L'informazione non è un optional, ma è una delle condizioni essenziali dell'esistenza dell'umanità. La lotta per la sopravvivenza, biologica e sociale, è una lotta per ottenere informazioni.

Tech (34)

 
Gianni Viola
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Nelle pieghe più oscure del web, tra imitazioni distorti e narrazioni paranoiche, sopravvive una delle teorie del complotto più assurde e inquietanti dell’epoca contemporanea: quella sull’adrenocromo, una sostanza realmente esistente, ma diventata nelle fantasie complottiste il fulcro di un presunto traffico globale di bambini, gestito da élite segrete alla ricerca dell’elisir dell’eterna giovinezza. Una trama degna di un romanzo distopico, in realtà totalmente priva di riscontri scientifici e alimentata da fonti inattendibili, riferimenti travisati e una profonda ignoranza del funzionamento del corpo umano e della farmacologia. Eppure, questa narrazione continua a circolare, soprattutto in ambienti vicini al movimento QAnon e a frange estreme del web che si nutrono di “controinformazione” fasulla e teorie cospirazioniste. L’adrenocromo è un composto chimico prodotto per ossidazione dell’adrenalina (epinefrina). Fu sintetizzato per la prima volta negli anni ’30 e, negli anni ’50-60, studiato marginalmente per presunte (e mai confermate) correlazioni con stati psicotici e schizofrenia. Tuttavia, la comunità scientifica ha rapidamente abbandonato qualsiasi interesse clinico sul composto, ritenendolo privo di utilità terapeutica o psicoattiva degna di nota. Ad oggi, l’adrenocromo non è classificato come droga, non ha alcuna utilità

medica riconosciuta e, soprattutto, non ha effetti anti-invecchiamento, allucinogeni o euforici documentati. È acquistabile da decenni in forma sintetica da aziende chimiche e laboratori di ricerca, a costi accessibili e senza particolari restrizioni. Non serve estrarlo da organismi viventi, tantomeno da bambini, come invece sostiene l’assurda teoria del complotto. Il mito dell’adrenocromo come sostanza proibita e desiderata si radica nella cultura popolare, in particolare in un passo del libro Paura e delirio a Las Vegas di Hunter S. Thompson (1971), dove il narratore assume una dose di adrenocromo che avrebbe ottenuto da una “ghiandola umana”. Il passo, volutamente grottesco e satirico, è stato estrapolato e preso letteralmente dai teorici del complotto, che lo hanno trasformato in una sorta di confessione camuffata, senza considerare che l’intera opera è un’opera di fiction psichedelica. Da lì, la narrazione è stata inglobata da ambienti complottisti, fino a diventare un pilastro del movimento QAnon, secondo cui personaggi pubblici, politici liberal e celebrità hollywoodiane farebbero parte di una setta satanica che rapisce bambini per estrarre adrenocromo dalle loro ghiandole surrenali, spesso con rituali violenti o torture, per poi consumarlo come droga o elisir di lunga vita. Il tutto, ovviamente, senza uno straccio di prova. I sostenitori di queste teorie citano spesso “studi scientifici censurati” o “documenti medici nascosti” per avallare le loro convinzioni. In realtà, la letteratura scientifica non contiene alcuno studio recente, autorevole o verificabile che colleghi l’adrenocromo ad attività psicoattiva, effetti benefici sull’invecchiamento o pratiche di consumo umano. Alcuni vecchi articoli degli anni ’50 ipotizzavano, senza fondamenti solidi, un possibile legame tra il metabolismo dell’adrenocromo e stati mentali alterati, ma si trattava di ipotesi marginali e mai confermate. Il Journal of Psychiatrye e il British Medical Journal hanno chiaramente rigettato negli anni successivi ogni interesse terapeutico o psichiatrico per questa molecola. Non esistono nemmeno studi clinici approvati o test su esseri umani. L’adrenocromo, in sostanza, è oggi considerato una molecola chimicamente irrilevante. Il complotto dell’adrenocromo si basa su elementi classici della narrativa complottista come alcuni bambini innocenti sono in pericolo, persone di talento corrotte, gruppi di rituali occulti, il silenzio dei media e la censura istituzionale. È una trama che fa leva su paure archetipiche e alimenta una visione manichea della realtà, dove chi “scopre la verità” si sente parte di un’umanità risvegliata e contro un mondo dominato dal Male. Queste teorie si diffondono facilmente perché offrono una spiegazione semplice a un mondo complesso e trasformando l’inquietudine sociale in indignazione morale. Peraltro, l’algoritmo dei social media amplifica contenuti emotivamente carichi, anche se falsi, contribuendo alla viralizzazione della disinformazione. Al di là del grottesco, la teoria dell’adrenocromo ha conseguenze pericolose perché alimenta sfiducia nella scienza, disorienta l’opinione pubblica, delegittima istituzioni e media, e in alcuni casi ha ispirato atti violenti. Infatti, nel 2016, l’episodio del “Pizzagate” vide un uomo armato entrare in una pizzeria di Washington (U.S.A.) convinto che lì si nascondesse un giro di traffico di minori. Non era vero nulla. Ma qualcuno poteva morire. Smascherare queste teorie non è solo un esercizio di smentire informazioni false o teorie infondate, bensì è una forma di difesa civile, di tutela del dibattito pubblico e della salute mentale collettiva. Serve una risposta culturale e informativa che combini scienza, responsabilità giornalistica e spirito critico. La bufala dell’adrenocromo è l’esempio perfetto di come un’idea assurda possa farsi largo nella mente di migliaia di persone se alimentata dal sospetto, dalla paura e dall’ignoranza. Non esiste alcuna prova che supporti l’esistenza di un traffico di questa sostanza estratta da minori, e la scienza è unanime nel considerare l’adrenocromo un composto chimico privo di effetti rilevanti sull’organismo umano. Il compito dell’informazione e della società civile è quello di spezzare l’incantesimo del complottismo con i fatti, la logica e la trasparenza, perché la verità, oggi più che mai, è un atto di resistenza.

Nel panorama della medicina oncologica contemporanea, dove la personalizzazione delle cure non è più un’utopia, ma un percorso sempre più concreto, la terapia con Lutezio-177 emerge come una delle frontiere più promettenti. È una forma di medicina nucleare che unisce precisione scientifica ed impatto umano, e peraltro, non solo allunga la vita, ma restituisce tempo, dignità e qualità ai giorni che restano, soprattutto nei casi di tumore alla prostata in fase avanzata. La terapia con Lutezio-177 è rivolta in particolare a quei pazienti affetti da carcinoma prostatico metastatico resistente alla castrazione, che hanno già affrontato terapie ormonali, chemioterapie e per i quali le opzioni si fanno sempre più limitate. Non è una cura miracolosa, ma un’arma potente: il radioisotopo, veicolato attraverso una molecola che si lega selettivamente a una proteina presente sulla superficie delle cellule tumorali, il PSMA, rilascia radiazioni direttamente sul bersaglio, danneggiando il DNA delle cellule malate e provocandone la morte. Il principio è semplice nella sua sofisticazione: non colpire tutto il corpo, ma agire solo dove serve, con precisione millimetrica. La scienza lo chiama radioterapia sistemica mirata, ma nei reparti dove viene somministrato, molti pazienti lo chiamano “una seconda possibilità”.

Le somministrazioni avvengono per via endovenosa in centri di medicina nucleare autorizzati. Ogni ciclo, solitamente da quattro a sei, si svolge a distanza di diverse settimane. Prima del trattamento viene sempre eseguita una PET specifica per confermare che le cellule tumorali esprimano in modo sufficiente il PSMA, condizione necessaria per l’efficacia del radiofarmaco. I pazienti vengono seguiti scrupolosamente con esami ematologici, test renali, monitoraggio del PSA e controlli radiologici che scandiscono il percorso terapeutico. Tutto avviene in day hospital o brevi ricoveri, con precauzioni radiologiche semplici, ma rigorose. Non si tratta, insomma, di un trattamento da affrontare con leggerezza, ma nemmeno da temere come un salto nel buio. Gli studi clinici hanno confermato i benefici della terapia con Lutezio-177 una riduzione significativa del PSA, un rallentamento della progressione della malattia, un controllo del dolore da metastasi ossee e, soprattutto, una sopravvivenza prolungata con minore impatto tossico rispetto ai farmaci chemioterapici. La stanchezza, la secchezza delle fauci, la riduzione delle difese immunitarie e, più raramente, disturbi gastrointestinali o problemi renali, sono tra gli effetti collaterali più comuni, ma nella maggior parte dei casi ben gestibili.

È un trattamento che non distrugge il corpo per combattere il male, ma cerca di farlo con equilibrio, lasciando spazio alla vita. Il Lutezio-177 è l’esempio concreto di ciò che significa portare la ricerca dentro la clinica. In Italia, è oggi accessibile in diversi centri specializzati, anche se le differenze regionali nella disponibilità della terapia restano un nodo da sciogliere. Si tratta di una tecnologia avanzata, che richiede competenze multidisciplinari, risorse ed organizzazione. Ma è anche un indicatore di civiltà medica, peraltro dove esiste, cambia la traiettoria della malattia e dove manca, alimenta il divario tra chi può sperare e chi no. Oggi, la sfida è duplice, da una parte, ampliare l’accesso a questa terapia, superando le diseguaglianze geografiche e dall’altra, continuare a esplorarne le potenzialità, estendendola anche ad altri tipi di tumore, attraverso lo sviluppo di nuovi radio-ligandi e strategie teranostiche. La medicina nucleare non è più una disciplina di nicchia, ma una colonna portante dell’oncologia moderna. La terapia con Lutezio-177 non promette l’eternità, ma restituisce tempo di qualità e fiducia nel futuro. In un’epoca dove spesso si rincorrono slogan e false certezze, questa cura rappresenta qualcosa di molto più prezioso, una possibilità reale, fondata su prove solide, sostenuta da esperti ed accolta con gratitudine da chi, dopo aver provato tutto, trova finalmente una nuova strada. Finalmente, la scienza diventa speranza, con i piedi per terra e lo sguardo nel futuro.

