come le prime due storie: quella di Caterina da Siena e quella di Moana Pozzi: due figure visionarie.
Visioni interiori sono quelle di Caterina da Siena che sfida i dettami dell'epoca che l'avrebbe inchiodata al ruolo di moglie sottomessa, e grazie alla castità, fa del suo corpo “il teatro costante del dialogo con Cristo” (p. 41). Caterina arriverà persino ad essere la consigliera del Papa, potrà viaggiare, altro atto per sé rivoluzionario.
Moana Pozzi, che apre il libro, fa del suo corpo una liturgia perfetta, si offre alla visione altrui, mantenendo protetta la sua vita privata fino alla fine: un'esteriorità costruita alla perfezione in un'interiorità fatta di ricerca e spiritualità.
Dal cinema alla religione, il progetto Morgana ingloba poi le sorelle Bronte, “pioniere sventurate” (p. 78), che hanno ribaltato la loro infanzia difficile attraverso la scrittura: le loro opere, presentate in principio sotto lo pseudonimo maschile dei fratelli Bell, faranno la storia della letteratura, ognuna con uno stile differente.
Segue la storia di Moira Orfei, regina brilante del tendone che nessuno riuscirà mai a domare.
Morgana ingloba poi figure meno note come Tonya Harding, la prima donna a fare un triplo axel sui pattini, ma per l'estetica e per i suoi costumi è stata sempre penalizzata. Ad essere da esempio è anche il suo coraggio di moglie soggetta a soprusi.
Shirley Temple, angelo biondo dell’America, dovrà confrontarsi con il tempo che scorre che, da bambina, la trasforma in donna. Quando le cineprese si spegneranno, sarà l'attivismo a contraddistingerla, come deputata e ambasciatrice.
Marina Abramović, artista unica, ha messo al centro il corpo, i suoi limiti, i suoi simbolismi. Si è spinta oltre, nella carne e nell'arte.
Dieci vite che aprono spiragli di rivoluzione, biografie che mettono al centro l'autenticità con se stessi.
Michela Murgia e Chiara Tagliaferri
MORGANA: storie di ragazze che tua madre non approverebbe
Mondadori 2019
Con la pubblicazione di Due secoli di fantasmi. Case infestate, tavoli giranti, apparizioni, spiritisti, magnetizzatori e medium, di Simona Cigliana*, le Edizioni Mediterranee ci permettono di riappropriarci di un’opera decisamente fuori dal comune, precedentemente apparsa una decina di anni fa per l’ Editore Fazi, e presto esaurita e divenuta pressoché introvabile. Il volume, che incontrò, all’epoca, un buon successo anche a livello di critica qualificata e attenta, nell’ambito dei maggiori quotidiani, settimanali e riviste, è stato felicemente ampliato e aggiornato e dotato di una nuova veste scientifica arricchita da una preziosa bibliografia.
Va subito precisato che titolo e soprattutto sottotitolo potrebbero risultare fuorvianti, dando l’impressione di trovarci di fronte ad una mera rassegna di curiosità paranormali, ovvero ad una sorta di passeggiata panoramica nel campo delle varie fenomenologie relative a quello che potremmo definire il “mondo dell’Occulto”. Ebbene, nulla di più sbagliato. Con il volume di Simona Cigliana, siamo di fronte ai risultati di una imponente ricerca condotta in vari settori del sapere, volta a presentarci, in maniera scrupolosamente documentata, “un lato della storia della cultura rimasto in ombra, su cui nessun manuale si sofferma”, e desiderosa di farci comprendere quanto la cultura occidentale, soprattutto del XIX secolo e della prima metà del XX secolo, sia stata impregnata di “spiritismo, occultismo ed esoterismo, con il loro corredo di spiritualità alternative”, e quanti e quali siano state le significative e assai proficue occasioni di interazione con tale multiforme sfera di interessi teorici e pratici.
L’opera si prefigge, innanzitutto, di dimostrare che il cosiddetto mondo dell’Occulto non dovrebbe essere relegato con sprezzante alterigia nello scantinato delle cose buffe, stravaganti e insulse prodotte dalle morbosità della fantasia umana, bensì considerato come un ingrediente tutt’altro che trascurabile della cultura contemporanea. E che di conseguenza, quindi, meriterebbe di essere studiato e indagato senza pregiudizi, e non trattato sbrigativamente come qualcosa di affine alla superstizione, al fanatismo, alla truffa, intendendolo e adoperandolo, anzi, come indispensabile strumento interpretativo.
Questo perché, qualora volessimo intestardirci a ritenere di poter prescindere dalle chiavi di lettura offerte dalla immensa letteratura magico-spiritistica, teosofico-antroposofica, esoterico-orientalistica fiorita nella cosiddetta età del Decadentismo, ben poco sarebbe possibile adeguatamente comprendere delle esplorazioni culturali, delle creazioni rivoluzionarie, nonché delle innovative scoperte scientifiche dei vari V. Kandinsky, E. Munch, P. Mondrian, A. Schonberg, W. B. Yeats, W. Crookes, C. Flammarion, H. Bergson, ecc …
E per poter fare tutto ciò, il mondo dell’Occulto, rappresentando una realtà sterminata e assai variegata, dai contorni alquanto sfuggenti e indeterminati, non certamente riducibile a qualche tavolino traballante, andrebbe considerato, a tutti gli effetti, degno di accurata indagine storico-culturale condotta con il necessario rigore critico.
Cosa questa che, per poter essere effettuata, liberati dai prevedibili pregiudizi e dalle logore etichette, richiederebbe pazienza, impegno e grandi quantità di tempo. Basti pensare, tanto per fare solo qualche riferimento di particolare rilievo, alla vastità e alla complessità di opere abissali come l’Iside Svelata o la Dottrina segreta di Helena Petrovna Blavatsky, alla monumentale pluritematica produzione steineriana, alla sconfinata ricerca di Ernesto Bozzano nell’ambito della fenomenologia del cosiddetto paranormale. Ma, accanto ai colossi menzionati, non andrebbero certo ignorate o trascurate le varie forme di filosofia esoterica e occultistica, nonché le varie sperimentazioni e indagini di natura spiritistica e metapsichica che hanno dato vita ad un vero e proprio oceano di riviste, libri, libroni e libretti avidamente divorati da molte fra le massime figure della cultura dell’epoca (soprattutto nell’ambito delle numerose avanguardie). Riviste, libri, libroni e libretti, quindi, che, indipendentemente dai loro (non pochi) pregi e dai loro (indubbi) limiti, avendo costituito un immenso e ribollente serbatoio di ispirazioni e sollecitazioni, non potrebbero dover essere ignorati, ma anzi andrebbero ritenuti indispensabili per riuscire davvero a penetrare all’interno delle coordinate etiche, psicologiche e speculative di tutti coloro che se ne sono avvalsi, spesso dando vita a sperimentazioni artistiche, a sincretismi, a ibridazioni e contaminazioni filosofico-scientifiche e filosofico-religiose, capaci di promuovere uno straordinario rinnovamento radicale dell’intero panorama culturale contemporaneo.
E così, la Cigliana ci guida (anzi ci trascina!) in un rutilante viaggio all’interno di angoli della nostra storia quasi del tutto ignorati o trascurati, dalle vicende delle sorelle Fox alla vita avventurosa di Franz Anton Mesmer, dalla figura eccezionale di Daniel Dunglas Home alle ricerche di William Crookes e alla sua enigmatica Katie King, da Conan Doyle ad Eusapia Palladino. Particolarmente densi e interessanti, poi, il capitolo dedicato alle tesi reincarnazionistiche di Giuseppe Mazzini e quello dedicato alla presenza della dimensione del soprasensibile all’interno della letteratura e delle arti figurative di fine Ottocento e di inizio Novecento.