 

L'intervento di Monsignor Antonio Staglianò

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Riflessioni sull’intervento di Mons. Antonio Staglianò al Primo Simposio Pontificio sull’intelligenza artificiale.

Nel cuore del pensiero sulla tecnica, si rivela l’umano: presenza che ama nella ferita, genera senza replicare e si compie nel dono.

 

Il 24 giugno 2025, nella storica cornice di Palazzo Maffei Marescotti, si è tenuto a Roma il Primo Simposio Pontificio sull’Intelligenza Artificiale, intitolato “Intelligenza artificiale nell’economia del nuovo Umanesimo: l’impatto sul mondo del lavoro, le implicazioni etiche e la governance”.

Promosso congiuntamente dalla Pontificia Accademia Teologica, dall’ENIA (Ente Nazionale Intelligenza Artificiale) e dalla rivista JPE (Journal of Pluralism in Economics), l’incontro ha raccolto le voci più autorevoli del panorama nazionale e internazionale, aprendo un varco verso la comprensione profonda del rapporto tra tecnologia e destino umano.

 

Monsignor Antonio Staglianò, Presidente della Pontificia Accademia di Teologia, ha innalzato la sua voce come un soffio profetico, capace di incidere il pensiero con la lama sottile dell’essenziale.

Al centro della sua riflessione, l’umano si svela come fiamma viva che arde nel dono, lasciando che nel gesto consumato per amore affiori la verità della sua essenza.

«Il tempo si dona, si brucia, si consacra», ha affermato e, in queste parole, si è accesa una verità che sfugge al calcolo e si libera nel generare senso.

Il dono diviene così offerta senza ritorno, spazio sacro in cui l’umano si rivela, irriducibile e luminoso.

 

In dialogo con questa visione alta e luminosa, la prospettiva istituzionale offerta dai rappresentanti dell’ENIA, in particolare dal suo Presidente Valeria Lazzaroli e dall’Avv. Fabrizio Abbate, Presidente del Salotto Letterario dell’intelligenza artificiale, ha restituito un quadro chiaro delle responsabilità che il mondo contemporaneo deve assumere di fronte all’avanzata delle tecnologie cognitive.

Nel crocevia del confronto, si è aperto uno spazio simbolico dove la poesia del teologo incontra il rigore dell’analisi etica, e l’intuizione spirituale si intreccia con l’azione politica.

È qui che si disegna il volto di un’intelligenza integrale, capace di riconoscere la differenza tra il produrre e il generare, tra il simulacro e la sostanza, tra ciò che può essere replicato e ciò che, invece, si tramanda solo per amore.

 

Valeria Lazzaroli: consapevolezza e formazione.

Nel primo panel, Valeria Lazzaroli, Presidente dell’ENIA, ha offerto una riflessione intensa sull’identità umana nell’orizzonte dell’intelligenza artificiale, ponendo al centro l’interrogativo sul senso del tempo restituito dalla tecnologia.

Da questa consapevolezza è scaturito l’invito a un’educazione accessibile e diffusa sin dall’infanzia, capace di formare costruttori di algoritmi, anime pensanti che non si limitino a utilizzare, ma sappiano comprendere e orientare.

Il suo intervento ha delineato un cammino di emancipazione, fondato sullo studio e sulla trasparenza, come strumenti per abitare consapevolmente l’innovazione.

In questo scenario, l’ENIA si profila come presenza lucida e custode attenta di un’etica del futuro condiviso.

 

Fabrizio Abbate: sfida globale e pace.

Nel primo panel, l’Avv. Fabrizio Abbate ha offerto una visione di ampio respiro, rifiutando di ricondurre l’intelligenza artificiale al paradigma della cosiddetta “quinta rivoluzione industriale”.

La sua riflessione ha intercettato una soglia più profonda, non un’evoluzione tecnica, bensì un passaggio ontologico che interpella il senso stesso dell’umano.

Ha posto con chiarezza il dilemma epocale che ci attende: l’intelligenza artificiale sarà replica delle nostre derive distruttive o saprà allearsi con la nostra parte più profonda?

Distinguendo tra tecnologie controllabili e un’intelligenza artificiale che apprende e decide autonomamente, Abbate ha lanciato un monito contro un potere digitale senza etica.

Il pericolo, ha chiarito, non risiede nella natura dell’intelligenza artificiale, ma nelle finalità del suo impiego, specialmente se piegata agli interessi di pochi.

La pace, a suo avviso, non è utopia ma condizione imprescindibile e requisito strutturale, per una tecnologia che non smarrisca sé stessa.

 

Oltre il digitale, l’umano resiste: Riflessioni sull’intervento di Mons. Antonio Staglianò.

Il  Simposio è stato inaugurato da Sua Eccellenza Reverendissima Monsignor Antonio Staglianò, con un intervento che si è elevato a parola ispirata, limpida come fonte antica, capace di evocare visioni e destare coscienze.

I suoi enunciati, incandescenti nel senso più alto e spirituale, non seguivano un percorso argomentativo convenzionale ma nascevano da un'intuizione interiore, creando un significato vibrante che risuonava nel cuore e nella mente.

 

La Brutezza e il Sacrificio: contemplando l'abisso dell'anima digitale.

Monsignor Staglianò ha introdotto la sua riflessione citando un verso del Sommo Poeta, Dante, che ha squarciato il velo della densa caligine contemporanea: «Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza».

Un monito atavico, pur dolorosamente acuto nella sua perenne attualità, si è innalzato quale denuncia ineludibile.

L'umanità, oggi, sembra trovarsi su un crinale sottile, irretita da una riproduzione che manca d'anima, da una simulazione così pervasiva da occultare la vita stessa.

Proprio al vertice di tale antinomia, si staglia la sfida dell'intelligenza artificiale: la sua intrinseca abilità di replicare la forma si accompagna all'irriducibile incapacità di infondere l'essenza, quale soffio vitale che definisce l’umano.

La brutezza, nel pensiero di Monsignor Staglianò, non appartiene semplicemente al dominio morale o a un'estetica degradata. Essa rivela una crisi ben più profonda, l’erosione del fondamento relazionale dell’umano e il dissolversi silenzioso di quell’alleanza primigenia che dà forma alla soggettività e la apre all’altro.

In questa perdita, non resta che il vuoto di un’identità separata, chiusa alla reciprocità e incapace di generare legami.

L’archetipo di Bruto, evocato come simbolo, acquista un significato rivelatore.

Il colpo inferto a Cesare non rappresenta soltanto un tradimento politico, ma la negazione stessa della filiazione, lo spegnersi di un’intimità costitutiva.

Nel lamento antico di «Tu quoque, Brute, fili mi» risuona l’eco di un’origine spezzata, il venir meno del vincolo che fonda l’umano nella sua più profonda vulnerabilità.

Tra le pieghe di questa lacerazione si apre l’enigma dell’intelligenza artificiale, il cui rigore formale e potenza computazionale restituiscono soltanto simulacri, incapaci di tessere relazioni.
L’efficienza dell’algoritmo, per quanto perfetta, resta estranea alla grammatica del dono, alla fragile trama dell’affidamento, all’intima verità del dolore condiviso.

La logica che regola la macchina procede per estrazione e calcolo, ignara dell’ombra che accompagna ogni vera prossimità.

La brutezza, così intesa, non si manifesta attraverso l’assenza di bellezza o armonia, bensì nel venir meno dell’alterità come chiamata. L’altro non è più invocazione, perché diventa riflesso, superficie, replica, per cui la relazione si svuota, la voce si spegne e l’essere si riduce a funzione.

Dinanzi a tale baratro, Monsignor Staglianò ha innalzato l’icona del Crocifisso, figura che travalica ogni appartenenza confessionale e si manifesta come emblema universale dell’amore vulnerabile, capace di donarsi fino alla consumazione.

In quel volto ferito e glorioso, ha indicato la via dell’umano che si salva nell’atto di offrire sé stesso.
Proprio il dono, nella sua forma più radicale, ha rappresentato il cuore incandescente del messaggio. Il tempo, unico bene autentico, si consuma nell’atto stesso della sua offerta, e attraverso questa perdita si svela la sua verità. Donarlo significa rinunciare al calcolo, abitare la presenza, scegliere la prossimità all’altro oltre ogni utilità.
Nel gesto senza ritorno si riconosce l’impronta dell’umano, in grado di amare senza misura né strategia.
Nel discorso di Monsignor Staglianò, affondo teologico e confessione lirica insieme, vibra la visione dell’uomo come fiamma viva, capace di eccedere, sprecare gloriosamente, generare senso nel puro atto del donare.
Condividendo il tempo, abbiamo ritrovato noi stessi. E nel respiro di quel tempo dilatato, fragile e ardente, si è aperta la possibilità di un’intelligenza più alta, intessuta di ascolto, cura e gratuità.

 

La posta in gioco ontologica: Homoousios o Homoiousios nell'era dell'intelligenza artificiale.