In definitiva, il libro di Simona Cigliana non può che essere considerato, senza alcuna esitazione, un libro felicemente riuscito. Perché si tratta di un’opera che riesce ad assemblare con ariosa padronanza una mole vastissima di informazioni, sempre documentate in maniera puntigliosamente accurata, risultando sempre in grado di alimentare suggestive curiosità conoscitive. E perché riesce, inoltre, ad accalappiare l’attenzione e l’interesse sia di lettori mediamente preparati in ambito storico-culturale, pur se del tutto (o quasi) ignari nel campo dell’”occulto”, sia di lettori di solida preparazione nell’uno e nell’altro campo. Perché, infine, si tratta di un libro scritto con vena instancabilmente briosa e zampillante, con prosa nitida e controllata; di un libro ponderato e incisivo sotto il profilo intellettuale, avvincente, dalla prima all’ultima pagina, come una grande, imprevedibile, entusiasmante avventura.
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Simona Cigliana ha insegnato Letteratura Italiana, Critica Militante e Letterature Europee Comparate alla “Sapienza” di Roma e in altre Università italiane ed europee. È autrice, in Italia e all’estero, di numerosi studi scientifici su Luigi Capuana, Giovanni Verga, Luigi Pirandello, Massimo Bontempelli, Filippo Tommaso Marinetti e diversi autori otto-novecenteschi. Tra le sue pubblicazioni, relativamente all’ambito dei rapporti tra occultismo, spiritualismo e storia delle avanguardie, ricordiamo: Futurismo esoterico. Contributi per una storia dell’irrazionalismo italiano tra Otto e Novecento (Napoli, Liguori, 2002); La seduta spiritica. Dove si racconta come e perché i fantasmi hanno invaso la modernità (Roma, Fazi, 2007); “Il fantasma senza spirito. Storie di apparizioni, spettri ed ectoplasmi da Mesmer a Baudrillard (passando per Marx)”, in Ritorni spettrali. Storie e teorie della spettralità senza fantasmi (Bologna, Il Mulino, 2018).
Editore: Edizioni Mediterranee
Anno edizione: 2018
128 mila partenze nell’ultimo anno. Quasi 5,3 milioni di residenti all’estero
È stata presentata a Roma la XIV edizione del “Rapporto Italiani nel Mondo” della Fondazione Migrantes. Con il contribuito di circa 70 studiosi italiani e non, la mobilità dall’Italia e nell’Italia è analizzata partendo dai dati quantitativi (socio-statistici). L’approfondimento di questa edizione è stato dedicato alla percezione delle comunità italiane nel mondo: “Quando brutti, sporchi e cattivi erano gli italiani: dai pregiudizi all’amore per il made in Italy”. Il Rapporto Italiani nel Mondo riflette cioè sulla percezione e sulla conseguente creazione di stereotipi e pregiudizi rispetto al migrante italiano. Il fare memoria di sé diventa quindi occasione per meglio comprendere chi siamo oggi e chi vogliamo essere.
Quasi 5,3 milioni di residenti oltre confine (dati Aire 1.1.2019)
Su un totale di oltre 60 milioni di cittadini residenti in Italia a gennaio 2019, alla stessa data l’8,8% è residente all’estero. In termini assoluti, gli iscritti all’AIRE, aggiornati al 1° gennaio 2019, sono 5.288.281.
Dal 2006 al 2019 la mobilità italiana è aumentata del +70,2% passando, in valore assoluto, da poco più di 3,1 milioni di iscritti all’AIRE a quasi 5,3 milioni.
Quasi la metà degli italiani iscritti all’AIRE è originaria del Meridione d’Italia (48,9%, di cui il 32,0% Sud e il 16,9% Isole); il 35,5% proviene dal Nord (il 18,0% dal Nord-Ovest e il 17,5% dal Nord-Est) e il 15,6% dal Centro.
Oltre 2,8 milioni (54,3%) risiedono in Europa, oltre 2,1 milioni (40,2%) in America. Nello specifico, però, sono l’Unione Europea (41,6%) e l’America Centro-Meridionale (32,4%) le due aree continentali maggiormente interessate dalla presenza dei residenti italiani. Le comunità più consistenti si trovano, nell’ordine, in Argentina (quasi 843 mila), in Germania (poco più di 764 mila), in Svizzera (623 mila), in Brasile (447 mila), in Francia (422 mila), nel Regno Unito (327 mila) e negli Stati Uniti d’America (272 mila).
Oltre 128 mila iscritti all’AIRE per espatrio nell’ultimo anno: da 107 province e verso 195 destinazioni diverse nel mondo
Da gennaio a dicembre 2018 si sono iscritti all’AIRE 242.353 italiani di cui il 53,1% (pari a 128.583) per espatrio. L’attuale mobilità italiana continua a interessare prevalentemente i giovani (18-34 anni, 40,6%) e i giovani adulti (35-49 anni, 24,3%). Il 71,2 è in Europa e il 21,5% in America (il 14,2% in America Latina). Sono 195 le destinazioni di tutti i continenti. Il Regno Unito, con oltre 20 mila iscrizioni, risulta essere la prima meta prescelta nell’ultimo anno (+11,1% rispetto all’anno precedente). Al secondo posto, con 18.385 connazionali, vi è la Germania. A seguire la Francia (14.016), il Brasile (11.663), la Svizzera (10.265) e la Spagna (7.529).
Le partenze nell’ultimo anno hanno riguardato 107 province italiane. Con 22.803 partenze continua il solido “primato” della Lombardia, seguita dal Veneto (13.329), dalla Sicilia (12.127), dal Lazio (10.171) e dal Piemonte (9.702).
Il Rapporto Italiani nel Mondo 2019, attraverso analisi sociologiche e linguistiche, aneddoti e storie fa riferimento al tempo in cui erano gli italiani ad essere discriminati, risvegliando “il ricordo di un passato ingiusto – spiega il testo - non per avere una rivalsa sui migranti di oggi che abitano strutturalmente i nostri territori o arrivano sulle nostre coste, ma per ravvivare la responsabilità di essere sempre dalla parte giusta come uomini e donne innanzitutto, nel rispetto di quel diritto alla vita (e, aggiungiamo, a una vita felice) che è intrinsecamente, profondamente, indubbiamente laico”. Si tratta dunque di “scegliere non solo da che parte stare, ma anche che tipo di persone vogliamo essere e in che tipo di società vogliamo vivere noi e far vivere i nostri figli, le nuove generazioni”. La Fondazione Migrantes auspica che questo studio possa “aiutare al rispetto della diversità e di chi, italiano o cittadino del mondo, si trova a vivere in un Paese diverso da quello in cui è nato”.
Le partenze degli italiani nell’ultimo anno: da dove
Rapporto Italiani nel Mondo 2019
Le partenze degli italiani nell’ultimo anno:
verso dove
Elogiare l'imperfezione significa porsi in un ottica di libertà, soprattutto se questo riguarda un ruolo primordiale come quello materno, dove troppo spesso consigli mascherati da regole tendono a sclerotizzare un ruolo fluido e liquido come quello della madre.
“Im-perfetto è il divenire, il perfetto è lo stare”, se il perfetto e statico , l'imperfetto è movimento e presuppone il non compiuto e un'apertura al respiro del cambiamento.
Oltre a partorire il figlio, la madre partorisce se stessa e si ricollega ad una conoscenza antica, globale nel corpo, ma personale nell’ esperienza e nelle sue declinazioni.