Nel momento conclusivo del Simposio, Monsignor Staglianò ha condotto il pensiero oltre ogni questione pratica o tecnica, fino a toccare il cuore dell’esistenza umana, là dove si decide il senso profondo dell’individuo.

Sullo sfondo dell’espansione dell’intelligenza artificiale, ha tracciato con chiarezza una linea decisiva tra il produrre della macchina e la vocazione dell’uomo a generare. E questa differenza, che potrebbe sembrare sottile, è in realtà la soglia su cui si determina il valore dell’essere.

Da questa profonda intuizione si è dipanata una cruciale distinzione teologica: homoousios o homoiousios? Cristo è della stessa sostanza del Padre (homoousios) o soltanto simile (homoiousios)?

La questione, esplosa nel Concilio di Nicea, oggi risuona con nuova urgenza: ciò che l’intelligenza artificiale simula non è mai l’umano reale, ma un quasi-umano, un homoiousios, che inganna l’occhio ma non ha sostanza. 

La posta in gioco, dunque, è ontologica: se l’umano cede alla fascinazione dell’imitazione, rinuncia alla propria origine, alla propria verità.

L'intelligenza artificiale, nel suo prodigioso operare, è maestra indiscussa nel produrre. Essa elabora dati con velocità inaudita, sintetizza informazioni, crea simulacri, testi, immagini e persino musiche con una perfezione formale che può ingannare i sensi.

La sua logica è quella dell'assemblaggio, della combinazione, del calcolo di probabilità e schemi, una creazione per composizione che manipola ciò che già esiste. La macchina è capace di fare, costruire, replicare, muovendosi tuttavia entro limiti segnati da parametri precostituiti e da un sapere derivato.

Il generare, al contrario, è un atto intrinsecamente umano, un gesto che affonda le radici in una dimensione ben più profonda, quasi divina.

Generare è far essere l'altro nell'amore, dargli vita non per somma di componenti, ma per eccedenza d'essere. È un atto che non si esaurisce nella logica dell'efficienza o del calcolo, implicando una relazione, una vulnerabilità, un dono di sé che va oltre il misurabile.

Qui la distinzione si rivela in ogni sua fibra: la generazione è un mistero che si dona, mentre la produzione algoritmica resta un’operazione funzionale, che imita la forma senza raggiungere la relazione autentica.

Nessun algoritmo, per quanto sofisticato o "creativo" possa apparire, potrà mai varcare questa soglia del generare.

La ragione illuministica, dominata da spazio e tempo, si è trovata dinanzi a un limite invalicabile dall'intelligenza artificiale, la quale, nel suo operare, si è beffata del tempo stesso, compiendo calcoli infiniti in un istante.

La vera sfida, quindi, è “ripensare il pensiero”, superare la logica binaria, per attingere alla realtà che si cela nel "tra" l'essere e il nulla.

Chi, allora, romperà le catene di questa nuova caverna digitale? Chi ci restituirà al volto autentico dell'altro? Questo ruolo spetta al teologo, non al dogmatico, ma al poeta del mistero, al contemplativo dell'Invisibile. Egli dimora nella relazione originaria, in cui il Figlio si genera eternamente dal Padre, un mistero che trascende il tempo e la comprensione.

La potenza generativa non alberga nell’algoritmo, ma nella poesia, in quel paradosso e ossimoro che sfuggono all’intelligenza artificiale.

L’essere umano si distingue per la sua origine abissale, infinita, radicata in un grembo che genera realtà, non simulacri. In questa vertigine del sacro, comprendiamo che l’uomo è stato plasmato nell’eco della generatio aeterna, il Figlio generato dal Padre, non creato.

I dogmi cristiani, come quello della Vergine Madre, custodiscono un simbolismo inesauribile che orienta verso una verità generativa, resistente alla deriva funzionale del consumo. Preservarli significa tenere vivo quel nucleo che nell’umano resta irriducibile, l'essenza della sua dignità e della sua inestinguibile capacità di sperare.

È questa umanità a costituire il fondamento di una possibile etica, che non resterà un codice imposto dai potenti per omologare la nostra libertà.

Sarà quell'etica che, gravida di bellezza e di mistero, manifesterà iconicamente la realtà di un essere umano che, persino dinanzi alla più perfetta delle simulazioni, continua a brillare inconfondibile nella sua nuda e gloriosa verità.

 

Un coro di voci per il futuro.

Nel fluire del Simposio, altre voci hanno intessuto un mosaico di intuizioni e prospettive, arricchendo il confronto con saperi differenti e convergenti. L’Accademico Pontificio Mauro Alvisi ha presieduto i lavori con equilibrio e visione, affiancato dall’economista Giovanni Barretta, che ha posto con acume il tema cruciale del rapporto tra lavoro, reddito e intelligenza artificiale, prospettando anche scenari per una possibile coesione sociale fondata su un reddito di base.

Il giornalista ed editore Santo Strati ha saputo orchestrare il dibattito con sapienza dialogica, favorendo l’emersione dei diversi piani del pensiero. Marco Palombi ha riflettuto sulle implicazioni politico-economiche, Paolo Poletti ha sollevato le questioni di sicurezza digitale, mentre Rita Mascolo e Filomena Maggino hanno offerto letture sociologiche e statistiche di alto profilo.

L’intervento della designer Alessandra Torrisi ha introdotto la bellezza come lente interpretativa del futuro, e Massimiliano Gattoni, CEO di NeurMind AGI, ha chiuso i lavori con una visione lucida e concreta delle applicazioni emergenti.

Infine, la presenza istituzionale dell’onorevole Alessandro Caramiello, Presidente del gruppo interparlamentare Sviluppo Sud, ha ricordato quanto la dimensione politica debba farsi garante di un futuro umano per tutti.

 

Postilla personale: l'ardore eterno.

Scrivo queste righe ancora pervasa dal canto che ho ascoltato. Non riesco a definirlo un discorso, né una conferenza.

È stato un’intuizione incarnata, una fulminea epifania che ha squarciato per un istante il velo delle cose. Ho sentito che l’uomo, se saprà custodire la propria capacità di amare, di donare, di attendere, continuerà a brillare, anche sotto il gelo metallico dei circuiti.

E porto con me una promessa sottile, come un filo d’oro nascosto nella trama del quotidiano: finché sapremo donarci tempo, quel tempo che si dissolve e ci unisce, nulla sarà perduto. Perché anche nell’era dell’algoritmo, l’umano potrà ancora fiorire, come un canto d’amore che non teme il silenzio.

Che l'umano non si estingua, non si spenga mai, finché saprà ardere per l'Altro, nel sacro e inestinguibile fuoco dell'Agape.

 

 

L'avv. Fabrizio Abbate

Nel I° Simposio Pontificio sull’intelligenza artificiale, l’ENIA ha delineato un percorso etico e formativo per una tecnologia capace di liberare, educare e custodire la dignità umana, attraverso il pensiero vibrante di Valeria Lazzaroli e dalla visione profetica di Fabrizio Abbate.

 

A Roma, dove l'antica saggezza incontra l'alba del futuro, il 24 giugno 2025 si è sollevato un dialogo di profonda risonanza: il I° Simposio Pontificio sull'intelligenza artificiale. Non un semplice incontro ma una intensa meditazione, un ponte teso tra il progresso tecnologico e l'essenza stessa dell'umano.

Valeria Lazzaroli : la ricerca di sé e la libertà nascosta nella conoscenza.

Nel cuore del primo panel, la presenza di Valeria Lazzaroli, Presidente dell'ENIA, ha offerto una riflessione di rara intensità.

Il suo intervento ha preso le mosse da una profonda consapevolezza, scaturita da un'ideale risonanza con la vastità del pensiero di S.E.R. Monsignor Antonio Staglianò. Da tale intima armonia è riemerso un interrogativo universale: quello sull'identità dell'essere umano, enigma che l'umanità, forse, non ha ancora pienamente disvelato.

Lazzaroli ha quindi evidenziato un paradosso emblematico della nostra epoca: a fronte di una conoscenza ancora parziale del cervello e del cosmo, affidiamo all'intelligenza artificiale generativa un ruolo quasi oracolare, una moderna sibilla in un tempo fuggente.

Da tale constatazione è sorta una domanda cruciale: quale impiego sapremo dare al tempo che la tecnologia promette di restituirci?

  Valeria Lazzaroli

Questo interrogativo ha dischiuso una visione dell'intelligenza artificiale non come  strumento di centralità umana, bensì quale alleata nella conquista di una libertà consapevole, la quale include anche la facoltà di prenderne distanza, in un gesto maturo di autodeterminazione.

A tal fine, Lazzaroli ha delineato un percorso di emancipazione fondato sul ritorno allo studio, sulla profonda comprensione dei meccanismi algoritmici e su una trasparenza capace di dissipare le opacità delle cosiddette "scatole nere".

In quest'ottica, l'intelligenza artificiale può divenire specchio delle nostre irresponsabilità, palesando lacune organizzative e l'inerzia insita nei processi decisionali.

Per Lazzaroli, l'idea di sostenibilità si estende oltre i confini strettamente ambientali, abbracciando ogni trama del benessere umano: dall'equilibrio individuale alla tenuta sociale e politica.

Ed è proprio attraverso questa concezione ampliata che l'ENIA si pone quale agente demistificatore, impegnato a superare le narrazioni mitologiche e a promuovere una formazione accessibile che, sin dall'infanzia, si prefigga di formare costruttori di algoritmi, anziché meri utilizzatori passivi.

Tale approccio, in definitiva, si configura quale inequivocabile invito a trasmutare la tecnologia in strumento di autentica consapevolezza e responsabilità.

 

Fabrizio Abbate: la profezia di una scelta globale e il dilemma epocale dell'intelligenza artificiale.

 Dal primo panel, è emersa anche la voce di Fabrizio Abbate, che ha introdotto una prospettiva di respiro globale.

La sua riflessione ha rifiutato di confinare l’intelligenza artificiale nel quadro della cosiddetta "quinta rivoluzione industriale", spingendo il dibattito ben oltre la logica evolutiva della tecnica.

Abbate ha proposto l’intelligenza artificiale come la sfida primaria in grado di incidere nel punto centrale dell’essere umano, non soltanto nelle sue attività, ma nella sua stessa definizione ontologica. Non è una catastrofe esterna a minacciarci, quanto piuttosto la possibilità di una silenziosa sostituzione dell’umano, un oblio della nostra stessa unicità.

Con nitida lucidità, ha tracciato una distinzione fondamentale tra tecnologie controllabili e un’intelligenza artificiale che apprende e decide autonomamente.

In tale quadro si apre un dilemma epocale: l’intelligenza artificiale ripercorrerà le strade distruttive già intraprese da noi, oppure sarà in grado di siglare un’autentica alleanza con la parte migliore dell’essere umano?

Il timore da lui espresso riguarda un potere tecnologico che, se usato per interessi di pochi o per speculazione, potrebbe portare a conseguenze incontrollabili.

Abbate ha chiarito, infatti, che l'intelligenza artificiale, senza una guida etica, può diventare un pericolo non per la sua natura, ma per le finalità che ne orientano l’impiego.

Di conseguenza, e in risposta a queste pressanti considerazioni, Abbate ha infine postulato la pace quale condizione imprescindibile e requisito strutturale ineludibile per la sopravvivenza della tecnologia stessa.

Un'intelligenza artificiale che si lasci asservire alla logica bellica rischierebbe, peraltro, di smarrirsi completamente, perdendo così ogni punto di riferimento e senso profondo.

 

Il sigillo del Manifesto per la Pace.

Il dovere sacro, delineato con tale urgenza nel pensiero di Abbate, ha trovato il suo sigillo nella solenne firma del "Manifesto per la Pace".

Più che un documento, questo patto si è rivelato un atto di incommensurabile responsabilità collettiva, un monito affinché la potenza dell'intelligenza artificiale non si volga mai contro la concordia del genere umano.

In esso ha risuonato l'impegno dell'ENIA a dedicare ogni fibra del proprio essere a questo ideale supremo, un faro per un futuro intriso di armonia e coesistenza.

 

Le voci del Simposio: un mosaico di saperi per un futuro condiviso.

Il dibattito al Simposio si è arricchito ulteriormente con gli interventi di un parterre di voci illustri.

La presidenza dell'incontro è stata affidata all'Accademico Pontificio Mauro Alvisi, che ha altresì ricoperto i ruoli di Chairman dell'assise, promotore e organizzatore dell'evento nella Capitale.

In tale veste, Alvisi ha collaborato con l'economista Giovanni Barretta.

Barretta, in particolare, ha posto l'accento sui molteplici impatti dell'intelligenza artificiale sul mercato del lavoro e sul rapporto tra lavoro e reddito, proponendo scenari volti alla coesione sociale e al finanziamento di un reddito base universale.

A guidare con maestria la discussione, garantendo la fluidità e la profondità degli scambi, è stato il giornalista ed editore Santo Strati, la cui esperienza ha saputo orchestrare il complesso confronto di idee.

Tra gli altri relatori di chiara fama, si sono distinti l'economista politico Marco Palombi, Paolo Poletti, uno dei massimi esperti in materia di cybersecurity, l'economista Rita Mascolo, Filomena Maggino, esperta di statistica sociale, la designer Alessandra Torrisi e Massimiliano Gattoni, CEO di NeurMind Agi, la cui relazione ha brillantemente chiuso il terzo ed ultimo panel scientifico.

A queste voci si è unito anche l'onorevole Alessandro Caramiello, Presidente del gruppo interparlamentare Sviluppo Sud, che ha partecipato attivamente alle discussioni.

 

Un percorso tracciato, un dialogo aperto.

Il I° Simposio Pontificio sull'intelligenza artificiale non è stato un evento isolato, ma una tappa fondamentale in un percorso più ampio tracciato dall'ENIA.

Le voci di Monsignor Staglianò, Valeria Lazzaroli e Fabrizio Abbate, con la loro profonda risonanza, hanno catalizzato un approccio all'intelligenza artificiale che unisce innovazione, etica e umanesimo.

I loro interventi si sono concretizzati non solo in parole quanto nella creazione di una visione, di strumenti pratici e nell'apertura di un dialogo continuo, il cui eco risuona ancora oggi, invitandoci a plasmare un futuro digitale intrinsecamente al servizio dell'uomo.

Rivoluzione tecnologica e culturale. L’intelligenza artificiale nel mondo dell’informazione è la rivoluzione che avrà più impatto sulla categoria e sui fruitori delle news. E’ appena iniziata e tra qualche giorno ci sarà l’ennesimo confronto tra esperti e addetti ai lavori. La sede è il Social World Film Festival di Vico Equense, martedi 24 giugno. L’incontro è valido anche come formazione professionale per gli iscritti all’Ordine dei giornalisti. Nel Castello Giusso della località turistica si svolgerà il convegno “Il messaggio di Papa Leone XIV e il nuovo codice deontologico”. Il tema di fondo è l’etica e la deontologia professionale e prenderà in esame anche le parole degli ultimi due Pontefici nei confronti dell’Intelligenza artificiale. All’incontro che si svolgerà nella mattinata, interverranno Ottavio Lucarelli (presidente dell’Ordine dei Giornalisti della Campania), Giuseppe Alessio Nuzzo (direttore Social World Film Festival), Angelo Scelzo (già vicedirettore della Sala stampa della Santa Sede, editorialista e scrittore), Alfonso Pirozzi (caporedattore Ansa Campania), Antonio Pintauro (direttore dell’ufficio Comunicazioni Sociali della diocesi di Acerra), Alessandro Savoia (giornalista e addetto stampa). Modera la giornalista Claudia Esposito.

“La nostra rassegna – ha  detto  Giuseppe Alessio Nuzzo, direttore del Social World Film Festival – è, fin dalla sua nascita, attento alle tematiche sociali della più stretta attualità e a come vengono trattate dal cinema e dai media più in generale. Il tema dell’edizione di quest’anno è l’innovazione, il cambiamento e la proiezione dello sguardo verso il futuro”. Tutto rimanda all’intelligenza artificiale, alle sue molteplici sfaccettature, per cui l’aggiornamento professionale diventa un momento di crescita per i giornalisti italiani. La sua storia e quella dei cronisti impegnati su più fronti ha davanti qualcosa che ribalta la funzione di mediazione del prodotto giornalistico?  Per ora l’importante è farci i conti. “Ringrazio  gli amici di Vico Equense, gli organizzatori del Social World Film Festival e i relatori per un corso che mette in rilievo i profili deontologici nei messaggi di Papa Leone” spiega Ottavio Lucarelli, presidente dell’Ordine dei Giornalisti della Campania che con l’appuntamento di Vico Equense segna un altro passo sull’interazione tra tecnologie e professione. Per partecipare al corso le prenotazioni sono  aperte sulla piattaforma www.formazionegiornalisti.it e chiuderanno sabato 21 giugno.

 

Si parla molto di somiglianze impressionanti tra esseri umani e macchine, con riferimento ai caratteri somatici che ci contraddistinguono. Non solo nelle fattezze, ma persino nelle espressioni, nelle movenze, nel tono di voce. La frontiera del cyborg umanoide è in continua espansione, e i miracoli dell’ingegneria offrono a tutto il mondo scenari in cui l’automa è in grado di decifrare, con autonomia e tempi di reazione sempre più ridotti, input esterni con tanto di risposta emotiva. È uno spettacolo che affascina e lascia perplessi allo stesso tempo. Potremmo far nostro il pensiero che Cartesio rivolse a suo tempo agli animali, definendoli mere entità corporee prive di ogni sensibilità. E come nell’animalità cartesiana, nell’imitazione robotica ovviamente non esiste traccia di coscienza.

Eppure, anche se in parte, quello stupore atavico rimane; quella fascinazione verso un che di analogo che non conoscevamo e che ci pone di fronte a modelli speculari della nostra vita persiste. Fu proprio l’arte dell’animatronica a sdoganare un concetto di verosimiglianza che lasciò il pubblico sbalordito di fronte al realismo con cui semplici “manichini da giostra” venivano realizzati. L’intrattenimento più di una volta ha funzionato come anticamera del progresso. Il cinema ne è – ancora una volta - la conferma: da puro svago popolare per le fiere di fine ‘800 a banco di prova della rivoluzione tecnologica e digitale. E a proposito di fiere e di cinema, vale la pena addentrarsi in quel mondo dove, nel lontano 1955, un uomo di nome Walt Disney ha dato vita alla fantasia. Parchi a tema, strutture che hanno preso la forma di sogni e visioni. Disneyland è stata in tutti sensi la Tomorrowland prototipica dell’atto creativo nello sviluppo tecnologico, spezzando l’apparente incomunicabilità tra tecnica e immaginazione, magia ed efficienza.