Una scintilla divina sboccia nella creazione di un “altro” da sé, e questa esperienza apre punti interrogativi scomodi che spesso cozzano contro le 3 N di “normale”, “ naturale”, “necessario” facendole diventare lettere minuscole e aperte a più interpretazioni derivate dall'esistenza e dai bisogni.
L'autrice, cofondatrice del progetto educativo dell'Asilo nel Bosco di Ostia antica, madre e maestra, alterna alle riflessioni sul tema alcune avventure personali divertenti e mai scontate, tese a dimostrare come sia necessario un recupero dell'intuizione, delle soluzioni originali, ma anche di un pizzico di ironia e di un ascolto profondo per riuscire a destreggiarsi tra le difficoltà quotidiane.
Cosa ci serve realmente? È la domanda da porsi spesso prima di accogliere una vita (e anche dopo): culle, passeggini, biberon… “ la nostra è una cultura del distacco e della ricerca dell’ autonomia precoce e (quindi) forzata”. Benvenga dunque questo ritorno al naturale processo della nascita e al ruolo così decisivo delle levatrici, delle ostetriche, capaci di far emergere la vita, dando fiducia all'innata capacità del corpo di adempiere a questo scopo.
Purtroppo impera il bisogno di giustificarsi davanti ai diktat della perfezione, quindi perchè non crearsi anche un decalogo per la donna imperfetta? E se le ultime pagine lasciano spazio alle lettrici, il capitolo precedente sciorina con ironia una serie di situazioni d'imperfezione che rendono il ruolo materno dinamico, fluido e originale, proprio come è la vita.
Giordana Ronci
Manifesto della mamma imperfetta
Edizioni Tlon 2017
Il romanzo “Nessuna come lei” di Marco Balbina, edito dalla Nemapress diretta da Neria de Giovanni, affronta, con una vicenda articolata e ricca di personaggi, uno dei periodi più travagliati della storia italiana del novecento: gli anni settanta. Sebbene travagliati da una forte contrapposizione politico-ideologica, gli anni “dell’immaginazione al potere”, sfociati nell’età del terrorismo brigatista e della stragi neo-fasciste, sono stati, a parte qualche eccezione, soprattutto cinematografica, molto sbrigativamente accantonati, quasi che la scia di sangue che essi produssero costituisse una barriera insuperabile alla loro distaccata narrazione. Nel romanzo di Balbina, quegli anni, sono analizzati a partire dall’attualità, perché la storia di Tista Muleddu e di Paolina Arquer, protagonisti di una drammatica storia d’amore lunga più di quarant’anni, inizia in una Alghero contemporanea, per poi trasferirsi, con un flashback che occupa la parte centrale del racconto, nella Cagliari di Gigi Riva e nella Portotorres della SIR di Nino Rovelli, in una Sardegna in grande trasformazione economica e sociale, che può essere presa come paradigma della trasformazione in atto anche nel resto del paese. La tecnica analessica del raccontare a ritroso, consente, in particolare, all’autore, di mettere in relazione una epoca così rivoluzionaria e ricca di tensione trasformatrice, con quella attuale, caratterizzata da un incipiente disincanto e da un forte riflusso politico.
All’autore…..ha posto alcune domande:
-Balbina, quali ragioni l’hanno spinta a scrivere un romanzo sugli anni dell’immaginazione al potere? –
-In primis, per una esigenza personale: il bisogno di un bilancio, di una ricapitolazione della propria vicenda umana, ma anche della convinzione che niente è davvero personale, che anche il personale è politico, come si diceva un tempo. Vorrei precisare, comunque, che nel romanzo non c’è nessuna intenzione apologetica né tanto meno nostalgica: c’è solo il tentativo di analizzare un periodo fondamentale della nostra storia, e capire dove siamo arrivati oggi, anche perché, a mio avviso, dal punto di vista sociologico e letterario, la generazione degli anni settanta non è stata sufficientemente indagata –
-La Sardegna narrata nel suo romanzo appare una regione in grande trasformazione sia economica che sociale –
-A partire dagli anni sessanta, la Sardegna è attraversata da un insieme di fattori progressivi, sia economici che sociali, che la trasformano nel profondo, che la veicolano verso la contemporaneità, forse per la prima volta nella sua storia. Sono gli anni del Piano di Rinascita, dell’industrializzazione basata sulla chimica, dell’ingresso dell’isola nel mercato turistico internazionale con la Costa Smeralda, del grande successo sportivo del Cagliari di Gigi Riva, che conquista lo scudetto e, da squadra di provincia di una terra emarginata, diventa la rappresentante del calcio italiano nella Coppa dei Campioni. Un evento che oggi può apparire quasi banale; ma che all’epoca ebbe uno straordinario impatto politico e sociale, se è vero che, persino il grande Emilio Lussu, paragonò quella strabiliante vittoria all’epopea della sua Brigata Sassari -
-In questo scenario dinamico i personaggi si muovono come protagonisti di storie che non rimandano più allo stereotipo della tipica narrazione sarda legata alle zone interne, ma si fanno portatori di esigenze e di bisogni universali, tipici della modernità –
sentire anche in Sardegna, trasformando definitivamente lo stile di vita dei sardi, che da “esclusivista” divenne sempre più un “misturo”, come ebbe a dire, successivamente, il grande Sergio Atzeni. Da quel momento la Sardegna diventerà sempre più uno sfondo, e, in primo piano, saliranno i personaggi del nuovo corso storico, che vivranno storie del tutto simili a quelle vissute nel resto del paese e del mondo. Caduta la cerniera di isolamento, allentata la camicia di forza identitaria, i sardi diventano i Tista e le Paoline del mio romanzo. Qualcuno ha gridato al disastro per questa perdita dell’antica identità, io credo, al contrario, che abbia avuto elementi di grande positività –Credo che proprio a partire dagli anni settanta, preparati dal decisivo evento del “Sessantotto”, l’impatto di quella che Pasolini chiamò nei suoi Scritti Corsari “mutazione antropologica”, si fece
-Ci può descrivere meglio i personaggi del suo romanzo? –
-Tista è il personaggio principale, insieme a Paolina. Tista è un giovane perito chimico cagliaritano, appartenente al Movimento studentesco, romantico idealista convinto nella virtù terapeutica della rivoluzione, che appena diplomato, decide in andare a lavorare in fabbrica. All’epoca la fabbrica era vista, specie dai militanti di sinistra, come l’avamposto rivoluzionario, l’orlo di un vulcano pronto a esplodere e liberare la società dal giogo capitalista. Ovviamente, le cose non stavano così. Tista, suo malgrado, assiste al fallimento del petrolchimico di Rovelli, affogato in un mare di debiti, e anche delle sue idee rivoluzionarie, e decide di licenziarsi, di cambiare vita, diventando, negli anni seguenti, addirittura un affermato imprenditore, ed è così che lo incontriamo all’inizio del romanzo. Ma in realtà, anche nella sua “seconda vita”, non perderà mai la voglia di lottare contro i soprusi e le disuguaglianze sociali. Una lunga e travagliata storia d’amore lo legherà a Paolina Arquer, giovane e brillante femminista, rampolla di un’antica famiglia nobile cagliaritana, che attraverserà tutto il romanzo, con un finale drammatico che preferirei non rivelare. Paolina fa parte del Collettivo femminista di Via Donizetti 52, che è stato realmente il primo collettivo femminista cagliaritano e, uno dei primi, in Italia. Essa rappresenta l’espressione della possibile libertà della donna, che da quel momento, diventa un vero soggetto politico, organizzato in movimento e in collettivi, che lotta separatamente dall’uomo per la liberazione complessiva della società. Vi sono anche altre importanti figure nel romanzo, da Antonio Contini a Rino Polcani, da Sandro Portas a Greta, che danno il senso del cambiamento avvenuto e di una esistenza vissuta senza più le antiche intermediazioni familiari e sociali–