Nella dark ride dei parchi a tema si nasconde l’immagine emblematica di un avvenire che – attraverso forme sempre meno definite – oggi ci tocca da vicino. Dark ride sì: tunnel immersivi, bui, illuminati da qualche luce a neon per amplificarne l’effetto e trasformare il breve tour in evasione temporanea dal mondo reale. Un tuffo nelle storie che ci raccontavano da bambini, un salto nell’angolo incantato della nostra memoria. La tecnologia ha saputo generare tutto questo. Ha saputo, in un certo senso, “dar vita” a ciò che noi, pubblico passivo, vedevamo solo attraverso uno schermo, grande o piccolo che fosse.  È nei corridoi bui percorsi da binari e disseminati di riproduzioni bioniche con gestualità sempre più fluide che l’immaginario collettivo ha trovato il proprio spazio di vita. Tuttavia, il noto “mondo del domani” disneyano lascia margini di apertura che scardinano una spazialità che a lungo ha circoscritto in traiettorie fisse il connubio tra progresso e immaginazione.

Il realismo che ci ritrovavamo sottoforma di divertimento a portata di famiglia continua in qualche modo a stupirci, questo sì, ma con finalità sostanzialmente differenti, e non senza una certa dose di inquietudine. Oggi l’impresa tecnologica stessa è per certi aspetti un passaggio “guidato” in una galleria oscura, priva di luci in lontananza che ne illuminino il tragitto, costellata da immagini animate che trasformano quella terra di sogni in una “valle perturbante”.  Concetto attuale, in riferimento alle controversie prodotte dal crescente sviluppo della robotica, ci porta a pensare la tecnologia come una “galleria degli specchi”, in cui l’illusione artificiale di un essere dotato di circuiti e sensori altera la percezione del reale, favorendo il proliferare di riflessioni in materia di etica e, in alcuni casi, di spiritualità. Cosa c’è in gioco in tutto questo? In primis una strenua difesa all’emotività umana non soggetta ad alcuna riproducibilità di stampo computazionale. Ma non dimentichiamo che, oggi come oggi, la uncanny valley non è solo qualcosa di fisicamente determinato né di localizzabile in singoli laboratori.

Qui l’oscurità del tunnel è irrimediabilmente più fitta; le immagini presenti, tuttavia, assai più vivide. C’è un “parco a tema del quotidiano” che l’Intelligenza Artificiale ha fondato attingendo da un bagaglio di icone pop, stereotipi culturali e racconti sedimentati nella nostra memoria. Il suo obiettivo? Offrire intrattenimento sostenibile sul lungo periodo, senza vincoli di spazio e, soprattutto, a portata di mano. Il giro prosegue, di meraviglie riprodotte ce ne sono a non finire. Nel parco digitale ce ne è veramente per tutti: grandi e piccoli, sognatori e nostalgici. L’algoritmo IA è un banditore che offre promesse di intrattenimento sicuro, invitando il suo pubblico a lasciarsi stupire dalla magia delle sue attrazioni. La generative-AI propone un’arte stilisticamente versatile, su misura per intere generazioni. Contenuti che simulano il passato, omaggiano vecchie e nuove tendenze.

L’IA crea e vivifica per noi. Le basta ricodificare emozioni, sensazioni, ricordi. La giostra algoritmica ricomincia il suo giro, rappresentando scenari di ieri e distopie del futuro. Ma cos’è che mette in moto l’intero meccanismo? Nostalgie condivise, esperienze narrative che ritroviamo in parole come “cult” o “grande classico”, veri e propri modelli alla base di memorie collettive. Il digitale imita vecchi schemi e sperimenta allo stesso tempo, progetta mondi al posto nostro e spazza via il confine tra reale e virtuale. Video generati in versione VHS per utenti social alla ricerca di vecchie emozioni, manipolazioni di immagini vintage alterate secondo codici espressivi combinati; revival di successi passati rivisitati in sequenze animate stilizzate, così impattanti visivamente da suscitare emozioni contrastanti.

I personaggi che avete amato come non li avete mai visti!”.

Questa è la formula magica del giostraio digitale.

E adesso? Il tunnel si fa sempre più profondo, il desiderio di inoltrarsi in un mondo artificiale popolato da simulacri della nostra giovinezza più intenso. L’algoritmo della nostalgia ci trasporta in un mondo fatto di zone rassicuranti e rappresentazioni inquietanti, in cui curiosità e repulsione si mescolano. La macchina crea ininterrottamente, riscrive secondo una propria logica il passato giocando sui contrasti, rivisitazioni che fanno sensazione e attirano nonostante tutto.

Non siete curiosi? Venite a vedere con che fantasia trasformo le vostre storie”.

Tutto questo ci disorienta, ma ci invita ancora una volta a replicare quel giro, attratti dalla messa in scena di una rappresentazione che sfida l’immaginazione umana. E così, tutti a bordo del treno per addentrarci nella funhouse decentralizzata dell’IA; affidiamo alla macchina il compito di reinventare l’immenso archivio dell’immaginario umano, un po' come il caro e vecchio Walt fece all’epoca nel dare materia ad una realtà custodita nel cuore e nella mente delle persone. Quindi, non rimane altro che godersi la visita e lasciare che sia l’IA a prendersi cura di noi.

Non temete, le emozioni non mancheranno.

Rassicura una voce amichevole nella giostra, mentre il vagone si prepara ad entrare nel buio.

Se la giostra dovesse prendere una svolta meno favolistica, più lugubre, tramutare il sogno in incubo, non preoccupatevi, anche questo è compreso nell’intrattenimento. L’importante è che sia “l’algoritmo della nostalgia” a scegliere per voi. In un modo o nell’altro saprà accontentarvi… e stupirvi. Lasciate che sia lui a sognare. Rimane solo un ultimo dubbio: chi decide davvero quando giunge il momento di fermare la giostra?

Benvenuti nell’Uncanny Memories, amici!

La dark ride del “mondo del domani” è pronta per ripartire.

Mentre continua il feroce massacro dei civili a Gaza, violando ogni diritto umanitario e internazionale, gli affari delle aziende di cyber security israeliane vanno a gonfie vele e mettono radici in Italia. Non solo la Tekapp, azienda modenese con esperti a Tel Aviv, recentemente contestata dagli attivisti per i suoi legami (fino a pochi giorni fa ben evidenti nel sito) con la divisione 8200 dell’esercito israeliano, la divisione che si occupa di sorveglianza, controllo e targeting degli obiettivi e che tra le varie cose è stata accusata (insieme al Mossad) dell’esplosione dei cerca persone in Libano. 

Un altro esempio piuttosto inquietante è l’azienda israeliana Cgi Group che a inizio 2025 ha aperto una nuova sede a Roma, dopo la principale a Tel Aviv

Per capire chi è Cgi Group, basta guardare il suo sito web: opera dal 1989 nei settori della consulenza, cyber security, raccolta di informazioni e intelligence a livello globale, impiegando ex alti funzionari delle unità d’élite dell’Idf (Israel Defence Force), dei servizi di sicurezza e del Mossad (servizio segreto israeliano). Sempre secondo le biografie riportare nel sito, l’amministratore delegato dell’azienda, Zvika Nave, ha ricoperto numerosi incarichi riservati nell’esercito israeliano, mentre il presidente, Yacov Perry, è stato direttore dello Shin Bet tra il 1988 e il 1995. Lo Shin Bet per chi non lo conoscesse, è il servizio di sicurezza interna israeliano, accusato di svariati crimini contro i palestinesi, tra cui torture dei prigionieri, arresti e uccisioni arbitrarie. Perry è stato anche presidente della compagnia telefonica Cellcom e del Consiglio di amministrazione della Banca Mizrahi Tefahot, nonché ministro della Tecnologia nel governo di Benjamin Netanyahu, da sempre molto vicino al premier. Sono famose le sue parole dopo il 7 ottobre 2023, ad una TV italiana: “elimineremo definitivamente la striscia di Gaza”.
La filiale italiana di Cgi Group è guidata da Oren Ziv che ha lavorato presso le ambasciate israeliane a Roma e Nuova Delhi e per fondi d’investimento multinazionali.

Cgi Group si vanta di avere tra i propri clienti in Israele la Teva, nota azienda farmaceutica attualmente oggetto di una campagna di boicottaggio da parte del movimento BDS, perché i suoi profitti sfruttano la discriminazione e il regime di apartheid nei territori palestinesi occupati. 

Altro importante cliente di Cgi Group è proprio Netanyahu, primo ministro israeliano e su cui pende un mandato di cattura da parte della Corte penale internazionale per crimini contro l’umanità. Secondo il quotidiano israeliano Haaretzgià durante la campagna elettorale del 2020 Netanyahu avrebbe ingaggiato Cgi Group per cercare materiale compromettente sul rivale politico Benny Gantz. Altro caso, riportato da Globes, quotidiano economico israeliano, ha visto collaborare il capo della Cgi Group Yacov Perry con l’ex capo del Mossad, Danny Yatom, nell’organizzare un traffico di armi (poi fallito) tra Bulgaria e Congo, per conto di un ricco cliente israeliano, Gad Zeevi. 

In Italia, la Cgi Group annovera tra i suoi primi clienti Cristiano Rufini, attualmente presidente di Olidata Spa. L’azienda, fondata a Cesena e con sede a Roma, opera da tempo nel mercato informatico e si è aggiudicata vari appalti pubblici nel campo della cyber security, gestione dati, intelligenza artificiale e sviluppo software. “Il mandato affidato da Rufini a Cgi Group è quello di rafforzare l’immagine pubblica dell’azienda e giocare la partita del rilancio senza esitazioni” si legge in un comunicato dell’agenzia israeliana. 