-Ci sono tratti biografici nei personaggi del romanzo?-
-In parte. Mi sono diplomato Perito Chimico al “Michele Giua” di Cagliari a metà degli anni settanta, quindi ho vissuto in pieno il miraggio dell’industrializzazione, che aveva coinvolto tanti giovani come me nel sogno della chimica isolana. Il mio Istituto, inoltre, era ubicato anch’esso in Via Donizetti, qualche centinaio di metri dopo il Collettivo Femminista. Noi sapevano che lì dentro c‘erano donne “diverse” dalle altre e, perciò, sghignazzavamo alla loro vista, come potevano fare dei giovinastri immaturi, senza minimamente comprendere che quelle donne stavano scrivendo la storia del femminismo in Sardegna. Ho anche una storia calcistica che mi lega al Cagliari calcio: nell’anno dello scudetto vengo acquistato dalla società, e milito nel settore giovanile fino alla De Martino, le riserve della Serie A, quindi vivo dall’interno la grande epopea sportiva di quegli anni. Sicuramente, le mie esperienze personali, hanno influito nell’economia complessiva della storia, sebbene i personaggi siano frutto esclusivo della mia immaginazione –
-Ci può dire in due parole perché il suo libro dovrebbero essere letto, soprattutto dai giovani? –
-Credo che in questi anni sia mancato il giusto approccio storico alla società attuale. Siamo dominati quasi esclusivamente da necessità economiche, e stiamo tralasciando molte altre prospettive che aprirebbero squarci interessanti per comprendere il presente. Anche ai più giovani. Il romanzo, per la sua assoluta vocazione sociale – un romanzo che non descrivesse, oltre la trama, anche la società nella quale si muovono i personaggi, non sarebbe tale – può essere un utile strumento di riflessione, senz’altro di più facile lettura rispetto a un saggio specialistico o a una noiosa ricerca statistica -
Cinquanta filastrocche chieste dai grandi per i bambini che hanno accanto, o dentro
Bruno Tognolini, è un poliedrico scrittore per l'infanzia, dopo aver lavorato nel mondo del Teatro ( con Vacis, Paolini, Baliani), è autore di alcune puntate di programmi televisivi (come l' Albero Azzurro e Melevisione). Nel 2007, ha ottenuto il premio Andersen come miglior scrittore italiano per ragazzi.
Torna in libreria l'autore di “Rima Rimani”, di “Rime di rabbia” e di “Rime Raminghe”, torna con una raccolta che stavolta si accompagna alla parola "Rimedio".
Sono una medicina queste rime, sembrano un po' il miele che circonda lo sciroppo dal sapore cattivo, per aiutarci a tirarlo giù, senza storcere troppo il naso.
E grazie alla rima giocosa l'autore prende posizione contro i dis- che etichettano la diversità, per far comprendere ai bambini la separazione dei genitori, per aiutarli a mangiare, per accettare i “Sentimenti neri”.
Alcune rime sono impregnate di filosofia, come “La rima del domani”, o la “Rima della crescita profonda”, e ogni volta che le rileggi si accendono di nuovi scorci di significato; alcune rime si pongono su una divertente ottica didattica come le rime per insegnare il valore del riciclo di plastica, ferro, carta o cibo.
Un libro che sempre sottolinea la centralità e la complessità dell'infanzia, anche nella dimensione adulta, narrando di tutti i suoi attori: bambini, maestre, genitori, nonni... offrendo nuovi occhi e punti di vista, come nella “Rima del bambino trasparente”, o nella “Rima del diritto a non farcela”.
Ci sono musica, poesia, gioco, creatività nelle rime di Tognolini, e grazie a questi ingredienti riesce a dire cose difficili, a dare consigli indiretti, a indicare la via del rispetto e dell'unicità di ogni persona.
"Quasi tutte queste rime sono state scritte per qualcuno che le ha chieste" -commenta l'autore alla fine del libro - alcune richieste sono pervenute dai social, per salutare una bibliotecaria in pensione, da progetti abbandonati, da improvvise urgenze creative.
“La poesia vive proprio solo quando contiene altro da ciò che voleva dire. Le poesie possono essere medicamenti, o perlomeno lenimenti, lo son sempre state. Ma sempre solo in forme incerte, sibilline”.
Un libro da tenere, da regalare, da leggere ad alta voce, da rileggere, da ricercare e ritrovare dopo anni. Parole che educano, etimologicamente, ovvero “conducono fuori”, verso mondi da esplorare, verso altri punti di vista da cui osservare il presente.
Rime Rimedio - Bruno Tognolini
Cinquanta filastrocche chieste dai grandi per i bambini che hanno accanto, o dentro
Salani 2019
Maga, incantatrice, trasformatrice di uomini in bestie: solo questo rimane di Circe, personaggio complesso ed evocativo, erede della potnia theròn, Signora degli animali.
Madelaine Miller prova a ri-narrare il mito, dando un passato e nuove dimensioni a questo personaggio. Un esperimento riuscito, visto che il libro ha scalato le classifiche dei libri più venduti del New York Times e del Sunday Times, avvalendosi dell'appellativo di “Libro dell'anno”.
Circe viene raccontata a partire dalla sua infanzia solitaria, dal suo rapporto freddo e distante con il padre, il titano Elios, il Sole, e con la madre Perseide, l'evanescente e fluida ninfa delle acque. Nasce con voce stridula Circe, nasce già “difettosa” rispetto alla perfezione dei fratelli, Eete e Pasifae.
“La sua voce è stridula come quella di una civetta. La chiamano Sparviera, ma dovrebbero chiamarla Capra per quanto è brutta”.
L'episodio fondante della sua infanzia è l'incontro con Prometeo, già incatenato e condannato da tutti gli Dei per aver aiutato la specie umana; Circe trasgredisce di nascosto l'ordine divino e aiuta il titano portandogli dell'ambrosia. Le poche parole che scambia con il Dio saranno un faro nella sua vita e l'inizio della sua vicinanza con i mortali.
Si innamora di un mortale, Glauco il pescatore, e per lui intercede spesso. È grazie a questo amore (non corrisposto) che la Dea scoprirà i suoi poteri con le erbe, e riuscirà a dare a Glauco l'immortalità. Ma l'altra faccia della medaglia vede Circe fare i conti anche con la sua gelosia, quando Glauco sceglierà la bella Scilla. E la Dea ricorrerà di nuovo ai suoi poteri, stavolta, per fare del male: Scilla verrà trasformata in un mostro divoratrice di marinai.
Una trasformazione che mette in allarme di Dei: un potere nuovo è quello di Circe, una forza che nasce dall'unione di erbe, canti e parole antiche, una capacità finora sconosciuta, un potere in grado di restituire a chi lo riceve la sua vera natura. Un potere pericoloso, dunque, che va recintato e tenuto a bada.
Ed è per questo che Circe viene relegata in esilio sull'isola di Eea , un'isola selvaggia dove approdano per sbaglio solo navi di marinai. Gli stessi marinai che, davanti ad una donna sola, le faranno violenza, e da questa violenza Circe trarrà la forza per diventare quella che è: la Dea degli animali e degli incantesimi.
Ha per compagnia una leonessa, e i marinai appena giunti vengono tutti trasformati in porci, in via preventiva, e a causa della cicatrice non rimarginata.
Circe scoprirà l'erba che protegge, il Moly dalle radici nere e dal fiore bianco.
Solo Odisseo non verrà trasformato e con lui Circe ritrova fiducia negli uomini, pur sapendo che una moglie lo aspetta a casa.
Dal loro amore nasce Telegono, che Circe proteggerà nell'isola finché le sarà possibile, finché il figlio non vorrà andare incontro a se stesso, ad incontrare il padre.
Il finale del libro mostra una Circe capace di perdonare e perdonarsi, una Circe che apre il suo mondo a Penelope e al figlio di Odisseo, Telemaco, mentre sarà Telegono il prescelto da Atena per fondare una nuova stirpe.
Una ri-narrazione che dà corpo e sostanza a una figura antica: perché in Circe, come spiega Momolina Marconi nel libro “Da Circe a Morgana” confluiscono le Dee antiche degli animali che nel centro Italia prenderanno il nome di Feronia, Marica, Fauna, Angizia.
Una Dea che per scoprire la sua potenza, deve impegnarsi in un apprendistato continuo a contatto con le erbe e con le sue cicatrici.
“La magia deve essere creata e plasmata;pianificata e investigata, estratta,essiccata,sminuzzata e macinata, bollita, evocata con parole recitate e cantate. E ancora; può fallire. Se le mie erbe non sono abbastanza fresche, se la mia attenzione cala, se la mia volontà' vacilla,le pozioni evaporano e inacidiscono nelle mie mani.
Ogni erba deve essere trovata nel suo ricettacolo, raccolta nel momento giusto, liberata dalla terra; selezionata e mondata,lavata e preparata. Giorno dopo giorno, con pazienza, bisogna scartare gli errori e ricominciare da capo”.
MADELAINE MILLER - CIRCE
SONZOGNO 2019
Pioniere nell’ambito delle scienze cognitive e dell’educazione, Howard Gardner è ricordato soprattutto per aver messo in crisi il concetto monolitico di intelligenza grazie alla sua teoria delle intelligenze multiple che ha dato un apporto importante alla didattica inclusiva.
In questo saggio l' autore prosegue la strada di approfondimento delle intelligenze andando ad indagare quali tipi di strategie cognitive sono necessarie per il futuro (un futuro che e' già presente), un tema che non riguarda solo la didattica ma anche la formazione permanente.
La prima intelligenza ad essere trattata è quella disciplinare: una disciplina è un modo di guardare il mondo ed è costituita da un insieme di esperienze, non solo di informazioni sedimentate.
“La conoscenza dei dati è un utile ornamento, ma imparare a pensare in modo disciplinare è tutt'altra impresa”.
Il pensiero disciplinare identifica gli argomenti focus nella disciplina e dedica un tempo ragguardevole ad ogni argomento ma senza sforzo perché “chi ha assaggiato l'autentica comprensione è improbabile che in futuro si accontenti di una comprensione superficiale “.
L'intelligenza disciplinare ha anche un lato negativo caratterizzato dall’eccesso che porta a chiusura mentale.
L'intelligenza sintetica è necessaria per far fronte all'esposizione continua di input che caratterizza il mondo contemporaneo. Filtrare l' informazione è il primo passo, seguito poi dalla capacità di tessere in un insieme coerente gli input provenienti da fonti diverse.
Due tipi di intelligenze vengono in aiuto per questo scopo, l' intelligenza laser che penetra l' informazione e l' intelligenza riflettore che scorge le connessioni tra le cose.
L' intelligenza creativa nasce dall’interazione di tre elementi: individuo, campo culturale (su cui la persona ha lavorato con l' intelligenza disciplinare ) e ambiente sociale (necessario quest’ultimo punto perché l'atto creativo deve portare un beneficio alla comunità (anche se molte intuizioni creative in principio non sono state accettate dalla società stessa).
Un eccesso di intelligenza disciplinare può bloccare la creatività.
L' intelligenza rispettosa si collega all’intelligenza interpersonale (che l'autore aveva indagato nel libro “Formae Mentis”) e indica come superare il concetto di tolleranza volgendosi verso un piano costruttivo e simpatetico che si basa sulla sospensione del giudizio (il pregiudizio è una variante dell’apprendimento ed ha radici emotive).
Connessa alla precedente, l' intelligenza etica presuppone un gradino in più di astrazione e si collega al proprio ruolo nel mondo, come cittadino, lavoratore, essere umano.
Sarebbe utile sviluppare tutte e 5 queste intelligenze per riuscire a sopravvivere oggi e a prendersi cura del bene comune della terra.
Un compito che spetta a tutti gli attori dell’educazione a partire dalla famiglia passando per la scuola, per diventare poi un impegno costante con sé stessi.
Howard Gardner
Cinque chiavi per il futuro
Feltrinelli 2007
I due ideatori del progetto di filosofia Tlon tornano in libreria con un ultimo libro dal titolo accattivante.
Le donne sono state nutrite di stereotipi cristallizzati basati sulla sottomissione, sull'obbedienza, sull'abbassare la testa, sul non alzare la voce. Storie di principesse da liberare, giochi di bambole perfette e sempre sorridenti hanno caratterizzato la nostra infanzia fino a destinarci nell'archetipo della brava bambina. Provare a scardinare questa immagine plastificata è un dovere morale e civile, necessario e urgente in vista delle ultime questioni sociologiche che rimettono in discussione il concetto di corpo femminile e di autodeterminazione.
8 storie che sono 8 lezioni per le donne, 8 figure femminili che celano insegnamenti importanti per rifondare il concetto di femminile e di maschile.
Alcune di esse vengono dalla mitologia classica come Era, che da Dea Madre primigenia diviene moglie gelosa e costretta in un ruolo che non gli appartiene fino in fondo, passando per Elena di Sparta (anche se tutti la ricordano solo come Elena di Troia), che insegna a non considerarsi mai come proprietà di qualcuno, per arrivare a Medea che, sotto la crosta di matricida, nasconde la necessità di ritornare a se stesse, recuperando una sacralità naturale che è stata cancellata e addormentata per favorire l'eroe e il suo scopo di potere. Spostandoci sulla mitologia nordica troviamo Morgana ( qui ritratta partendo dal libro “Le nebbie di Avalon”), che agisce per uno scopo superiore, nonostante la situazione esterna vada a cozzare con quella interna che la contraddistingue e la rende portavoce dei culti della Dea.
Interessanti sono i riferimenti a 2 figure contemporanee, perché, come ricordano gli autori, la narrazione mitica si sposta oggi nelle serie tv, eredi dei racconti primigeni; tra queste eroine contemporanee incontriamo Difred, protagonista del romanzo distopico di Margaret Atwood “Il racconto dell'ancella” che insegna il valore della libertà e dell'autodeterminazione del corpo femminile e soprattutto ricorda come ogni piccola libertà che viene tolta potrebbe far parte di un progetto dittatoriale più ampio e spesso nascosto, e Daenerys eroina della serie tv “Games of Throne” appena conclusa, che non sa superare il suo orgoglio e non sa imparare l'umiltà e l'arguzia creativa sopraffatta da un desiderio di potere.
Il personaggio di Malefica non riceve la giusta considerazione dalla favola della “Bella addormentata” mentre il film (e il libro di Maura Gancitano uscito per edizioni Tlon) le rende finalmente giustizia: la rabbia del tradimento va accettata, lavorata affinché si trasformi in forza vitale e rigenerativa.
Malefica è una storia ri-narrata secondo un punto di vista che è anche una presa di posizione, così come accade nella storia di Dina, protagonista del libro di Anita Diamant “La tenda rossa”: la figura di Dina è appena accennata nell'Antico Testamento, è l'unica figlia femmina di Giacobbe, e la sua storia sottolinea il valore sacro della sorellanza (non è un caso che da questo libro siano nate le esperienze collettive delle tende rosse, momenti di condivisione e di racconto personale tra donne).