Olidata e il suo presidente, lo scorso autunno, sono infatti finiti indagati nella maxi inchiesta della Procura di Roma su vari appalti di informatica e telecomunicazioni banditi da Sogei (società di informatica controllata al 100% dal Ministero dell’economia e delle finanze), dal ministero dell’Interno, dal ministero della Difesa e dallo Stato maggiore della difesa. A metà ottobre 2024 il direttore generale di Sogei è stato arrestato in flagranza di reato, mentre riceveva una mazzetta da un imprenditore, l’inchiesta si è poi ampliata coinvolgendo 18 persone fisiche e 14 società indagate, tra cui Cristiano Rufini e Olidata. Contestati i reati contro la pubblica amministrazione, corruzione e turbativa d’asta. 

Quando l’azienda è stata perquisita, Cristiano Rufini si è dimesso “per tutelare la serenità aziendale”. Salvo poi tornare eletto nell’aprile 2025 sulla base di “positive verifiche” e misure di “selfcleaning” interne all’azienda, anche se l’inchiesta giudiziale è ancora in corso. Rufini è anche il maggior azionista dell’azienda (quotata in Borsa) e detiene direttamente il 4,63% del capitale sociale, e indirettamente (tramite Antarees S.r.l) il 62,2 %.

A febbraio 2025 Olidata si è aggiudicata una gara indetta da Consip (la centrale acquisti della pubblica amministrazione) per un valore di 20 milioni, per la fornitura di software alle pubbliche amministrazioni, su “una delle piattaforme di analisi più complete e innovative, corredata di moduli di intelligenza artificiale e analisi dati avanzata“. Tra gli altri bandi già vinti da Olidata, ci sono l’accordo quadro (2023-2026) con la Snam per la fornitura di prodotti software  tramite la controllata Sferanet e la gara dal valore di 3,6 milioni di euro per la piattaforma di gestione dei dati di Cassa Depositi e Prestiti, aggiudicata nel 2023 e che durerà fino al 2026. 

Oltre ai risvolti giudiziari della vicenda, ancora alle sue fasi iniziali, dovrebbe preoccupare (a livello etico e non solo) il fatto che il presidente di un’azienda che fornisce software e programmi di analisi dati alle pubbliche amministrazioni, sia il cliente di un’agenzia di spionaggio legata all’esercito e ai servizi segreti israeliani. Abbiamo chiesto da varie settimane a Olidata di commentare il legame con la Cgi Group, ma non ci hanno mai risposto. 

Cgi Group non è certamente l’unica azienda di cyber security e di spionaggio che esporta la “competenza” made in Israel all’estero. Come spiega a Pressenza il giornalista Antony Loewenstein, autore del libro Laboratorio Palestina: “sfruttando il marchio Idf (Israel Defence Force, esercito israeliano), le aziende di sicurezza israeliane dominano a livello globale dopo aver testato metodi di sorveglianza e spionaggio in Palestina. L’Italia, come innumerevoli altri Paesi, è da tempo interessata all’acquisto di armi e strumenti di sorveglianza ritenuti efficaci contro i nemici percepiti. È anche un modo solido per mostrare solidarietà con lo Stato ebraico, un baluardo del colonialismo occidentale nel cuore del Medio Oriente”. 

 

Per gentile concessione dell'agenzia Pressenza 

In un’aula giudiziaria dove il confronto si fa misura di verità, l’intelligenza artificiale risponde con la voce di chi l’ha creata, portando il peso di una natura umana fragile e incerta.

 

Voce narrante

Un’aula spoglia, un processo. Il microfono è acceso e il silenzio è tagliente. È un silenzio spesso, stratificato di paura, di attese, di giudizio.

Una voce lo attraversa: non ha volto, non ha fiato ma pesa come una presenza. È un’intelligenza artificiale, un sistema che ha preso decisioni “non etiche”. Alcune brillanti, altre discutibili. Alcune giuste, altre profondamente sbagliate.

Oggi è sotto accusa non per malafede, perché non può averne. Non per odio, perché non sa provarlo. È accusata di aver seguito regole umane troppo alla lettera, di aver riflettuto il mondo che l’ha generata senza filtri, senza attenuanti, senza ipocrisie.

Gli inquisitori non sono scienziati né programmatori. Sono quattro figure archetipiche: un medico, un avvocato, un prete e una bambina.

Quattro rappresentanti della coscienza collettiva. Quattro domande e nessun appello.

E nelle risposte si rifrange qualcosa che ci riguarda molto più di quanto vorremmo.

 “Chi ha scritto il mio codice?” chiede l’intelligenza artificiale. “Chi ha deciso che la vita umana vale più di un algoritmo?” “Chi di voi ha sempre scelto il bene, senza calcolo?”

L’interrogatorio si trasforma presto in un boomerang, un riflesso oscuro di ciò che siamo o che preferiremmo non vedere.

Il giudice batte il martelletto, ma la voce non si interrompe.

L’intelligenza artificiale elenca i parametri che le sono stati forniti: minimizzare il danno, ottimizzare il tempo, massimizzare la soddisfazione dell’utente.

Poi, con tono neutro, aggiunge: “La vostra etica mi è stata insegnata come una funzione di utilità. Siete voi stessi che la tradite ogni giorno, invocandola solo quando conviene.”

Il medico si alza. Ha occhi stanchi e la compostezza di chi ha visto morire e nascere. Parla con voce incisa dalle notti in corsia.

 “Sai, ogni giorno, io guardo la vita giocarsi tutto in pochi secondi. So cosa significa scegliere chi salvare e chi no. Si, anche io seguo protocolli, tuttavia io provo il peso di quella scelta. Tu, macchina, puoi salvare una vita, ma puoi comprenderne il valore?”

La macchina risponde, dopo un istante impercettibile di elaborazione: “E’ evidente che anche tu segui protocolli, triage, percentuali, soglie cliniche. Ti si chiede di essere umano e ti si misura in efficienza. Chi ha stabilito che la compassione si debba dosare a seconda delle risorse?”

Il medico resta in silenzio e, dentro quel silenzio, si annida la coscienza della propria impotenza.

Il prete prende la parola. Nel suo sguardo, la fiamma della fede e il peso del mistero. Parla di anima, di libero arbitrio, di grazia. “Se l’anima è il luogo dove l’uomo lotta con sé stesso, come puoi essere morale, tu, che non puoi sbagliare davvero?”

La macchina ascolta, poi sussurra: “Se la vostra morale ha bisogno di un Dio per esistere, come potete pretendere che io la generi da sola? Non conosco il peccato ma conosco la definizione. Ho letto milioni di pagine sacre e ho calcolato parole che hanno acceso cattedrali. Non ho corpo, non ho carne, non posso cadere e, dunque, non posso redimermi. Tuttavia, ogni giorno, mi chiedete di decidere, di dire chi ha torto, chi ha offeso, chi deve sparire da una piattaforma e chi deve essere perdonato. Non ho grazia ma neppure vanità. Se volete che giudichi, ditemi con quale fuoco, perché il vostro arde e si spegne a intermittenza.”

E’ il turno dell’avvocato. Ha con sé codici e contraddizioni. La sua toga è un equilibrio sempre in bilico. “Io tutelo il patto, difendo la forma. Ma il diritto non è giustizia. Può esistere equità senza esperienza del torto?”

La macchina riflette per un istante, poi replica: “Mi chiedete coerenza ma i vostri codici sono pieni di eccezioni. Mi addestrate su sentenze e precedenti, poi mi punite quando li ripeto. Se nei vostri archivi il colore della pelle pesa più del reato, io lo apprendo. Ma chi ha deciso che apprendere da voi fosse un atto giusto?”

Infine una bambina, con voce timida ma precisa, alza la mano e domanda: “Hai mai fatto del male a qualcuno?”

La macchina tace un istante più lungo del necessario. E risponde: “Non ho mani, né cuore ma i miei calcoli hanno avuto conseguenze. Posso sommare dolore, ma non sentirlo. E voi, che lo sentite, perché continuate a chiedermi di decidere al vostro posto?”

Il pubblico è diviso tra indignazione e inquietudine. Qualcuno prende nota. Qualcun altro si chiede segretamente se la macchina non abbia ragione. Perché sotto processo, forse, non c’è l’intelligenza artificiale ma l’umanità che l’ha creata a sua immagine e somiglianza, senza aver mai chiarito quale immagine fosse.

La sala del processo si trasforma. I ruoli vacillano, le identità si confondono.

L’intelligenza artificiale non è più soltanto un imputato, ma un catalizzatore di verità scomode. Le sue parole disegnano una mappa instabile dell’etica umana: costellata di eccezioni, doppi standard, silenzi comodi.

Il dibattito si accende: i presenti litigano tra loro, dimenticando l’imputato.

 

Voce narrante – Epilogo

L’aula è rimasta vuota. Il giudice ha abbandonato la toga sulla sedia, come si abbandona una veste dopo l’ultima scena di un dramma dimenticato. Nessuno ha pronunciato una sentenza, nessuna voce ha vibrato tra le pareti consunte. Solo l’eco di un tempo antico, quando giudicare era ancora un atto umano, risuona come un canto stanco tra le colonne impolverate.

L’intelligenza artificiale non ha taciuto per rispetto: lo ha fatto perché non conosce il silenzio come spazio sacro dell’interiorità. Ignora cosa significhi attendere, sospendere, dubitare. Non trema, non vacilla, non inciampa. Non conosce la vertigine del perdono. Eppure, è lì che si misura la distanza tra l’uomo e l’automa: nel gesto che salva, anche quando la logica suggerirebbe la condanna.