L'ultima parte del libro prende in esame l'aspetto maschile del “problema senza nome”, e indaga il ruolo dei padri, il corpo e la ferita degli uomini, perché è essenziale includere in questa mutazione psicologica, culturale e sociale anche l'uomo, partendo dal “riconoscere il desiderio di costruire relazioni paritarie, autentiche, in cui non c'è una guerra da combattere, ma una direzione comune”.
Un libro da leggere ad alta voce per ridefinire ciò che significa essere umani, per trovare la chiave e la via d'uscita dalle gabbie delle etichette che costringono e destinano, perché il pregiudizio è sempre un apprendimento emotivo, e quindi radicato e antico, che può, però, essere ri-educato e soprattutto ri-narrato.
“Ti auguriamo di non sentirti più sbagliata, isterica, anormale, ma solo una donna che si sta liberando dai condizionamenti sociali, a volte con facilità, a volte con grande difficoltà”.
Di grande interesse sono il progetto “Raccontarsi, storie di fioritura personale “ Con la collaborazione di diversitylab e akra studio su youtube.
È possibile seguire il progetto Tlon sul sito http://tlon.it/ .
Maura Gancitano e Andrea Colamedici
Liberati della brava bambina
Harper e Collins 2019
Vittorio Russo, capitano di lungo corso, è giornalista, viaggiatore e scrittore di saggi e racconti. Ha pubblicato ricerche e studi sulle origini delle religioni e del cristianesimo tra cui II Gesù storico (Editrice Fiorentino, 1978), vincitore del premio Montecatini 1980 per la saggistica. È autore di antologie narrative e romanzi come La decima musa (M. D’Auria Editore, 2005), Quando Dio scende in terra (Sandro Teti Editore, 2011) e La porta degli esili sogni (Cairo Editore, 2017). Dai suoi viaggi sono nati libri che intrecciano geografica, mito e storia, tra questi India mistica e misteriosa (2008), Sulle orme di Alessandro Magno (2009) e L’India nel cuore (2012) premio letterario Albori 2012 e finalista al premio Rea 2013.
Le sue ultime fatiche sono “Transiberiana” e “l’Uzbekistan di Alessandro Magno”, ambedue edite dalla “Sandro Teti”. Il primo è il reportage ricco di foto e illustrazioni di un viaggio lungo 12 mila chilometri che valica i confini geografici e culturali che separano Occidente e Oriente. Lo scrittore ci fa strada tra le sconfinate terre russe e la civiltà mongolica e ci porta con lui nei vagoni della ferrovia più lunga del mondo, l’infrastruttura faraonica che fu costruita anche grazie al contributo delle maestranze friulane, fatto noto più in Russia che in Italia e sul quale si sofferma e rievocato in queste pagine. Luoghi e popoli così distanti non sono mai stati tanto vicini. Un libro dal linguaggio evocativo. Un libro carico di immagini poetiche. Un libro alla scoperta dell’esotico e più autentico Oriente. “L’Uzbekistan di Alessandro Magno” invece è un viaggio alla ricerca dei luoghi del tempo e della memoria dove la storia di Alessandro sfuma nel mito. Emerge da queste pagine il personaggio storico del conquistatore nella sua prospettiva umana più attendibile. L’eroe invincibile immortalato nei marmi di Lisippo cede il passo all’ubriacone omicida, al borioso, al superstizioso e cinico sterminatore di popoli. Ma con i difetti dell’uomo si profila anche il volto più autentico di un nuovo Ulisse che vuole conoscere per possedere, sognatore tenace, unificatore di genti.
D - Il motivo che l’ha spinto a visitare terre così lontane?
R - Il viaggio, nella mia interpretazione, s’identifica con ricerca, con scoperta motivata da curiosità. Questa curiosità, poi, è normalmente generata da letture, studi, approfondimenti e da tutto il corollario di ricerca di fonti in grado di appagare il bisogno di conoscenza. Viaggiare quindi è la conseguenza di uno stimolo potente. Il mio viaggio in Uzbekistan e Tagikistan si colloca in questa prospettiva, non meno degli altri, d’altronde. Letture annose di scritti su Alessandro Magno e poi analisi dei testi canonici, come mi piace definire le biografie sul Macedone degli autori più antichi, hanno finito per creare una molla propulsiva che ha reso irriducibile il bisogno di andare, di recarmi nei luoghi sperduti che egli percorse con le sue armate e trovarvi tracce che confortassero l’idea del personaggio, ormai già formata nel mio immaginario. Scontato però, che la scoperta della storia sotto la pelle della geografia, trovasse riscontro nella figura creata dalle letture e un po’ anche dalla fantasia.
Quando ad animare un desiderio è la voglia forte di vedere, di scoprire, di svelare, nessun orizzonte è lontano, non ti scoraggiano prevedibili difficoltà di attraversamento di terre sconosciute, senza collegamenti di strade, senza mete definite. Vai, perché scoprire significa diventare creatori di cultura, significa sottrarre gli eventi alla dimenticanza del tempo e dare loro una continuità di vita che accenderà la curiosità di quelli che verranno dopo.
Il viaggio, per quanto riguarda me, si snoda in una prospettiva bidimensionale: storica la prima, la seconda geografica. Ed ecco pure come da viaggiatore, con questi obiettivi, mi scopro storico secondo l’etimo più coerente di histor, che è colui che viaggia, che vede e racconta. Il mio modello ideale in quest’ottica è Erodoto, il padre della storia. È lui il viaggiatore per antonomasia, il cronista che osserva e riporta, il narratore di fatti ed eventi che danno senso al tempo. E il tempo diventa storia quando è denso di avvenimenti che sottratti all’oblio sono consegnati alla memoria perché degni di essere ricordati.
D - Cosa vuole trasmettere al lettore? sensazioni, cultura, curiosità, legami che ha il nostro paese con le terre visitate, o cos’altro?
R - Gli orizzonti entro i quali mi piace racchiudere quello che scrivo sono sfumati. Mutuando le parole dall’archeologo Andrea Carandini, io ritengo che il viaggiatore-scrittore, mosso dagli obiettivi di cui ho detto prima, sia acceso da una febbre, quella della conoscenza, che si identifica col bisogno di coinvolgere nella scoperta i suoi lettori. La scoperta è pure coincidente con il disvelamento prezioso di qualcosa di nascosto. Svelare significa togliere il velo del mistero, rimuovere la polvere che appanna l’oggetto della scoperta, portare alla luce ciò che non è noto. Mi piace identificare il percorso del viaggiatore-cercatore con quello del sole: hanno entrambi come scopo quello di scacciare il buio, il primo quello della notte, il secondo quello dell’ignoranza. C’è un termine greco, alétheia, che traduce il senso del disvelamento. Alétheia corrisponde a verità, ossia a ciò che non è nascosto, a ciò che viene svelato, appunto. Forte è il bisogno di leggere lo stupore nel volto di chi partecipa a questo disvelamento. E proprio questo stupore mi piace trasmettere al lettore coinvolgendolo con immagini e riflessioni, sollecitando emozioni e, naturalmente, sperimentando forme di scrittura capaci di produrre questi risultati. Scrivere diventa perciò bisogno di de-scrivere. Lo scrittore si fa de-scrittore di ciò che osserva per catturare la curiosità e l’interesse del lettore. Chi viaggia per raccontare deve fare dei propri sensi gli strumenti di una percezione totale attraverso cui consentire a chi legge di vedere, sentire, toccare, annusare e di esaltarlo delle sue stesse emozioni, di fargli vivere il suo stesso panico, le sue ansie, le sue armonie, il suo stesso entusiasmo, nel senso etimologico più autentico di benessere e possessione divina. Questa possibilità di congiungere i sensi in una comune contaminazione percettiva, cioè di renderli capaci di “sentire insieme”, si chiama sinestesia. In questo libro su Alessandro e l’Uzbekistan, come in tanti altri, ho cercato di rendere quello che ho percepito proprio con sinestesia.
D - È stato difficile dialogare con le popolazioni visitate?
R - Il viaggio nell’ottica che le ho detto presenta infinite incognite che alla partenza possono solo essere messe in conto, ma non immaginate. Guai poi se non fosse così perché il senso stesso del viaggio è dato dalle sue incognite. Una fra quelle immaginabili è la difficoltà rappresentata dalla lingua e dal dialogo con genti diverse. Ho scoperto però che il viaggiatore motivato dalle mie curiosità non ha bisogno che di conoscenze linguistiche epidermiche, specialmente per viaggi di “lungo corso” di questo genere. Anche perché le lingue, in longitudini geografiche così remote, sono strumenti spesso insufficienti. Fatti salvi i termini per le esigenze essenziali, occorre più che un vocabolario di tante lingue quello del buon senso, occorre un franco sorriso e il ponte levatoio della disponibilità abbassato. Quando si riesce a coniugare queste condizioni capisci, come ho scritto da qualche parte, che le distanze fra gli umani sono più nelle geografie che li separano che non nel comune sentire. Viaggiare alla luce di queste premesse ti fa capace di interpretare e tradurre quasi per istinto, perché in fondo poi le parole, quando sono tradotte, hanno significati epidermici. Le lingue che parliamo quando sono diverse da quella materna, sono lingue sostanzialmente tradotte, perciò tradite. Ogni parola appartiene alla cultura che l’ha generata e quella cultura si porta dietro. Tradotte, le parole hanno significati oscillanti e non sempre riflettono il principio razionale secondo cui esprimono una cosa e solo quella. Ha spiegato bene questo concetto Umberto Galimberti.
D - Cosa l’ha colpito maggiormente nei suoi viaggi?
R - La diversità. La diversità, che d’altronde è quello che io normalmente cerco nel viaggio. Viaggiare significa, come ho detto prima, scoprire, svelare e, soprattutto, essere stupito da quello che scopro. La cosa più sorprendente è scoprire quello che meno ti attendi di trovare. Il termine serendipità dà bene l’idea di quello che intendo dire. Serendipità vuol dire fare scoperte impreviste, trovare per caso cose e svelare conoscenze di eventi ignorati ricchi di fascino, anche più delle cose e degli eventi di cui hai conoscenza. Il viaggiatore, come io lo intendo, non distingue le diversità perché delle diversità del mondo nutre la propria voglia di conoscenza. Il sipario del viaggiatore si apre non sulla scena, che è il luogo della rappresentazione di quello che si conosce, ma sulla platea che è il luogo delle mutevolezze cromatiche, delle emozioni che si leggono nei volti del pubblico, negli sguardi che esprimono attesa, curiosità, meraviglia. La diversità è la ricchezza stessa del viaggio. Quale molla spinge l’uomo a muoversi, ad andare: l’avventura, il bisogno di essere stupiti, l’urgenza di avvicinarsi all’ignoto, la curiosità? Questo, certamente, e altro ancora. Ecco, credo sia questa la ricchezza autentica del viaggiare. Una vita senza curiosità, ha scritto Platone, non è degna di essere vissuta e chi non riesce a stupirsi vive come un albero che muore dove è nato. Perché in fondo noi esistiamo rapportandoci agli altri, esistiamo perché gli altri ci riconoscono, esistiamo grazie a una relazione e nella misura in cui ci sappiamo raccontare. La nostra identità è un prodotto sociale non un dato anagrafico o biologico. Viaggiare è una chiave che svela la nostra identità.
D - Una curiosità per tutte, cosa l’ha colpito di più?
R - In questo viaggio nell’Asia Centrale sulle orme di Alessandro Magno, le curiosità sono le mille piccole tessere del mosaico quotidiano dell’avventura che formano eventi indimenticabili per colore e calore. Una curiosità, in particolare, m’è rimasta impressa e ne ho parlato nel mio libro: quella dei dentini da latte. Un tempo in una regione dell’Uzbekistan, il Surkhan Darya, erano conservati, con altri ricordi di famiglia, i dentini da latte dei propri figli, in castoni di metallo, che venivano poi portati al collo dai genitori. Secondo la mia amica e guida in Uzbekistan, Halima, questa consuetudine risale a un peculiare ricordo dell’infanzia di Alessandro Magno. Secondo lei, il piccolo Efestione, avrebbe donato ad Alessandro, suo compagno di giochi e di studio, un suo dentino da latte quale testimonianza di duraturo legame. Alessandro, a sua volta, avrebbe risposto a questa prova di devozione cavandosi un dente e offrendolo al coetaneo confermandogli così un pari impegno di amicizia e affetto. Da quel giorno, entrambi, avrebbero portato al collo, sospeso a una catenina, in un castone d’oro, ciascuno il dentino dell’altro, pegno di un patto devoto e silenzioso. Fu da allora forse che sarebbero stati uniti, come noto, da un legame forte e definitivo ben oltre i valori che l’accezione del termine amicizia comporta.
Diverse
popolazioni della Sogdiana e della Battriana (attuali Uzbekistan e Afganistan), educate alla maniera greca, avrebbero adottato quest’abitudine. Essa sarebbe diventata presto una consolidata tradizione e sarebbe sopravvissuta fino ai tempi nostri. Per amore di precisione devo aggiungere che non ho trovato alcun riferimento al dettaglio dei castoni e dei dentini da latte nelle più antiche biografie del Macedone. Mi ha tuttavia colpito per la sua trasognata delicatezza quest’immagine tratteggiata dalla mia amica uzbeka. Per quanto scaturita da tradizioni popolari leggendarie, essa riflette appieno il carattere di Alessandro e la morbosa devozione di Efestione. Per quello che ne so, questo dettaglio così singolare e assolutamente coincidente nel suo svolgimento con quello della tradizione uzbeka, appartiene solo alla felice inventiva di Valerio Massimo Manfredi che l’ha riportato nel suo Aléxandros. Quando gliene parlai si sorprese non poco, egli per primo, di questa curiosa concomitanza e per aver involontariamente accreditato e “storicizzato” con la sua narrazione una leggenda locale che non conosceva.
D – Ci spostiamo sull’altro suo libro, Transiberiana. Le sarebbe risultato monotono il viaggio in Transiberiana senza scendere mai dal treno?