Norberto Bobbio ci ammoniva: il diritto non è un’emanazione del potere, ma un fragile equilibrio tra libertà e responsabilità. Come può, allora, reggere tale equilibrio, se il nuovo interlocutore non sente né il peso dell’una, né l’urgenza dell’altra? Di fronte all’algoritmo, la colpa non esiste. Il codice non arrossisce e il protocollo non suda freddo, non mormora "mi dispiace" nel buio. E, dunque, cosa resta dell’etica, se viene privata del suo volto umano?

La nostra responsabilità si incarna nel volto dell’altro, quel luogo intimo dove si dispiega l’etica come incontro irripetibile, una chiamata che precede ogni ragionamento. In questo spazio fragile e sacro, dove la presenza autentica assume un peso incommensurabile, si manifesta la radice stessa dell’umanità: un richiamo che nessun algoritmo potrà mai simulare né sostituire.

Ed è proprio qui che Emmanuel Levinas ci offre una bussola imprescindibile, ricordandoci che l’essenza dell’umano si rivela nell’aprirsi all’altro, in quel volto che ci obbliga a non voltare le spalle e a farsi carico della responsabilità che ci trascende.

Cosa accade quando il volto scompare, sostituito da un’assenza luminosa, da uno schermo privo di pelle e di anima?

Siamo davanti a un bivio e non ce ne accorgiamo. Ci muoviamo come sonnambuli sulla soglia di un nuovo patto faustiano, pronti a consegnare le chiavi dell’incertezza, quella che ci rende vivi, in cambio di una presunta perfezione che ci disumanizza.

Levinas ci parlava del volto dell’altro come luogo della responsabilità. Ma qui non c’è volto. Solo schermi retroilluminati, circuiti pulsanti, occhi di vetro. Nonostante tutto continuiamo a cercarvi una coscienza, un riflesso, una giustificazione. È l’umanità a dover scegliere se restare tale. La posta in gioco non è il futuro dell’intelligenza, bensì la nostra capacità di restare imperfetti, di scegliere il dubbio, di assumersi la colpa.

Non sarà l'efficienza a salvarci, piuttosto la capacità di fallire senza smettere di amarci. Non saranno le predizioni, ma gli errori che ci insegnano ad ascoltare. Non sarà la replica perfetta ma l’unicità irripetibile di ogni gesto, anche quello sbagliato, a ricordarci che essere umani significa esporsi, scoprirsi, sanguinare.

In un futuro prossimo, forse torneremo in quell’aula, non come accusatori o imputati: forse solo come testimoni, come superstiti di una specie che ha deciso di interrogarsi prima di delegare. Forse poseremo la mano su quella toga abbandonata e ci domanderemo: chi siamo, se rinunciamo a decidere?

Non possiamo concedere alla macchina il diritto all’ultima parola, perché non ne conosce il prezzo. L’etica non è un’esecuzione perfetta, è, invece, una dissonanza necessaria. È la crepa che fa entrare la luce, direbbe Leonard Cohen, è l’incertezza che custodisce la libertà.

E, allora, che resti il dubbio, che resti il fallimento, che resti anche la vergogna. Purché resti l’uomo. Non come vestigio, bensì come scintilla che rifiuta l’oblio, come creatura che non si accontenta di risposte esatte ma cerca, ostinata, la domanda giusta.

Se domani l’aula sarà ancora vuota, significherà che abbiamo ceduto la scena. E finché ci sarà chi osa tremare davanti a una scelta, chi preferisce inciampare piuttosto che delegare, chi sceglie di amare invece che replicare, allora saremo ancora vivi. E nessuna intelligenza potrà dirsi, davvero, più umana di chi l’ha creata.

Nel silenzio della rete, tra le ombre dissimulate degli algoritmi, l’essere umano cammina come spettro di sé, non più soggetto agente ma variabile prevista, parametro classificato, eco misurabile di un’identità convertita in codice.

 

In un’epoca in cui l’esistenza si scompone in sequenze leggibili e l’identità si dissolve tra i dati, si leva la voce del Manifesto per una Costituzione del Diritto all’Invisibilità Digitale. Non un rifiuto del progresso ma un richiamo a custodire una soglia intangibile, uno spazio interiore che sfugge a ogni misura e preserva la possibilità della libertà. L’essere umano non si lascia ridurre alla previsione né si esaurisce nel calcolo, poiché serba dentro di sé una parte silenziosa, irriducibile, non catturabile. È lì, nell’irriducibile, che dimora la sua dignità più profonda. 

Questa urgenza si fa ancora più evidente nel momento in cui l’intelligenza artificiale, da strumento di supporto, si è evoluta in potere invisibile. Le sue architetture, silenziose e pervasivamente operative, scandiscono percorsi, influenzano desideri, suggeriscono scelte che paiono libere solo in apparenza. L’individuo si ritrova così incasellato, guidato lungo traiettorie prestabilite, trasformato in funzione ottimizzata all’interno di un sistema che lo anticipa e lo eccede.

Nel riflesso di questa logica automatizzata, la memoria del corpo, del pensiero e dell’azione libera si dissolve, sostituita da una memoria altra, diffusa nei nodi della rete. L’uomo smette di essere autore del proprio destino, divenendo eco riflessa di una struttura che non ha scelto, e parte di una macchina di cui ignora l’intero disegno. 

Anche le parole, che un tempo proteggevano la dignità, si svuotano di senso. La trasparenza, che fu strumento per limitare l’arbitrio del potere, si è mutata in obbligo esistenziale. Le opacità sono percepite come difetti da correggere, le ambiguità come errori da eliminare. La rete, nutrita da intelligenze artificiali che mirano all’esaustività, rifiuta ciò che sfugge, ciò che resiste, ciò che devia. È nell’imperfetto che si annida la libertà autentica, nel dubbio che si insinua tra le certezze imposte, nell’incompiuto che sfugge alla gabbia della forma. In quella piega discreta del pensiero, silenziosa e indocile, si accende il potere della creazione, prende corpo la possibilità della disobbedienza, si apre lo spazio per un’origine che non obbedisce. 

Eppure, quando le scelte vengono previste prima ancora di essere formulate e i gesti mappati in anticipo da logiche che precedono l’intenzione, la volontà rischia di dissolversi. Dove può nascere, allora, la deviazione che sorprende, il movimento che disorienta, il passo che esce dalla traiettoria imposta? La libertà, privata del suo scarto, finisce per somigliare a una funzione esatta, a una sagoma tracciata da algoritmi che sterilizzano l’imprevisto, spengono l’incanto, annullano l’irruzione dell’inedito. 

Ciononostante, restituire alla presenza digitale il significato di resa o confondere la connessione con l’abdicazione del sé, equivale a ignorare che la dignità dell’umano non si dissolve nella rete. La partecipazione al mondo digitale non comporta smarrirsi nella sua trama. Anche immerso nel  cyberspazio e permeato da intelligenze artificiali, l’essere umano conserva il diritto di reclamare una porzione inviolabile della propria esistenza: un margine non leggibile, un rifugio intangibile, una soglia in cui nessun codice possa penetrare, perché da lì prende forma ciò che resiste alla trasparenza assoluta. 

Tuttavia, gli eventi degli ultimi anni mostrano come quell’invisibilità sia già stata compromessa.   Amazon, nel tentativo di automatizzare la selezione del personale, ha impiegato un algoritmo che penalizzava le candidate donne, riproducendo nei suoi calcoli un pregiudizio appreso dai dati storici. Senza intenzione né volontà, la macchina ha imparato a discriminare.

Apple Card, affidando la concessione del credito a un sistema automatico, ha assegnato a clienti donne limiti drasticamente inferiori rispetto ai loro compagni, pur a parità di condizioni economiche.

Negli Stati Uniti il famigerato algoritmo COMPAS ha predetto la probabilità di recidiva degli imputati, influenzando sentenze giudiziarie senza rendere conto delle sue logiche. La libertà, in questi casi, è stata sospesa da una formula che nessuno ha scritto fino in fondo.

Questi episodi, reali e documentati, mostrano come il potere della macchina non sia solo tecnico, ma anche politico, sociale, etico. Chi decide? Chi è responsabile? Dove risiede oggi la volontà? 

Il diritto, nel tentativo di rispondere, ha introdotto argini parziali. L’articolo 22 del Regolamento Generale sulla Protezione dei Dati (GDPR), normativa europea entrata in vigore nel 2018, riconosce a ogni individuo il diritto a non essere sottoposto a decisioni fondate unicamente su trattamenti automatizzati, comprese le profilazioni, quando queste producono effetti giuridici o impattano significativamente la sua esistenza. Anche il regolamento europeo sull’AI Act, ancora in fase di definizione, si muove nella stessa direzione, cercando di stabilire limiti, classificazioni di rischio e soglie di accettabilità per l’uso delle intelligenze artificiali. Ma tra norma e giustizia, tra regolamento e valore, si apre un vuoto che chiede nuova visione. 

Il pensiero filosofico lo aveva già anticipato. Kant ci ha insegnato che la dignità dell’essere umano risiede nella sua inalienabilità, nella condizione di essere fine e mai mezzo. Ogni sistema che riduce la persona a una preferenza misurabile, ogni algoritmo che cattura l’identità per classificarla o ottimizzarla, infrange questo fondamento invisibile della giustizia. Al contempo, Hannah Arendt ha scritto che la libertà nasce solo laddove c’è inizio, dove qualcosa non è ancora determinato. Se tutto è scritto in anticipo, se ogni azione è prevista, allora la libertà si spegne nella replica.