R – Non saprei dire. È vero che specificamente, per ciò che attiene il viaggio transiberiano, il treno ne è l’assoluto protagonista. Il treno non è solo il veicolo che ti trasferisce da un angolo all’altro del Pianeta ma diventa il luogo della conoscenza, il luogo degli incontri, il luogo di un altro disvelamento: quello di te a un altro te stesso, sostanzialmente sconosciuto. È nel treno che incontri le espressioni di tante culture ed etnie siberiane, è nel treno che schiudi veramente le porte su un mondo misterioso e inesplorato, su una geografia sterminata di popoli e ti piace naufragare in una babele di lingue, fra sguardi curiosi e interrogativi di persone che si aprono alla tua esplorazione e che hanno le tue stesse curiosità di conoscenza. Il treno, insomma, si fa motore di civiltà. È straordinaria soprattutto l’esperienza del contatto col volto ingenuo e sorridente di bambini con occhi dal taglio obliquo perduti nella plica mongolica. In essi squilla la luce dell’innocenza comune a tutti i bambini della Terra che si mescola con quella della curiosità propria dell’età. Il viaggio transiberiano più autentico è perciò quello che fai nel treno, prima di quello che fai col treno: un viaggio la cui destinazione sfuma in orizzonti confusi tra cielo e terra, oltre i finestrini rigati da strie di pioggia che corrono via cancellate dal vento della velocità. È un percorso odeporico che fai, come ho detto, principalmente da un te stesso a un altro te. È un te talvolta sconosciuto, che mette a nudo la propria interiorità in queste coordinate geografiche lontane che hanno per protagonisti l’azzurro di fiumi smisurati come oceani e il bianco delle cortecce delle betulle nei silenzi sterminati che dominano e diventano lingua madre. No, affrontato con lo spirito giusto, non ravviso nulla di monotono in un’esperienza in Transiberiana. Nel corso di giornate intere di viaggio, nel susseguirsi di centinaia di stazioni dai colori squillanti, non ho percepito né monotonia, né malinconia, né nostalgia. Riesci per lunghe ore a dialogare proprio col silenzio che si sovrappone addirittura allo sferragliare della ruote su binari ghiacciati o roventi e al loro stridio tagliente al passaggio su ponti senza fine. Lo puoi ascoltare in silenzio, perché parla, dà rilievo alle cose come una sonorità capovolta. Su un treno della Transiberiana lo spazio sembra fatto espressamente per i cercatori di silenzio perché si fa apprezzare, perché ti lascia in compagnia di te stesso, senza porti domande e senza importi risposte.
D - Ha mai sentito parlare degli Hunza, che pare siano anch’essi discendenti dei soldati di Alessandro Magno il quale si spinse fino alle pendici dell’Himalaya?
R - Sì, però non ne ho parlato nel mio libro perché l’avrei affollato di leggende e racconti fantastici. Gli Hunza, dal nome della valle e del fiume lungo cui vivono in alcune migliaia, sono noti anche con altre denominazioni fra cui quella di Burusci. Sono famosi per la loro singolare longevità e altre inconsuete caratteristiche antropologiche. Quella degli Hunza è un’etnia che vive nella cuspide confinaria, molto contesa, fra Pakistan, India e Cina, ai piedi dell’Himalaya. Si distinguono, oltre che per la longevità, per una lingua che non ha legami con nessuna di quelle parlate nella regione e perché (senza molto fondamento, in verità) ritengono di discendere dalla gente al seguito delle falangi di Alessandro Magno. Si sa che i soldati del Macedone, non più in grado di combattere, venivano lasciati a presidiare roccaforti e città di confine, costruite a decine lungo i percorsi della conquista.
A dare corpo a questa leggenda della discendenza macedone degli Hunza ha contribuito non poco il viaggio, di non molto tempo fa, di una loro autorevole delegazione in Macedonia accolta con grandi onori dalle autorità di questo Paese.
Non dissimili tradizioni di antica discendenza dagli opliti di Alessandro riguardano altre etnie della regione, come quella delle poche migliaia di Kafiri, per esempio, che si distinguono per la carnagione e gli occhi chiari e vivono nel Kafiristan, al confine settentrionale tra Pakistan e Afganistan. Kafir equivale in arabo a non credente e i Kafiri sono così conosciuti perché, rispetto a tutte le altre
Vittorio Russo (a sin.) |
popolazioni di quell’area geografica, non si sono mai convertiti all’Islam.
Ho trovato curiosa la storia di un gruppo di questi Kafiri che, intorno all’anno 1000, al seguito degli Omayyadi, giunsero in Spagna prima e poi in Italia Meridionale distinguendosi come abili navigatori, mercanti e importanti armatori dei tempi più recenti. Il loro cognome è oggi Cafiero che riflette quello antico di Kafir, probabile progenie dei guerrieri di Alessandro. È difficile stabilire linee di discendenza dai macedoni di Alessandro, a distanza di 23 secoli dall’epoca della conquista di queste regioni. Va considerato che durante questa fase della guerra di conquista asiatica (siamo intorno al 320 a.C.) l’esercito del Macedone era composto forse solo da una minoranza di soldati macedoni e greci. In larga parte era formata dalle nuove leve dei popoli conquistati, Persiani, Sogdiani, Battriani, Ircani, Drangiani etc. A presidio delle terre conquistate venivano lasciate persone non più idonee alle armi, verosimilmente genti delle stesse regioni conquistate, talvolta mercenari, più spesso disertori, insomma i peggiori, che non erano normalmente i Macedoni e i Greci molto meglio educati al mestiere delle armi. Le terre dove vivono queste rare popolazioni che vantano la discendenza macedone sono ubicate in aree geografiche montagnose e talvolta perfino inaccessibili, decisamente fuori dal percorso seguito dall’armata di Alessandro nel suo spostamento dalla Sogdiana (Uzbekistan) verso l’India.
D - Cosa pensano del nostro paese, in genere, le persone che ha avuto modo di incontrare?
R - L’Italia è molto apprezzata anche se nota più spesso per luoghi comuni e sentito dire. Fanno la gloria del nostro Paese famosi giocatori del calcio, qualche cantante alla moda non meno dei prodotti tipici della nostra cucina e dell’abbigliamento. A tessere le lodi patrie sono persone di limitata cultura che finiscono per mettere sullo stesso piano Leonardo e Al Capone. Gratifica molto invece sentir parlare con competenza e quasi venerazione dell’Italia da chi ha una più approfondita conoscenza della cultura occidentale.
Nell’ O’zbekiston Davlat San’at Muzeyi, il Museo di Belle Arti di Tashkent, ha suscitato tutta la mia meraviglia una sala ricchissima di opere d’arte dedicata in prevalenza ad artisti italiani del Rinascimento e dell’Ottocento. Mai mi sarei aspettato di trovare in quel luogo qualcosa del genere. Fra originali e copie di grandi maestri, mi ha colpito in special modo una sensualissima statua di Frine, incantevole capolavoro giovanile del milanese Francesco Barzaghi in un marmo levigato come avorio che si fa quasi carne viva ed esprime in uno slancio di puro dinamismo un’incredibile vitalità statica.
D - Dopo tanto viaggiare si sente più cittadino del mondo o italiano?
R - Beh, da tempo sono cittadino del mondo; amo tuttavia orgogliosamente e cocciutamente le mie radici italiane ben abbarbicate nel Sud del Paese. Sarebbe un’anomalia se non fosse così. Vi sono sottili capillari di sangue vivo e irriducibile che mi legano come cordoni ombelicali ai luoghi dove sono cresciuto, dove ho imparato a leggere negli orizzonti fra cielo e mare non linee di confine ma traguardi da raggiungere. E quando questo è avvenuto, quando ho smarginato per la prima volta oltre le righe della lettura abituale, allora mi sono ritrovato nelle glosse e nelle pagine a cercare ciò che avrei voluto esplorare per possederlo per farlo mio, perché si possiede veramente solo quello che si conosce. Ecco, in questo senso mi sento cittadino del mondo e a mio agio quando sono appagato e vinto da quello che mi stupisce. Capisco, forse per istinto, che il giorno in cui non mi sorprenderò più di nulla sarà pure quello in cui la vita diventerà un percorso piatto di abitudine e quotidianità senza stimoli di interesse: un vita amorfa. Perché, come ho detto prima, solo una vita fitta di curiosità è veramente degna di essere vissuta. In questo credo fermamente.
Grazie