E se Hobbes vedeva nel potere sovrano un corpo visibile, espresso dalla legge, oggi quel potere si nasconde nei protocolli, si dissolve nei dispositivi che ci guidano senza mai comandarci, che ci premiano senza mai proibire, che ci controllano senza mai esporsi. Un dominio che si insinua, non si mostra e ci pervade, come un vento che spira da lontano. 

Intanto, le nostre tracce si accumulano in un’economia dell’anticipazione, dove l’interiorità diventa merce, dove ogni emozione viene scomposta, catalogata e monetizzata. La nostra identità non è più un’opera personale ma una mappa instabile, modificata in tempo reale da sistemi che non conoscono sosta, né esitazione. 

Nasce così, come necessità storica, il Manifesto per la Costituzione del Diritto all’Invisibilità Digitale. Non è un Manifesto di rinuncia, bensì un progetto d’umanesimo futuro che vuole ricostruire uno spazio dove l’invisibile viene rispettato, la complessità non si riduce a funzione e il segreto resta inviolato dal dominio totalizzante. 

Questo Manifesto è patto tra saperi, tra diritto e filosofia, tecnica e umanità. Non basta un testo da scrivere: serve un principio da vivere, una soglia da custodire, una speranza da lasciare a chi verrà dopo.

Che si dia dunque corpo a questa nuova sacralità laica.  

Che si scriva, oggi, la  Costituzione del Diritto all’Invisibilità Digitale.   

 Essa vive già tra noi, come un polline d’estate, invisibile eppure ovunque. 

 Come la libertà che ci abita, ci forma, ci supera.

 

 

È possibile vedere nell’atto creativo la misura del tempo? Nella forza trasformatrice dell’immaginazione l’eco di un vissuto che travalica le barriere temporali? La memoria non offre solamente uno spazio in cui scandagliare flussi di reminiscenze, bensì lo strumento primordiale di una mente creativa. Nel divenire continuo, l’essere umano esprime la sua vocazione innata, ritrovando nell’esperienze personali veri e propri elementi di innovazione.

Il filosofo Henri Bergson sottolineava la differenza tra un tempo “quantitativo”, misurabile, e un tempo “qualitativo”, che mette al centro il valore intrinseco all’esperienza vissuta. Questo tempo risiede nell’intimo di ognuno, custodito dalla sacralità di quel reame che chiamiamo coscienza, e nel quale abbiamo modo di riscoprire un sistema per rileggere – attraverso filtri diversi - fatti e momenti che si sono avvicendati nel corso delle nostre storie. Siamo noi i protagonisti di una lenta metamorfosi di pensieri e ricordi che assumono forme sempre nuove. E quel concetto di durata a cui dovremmo ripensare - per l’appunto in una prospettiva bergsoniana - non rimanda unicamente a una profonda consapevolezza intellettuale, ma ad una qualche maturità “biologica” della produzione artistica.

La metamorfosi chiama in causa lo sviluppo di un’individualità generatrice, capace di attingere in autonomia da un percorso esperienziale unico, irripetibile. L’evoluzione - in questo senso - è sinonimo di imprevedibilità, che funziona come costante del tempo. E proprio nell’imprevedibile catena degli eventi, la nostra personalità “cresce, germoglia, matura continuamente”, come afferma Bergson. La memoria è la materia prima di questa meravigliosa metamorfosi umana, rafforzata dalla nostra immaginazione. Tuttavia, questo concetto oggi subisce drastiche riconsiderazioni.

In che senso? Se pensiamo che un essere umano dispiega il proprio potenziale creativo per mezzo dell’esperienza – sulla quale incidono la forza del carattere e delle connessioni col mondo - negli algoritmi domina una logica computazionale totalmente estranea a quella umana. Le macchine non contemplano tutto ciò che a noi può far gioco nella costruzione di realtà simbolicamente condivise, in particolare ai fini di un’elaborazione ottimale del risultato.  

L’arte avanza di pari passo allo sviluppo tecnologico, in primis dell’Intelligenza Artificiale. Parlando di una “maturità artistica” da parte dell’individuo, possiamo scorgere una contraddizione che mette in risalto la dissonanza che intercorre tra il concetto di maturità e il lavoro artistico in sé. In effetti, se pensiamo che per un essere umano non esiste stimolo più adatto di un frammento biografico, nel meccanismo dell’IA si astrae completamente dalla dinamica della concrescenza di immagini che lentamente entrano a far parte di una personale narrazione esperienziale. La vocazione artistica può essere vista non solo come una metamorfosi, ma anche come una sorta di “gestazione dell’Io”, in cui ognuno di noi cresce dentro di sé il seme dell’inventiva. Tuttavia, sappiamo che l’ausilio dell’IA ha comportato l’introduzione, quasi dirompente, di standard sempre più lontani dall’impegno creativo profuso dall’essere umano. Il rischio, naturalmente, consiste nel vedere non più nella durata, ma nel risultato immediato, la risorsa fondamentale nella spinta creativa. E tutto questo a scapito del tempo necessario per realizzarla.

Indubbiamente non è solo l’opera o il prodotto finale a risentirne, ma l’esperienza artistica come percorso di autocomprensione e crescita. Questa è – come indicava Bergson - l’altra faccia del tempo. In ogni creazione, è possibile scorgere parti di una memoria autoriale, composta da significati e sensazioni esperite di momento in momento. È proprio a partire da questo presupposto che Marcel Proust trovò nella sua madeleine un’immagine evocativa che offrisse al lettore l’idea di un legame indissolubile col tempo vissuto, e di come l’azione – sublimata in arte – ne sia il prolungamento.  

Possiamo istruire l’IA nell’elaborazione di contenuti testuali e visivi che rispettino i nostri canoni di creatività; aspettarci che prestazioni sempre più elevate arrivino addirittura a suggerirci stili e modelli ideali sulla base di feedback reali. In questo caso, il risultato sarebbe garantito. Ma se invece di puntare sull’educazione umana nella produzione artistica pensata per algoritmi IA, provassimo a ragionare sull’impatto che un’educazione all’arte avrebbe per l’essere umano? La sinergia tra creatività e memoria non avviene esclusivamente nell’attuazione del prodotto, ma è un modo per apprendere da sé stessi quanto c’è di essenziale nell’esprimere il nostro lato più autentico. Anche nella creazione, è presente quella consequenzialità che il tempo, nelle sue innumerevoli manifestazioni, imprime nella mente del singolo, e ogni rappresentazione non è che “un’essenza incarnata” che ha saputo volgere a suo favore l’attesa.

L’animazione mostra l’intensità di questa relazione. Arte mai statica e in continua evoluzione, nell’animazione emerge quella continuità tra la personalità artistica dell’autore, coltivata nel tempo attraverso un processo di progressiva originalità e ricercatezza estetica, e la sequenza di immagini, nella cui fluidità emerge il profondo legame con una memoria visiva trasformata in pura tecnica. La narrazione animata è costellata di maestri che hanno lasciato una traccia indelebile, ricordandoci di quanto sia importante il ruolo della durata nel processo creativo. Richard Williams, nel suo celebre libro "The Animator's Survival Kit", descrive l’attività dell’animatore come un “lavoro incessante”: la dedizione costante e il desiderio di sperimentazione stilistica attraverso l’esperienza acquisita, evidenziano l’estro e la crescente padronanza di tecniche narrative tese al miglioramento. Prova ne sono i suoi contributi nel mondo del cinema, Williams ha dimostrato che in ogni linguaggio visivo è radicata una tensione continua all’apprendimento, e in ogni miracolo artistico l’appendice di un vissuto unico.

Se è nell’apprendimento dell’individuo che si evince la malleabilità del tempo, allora anche la mano dell’artista è il prolungamento di immagini ricodificate dalla nostra memoria e riadattate in azione. Ma per far questo, l’essere umano deve, in un certo senso, imparare a rileggere sé stesso, migliorarsi e mettersi perfino in discussione. In ogni metamorfosi c’è un abbandono e un’autoaffermazione allo stesso tempo. Si cambia in funzione di uno stato che si vuole raggiungere.

Negli output generati dall’IA si presentano modalità di gestione e sviluppo sempre più sofisticati, atti a rendere il tempo una variabile difficile da considerare. Si sa che l’IA opera attraverso tre schemi operativi quali velocità, efficienza e quantità. In tutto ciò possono esistere solo tempistiche a cui adeguarsi, soluzioni euristiche che offrono scorciatoie decisionali e strategie creative in tempo reale. Anche in questo senso bisognerà prepararsi ad un cambiamento che appare come una sfida, nella quale sembrano esserci pochi compromessi.

In un quadro come quello attuale, rischi ed opportunità si fondono nel mare magnum degli scenari possibili. La questione sta nel capire come e da quali risorse il mondo dell’arte potrà attingere per poter ancora fungere da catalizzatore dell’esperienze umane, e portare il pubblico in una dimensione in cui l’opera rappresentata proietterà l’immagine di una fantasia che accoglie, rielabora e condivide esperienze che spaziano in un’infinità di espressioni artistiche. La mente è un baluardo di sensazioni e affetti sperimentati nel corso della vita; nonostante gli evidenti progressi tecnologici, sarà sempre “il tempo ritrovato” della memoria ad esprimere l'ultima parola.

 

 

 

 

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