L'informazione non è un optional, ma è una delle condizioni essenziali dell'esistenza dell'umanità. La lotta per la sopravvivenza, biologica e sociale, è una lotta per ottenere informazioni.

Kaleidoscope (1574)

Free Lance International Press

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                                      “Sento che ora non è più il tempo di fare dell’Arte per l’Arte, ma dell’Arte per l’Umanità”.

                                                                 Pellizza da Volpedo

 

       Sono davvero pochi gli artisti la cui immagine  e il cui destino risultino, all’interno della memoria collettiva, indissolubilmente legati ad  un’unica loro creatura,  e che, pertanto, siano noti al grosso pubblico, quasi soltanto grazie ad essa.  

Tutti, infatti, conosciamo il Quarto Stato di Giuseppe Pellizza da Volpedo, capolavoro ultracitato e in mille modi utilizzato, e da molti amatissimo per il fatto di saperci parlare, forse come nessun’altra opera d’arte, di lotte di popolo, di movimenti sindacali, di proteste di piazza, di gente umile che lotta per i propri diritti, di figli e figlie del popolo stanchi e stanche di chinare il capo e fermamente determinati/e a cambiare la storia, di masse di oppressi dignitosissimamente marcianti contro tutti i muri e i fili spinati di tutte le tirannie.

  Il Quarto stato

Ma pochi, però, sono coloro che hanno una qualche familiarità con la variegata produzione del pittore piemontese, e pochi sono anche probabilmente coloro che hanno piena consapevolezza della sua

   Lo specchio della vita

importanza nella storia dell’arte italiana ed europea. Cosa questa dovuta soprattutto a due fattori:

le sue opere sono sparse in diverse gallerie e musei italiani, oppure fanno parte di collezioni private;

prima di quella attualmente in corso a Milano, l’unica mostra dedicata alla sua produzione risale all’oramai lontanissimo 1921.

E’ quindi da salutare con gioia e sincera gratitudine la mostra monografica ottimamente curata da Aurora Scotti e Paola Zatti, e co-prodotta dal Comune di Milano GAM - Galleria d'Arte Moderna in collaborazione con METS Percorsi d'Arte (associazione culturale da anni impegnata nella promozione dell'arte italiana dell'Ottocento in particolare dei pittori divisionisti), allestita presso i locali  della Galleria d’Arte Moderna di Milano, indubbiamente il sito maggiormente idoneo per una simile iniziativa, ospitando già la grande tela del Quarto Stato, nonché quadri importanti di artisti vicini a Pellizza e da lui molto amati, come Giovanni Segantini e Angelo Morbelli.

L'esposizione, composta da una quarantina di opere tra dipinti e disegni, è articolata nelle cinque sale al pianoterra della Villa Reale riservate alle mostre temporanee di GAM e nella sala del Quarto Stato al primo piano del museo, e documenta con efficacia  l'intero percorso dell'artista, dagli anni della formazione fino all’approdo alla pionieristica sperimentazione divisionista, della quale è stato, senza alcun dubbio, uno dei massimi protagonisti.

Certamente assai apprezzabile è che, al fine di facilitare la comprensione della genesi del Quarto Stato ed anche mettere in luce i rapporti dell'artista con la ricca eredità del passato (vedi, in particolare, il Raffaello della Scuola di Atene), sia stata fatta la saggia scelta di esporre anche alcuni dei grandi cartoni preparatori pervenutici, ed una serie di studi bozzetti preparatori disegni finiti di singole figure.

 

Pur essendo lo sguardo di Pellizza rivolto costantemente al mondo degli umili e, in particolar modo, al dramma dell’umana esistenza, percepito e rappresentato nelle sue varie manifestazioni (Sul fienile, Speranze deluse, Fiore reciso),  a dominare, nella maggior parte dei lavori esposti, è la presenza della natura che abbraccia, accarezza e sospinge oltre i confini della solitudine e della sofferenza (vedi, in particolar modo, L’idillio di primavera, La passeggiata amorosa e L’amore nella vita): la  “bella natura” che, come ebbe a scrivere all’amico Occhini nell’aprile del 1903, “assorbe l’uomo e lo annienta per campeggiare essa stessa sfolgorando la sua immortale bellezza”.

   Autoritratto

Numerosi i quadri carichi di valenze simbolistiche che meriterebbero di diventare oggetto di attenta indagine esegetica. Vedi, ad esempio, Lo specchio della vita, frutto di ben quattro anni di lavoro e presentato alla Promotrice di Torino del 1898. Qui, con una raffinatissima tecnica divisionistica, ci viene proposta una scena agreste ingannevolmente poco significativa, ambientata sul greto del torrente Curone, nei pressi dell’abitazione di famiglia:

   Passeggiata amorosa

un semplice gregge in cammino, immerso nel sole e parzialmente riflettentesi nelle acque palustri.  Ma quel gregge proviene da lontano, dalla lettura del Purgatorio dantesco, laddove, nel canto III, si parla delle “pecorelle” che avanzano “timidette”, “semplici e quete” e che

                   “ciò che fa la prima, e l’altre fanno”.

Di che si tratta, quindi? Di una amara denuncia? Di una rassegnata descrizione dell’impossibilità di cambiamento sociale? Di una severa rampogna nei confronti della secolare sottomissione ignava delle masse contadine?

Credo che nella poetica pellizziana non ci sia posto per annunciazioni nicciane e tronfie posture dannunziane. Il cuore del pittore palpita all’unisono con quello degli umili e degli oppressi, e dalle sue pennellate trasuda un compassionevole consentimento empatico che gli impedisce di ergersi a giudice e tantomeno a tribuno.

Di lì a poco, dalla pietas di cui è imbevuta quest’opera, nascerà il capolavoro del Quarto Stato. E quelle pecorelle “timidette”, prive di  identità ed incapaci di ardire, si trasformeranno nelle nobili figure, emananti arcaica fierezza e consapevolezza nitidissima della propria dignità e dei propri diritti che, nel suo massimo capolavoro, avanzano (e continuano ad avanzare) per conquistarsi un legittimo posto nella Storia.

 

                                       

“Bisogna infine volgersi a Pellizza da Volpedo per sentirsi illuminati da un sole che sembri davvero quello dell’avvenire”

                                                                                        Primo Levi

 

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Pellizza da Volpedo. I capolavori
26 settembre 2025 - 25 gennaio 2026

A più di un secolo dall’ultima e unica mostra monografica dedicata all’artista piemontese, realizzata nel 1920 alla Galleria Pesaro, Milano ripercorre la vicenda artistica e biografica di Giuseppe Pellizza da Volpedo (1868-1907) in un’esposizione ideata dalla Galleria d’Arte Moderna che di lui conserva, oltre al suo capolavoro, il Quarto Stato, alcune opere altrettanto significative della sua produzione artistica.

INFOLINE E UFFICIO GRUPPI:

Per informazioni e prenotazioni gruppi e scuole
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02 87159711 (dal lunedì al venerdì, dalle 9:30 alle 13:00)

 

 

November 20, 2025
       Pinus pinea iniezione pini

In una città già provata da anni di scelte discutibili e da una gestione spesso incerta, il lento e doloroso declino dei Pinus pinea di Roma rappresenta l’ennesimo simbolo di una politica miope, distratta e sorprendentemente indifferente al proprio patrimonio naturale, un patrimonio che non è solo estetica ma salute pubblica, identità urbana e qualità della vita. È incredibile che ancora oggi molti cittadini non siano pienamente consapevoli di ciò che sta accadendo, mentre da ormai diversi anni questi alberi meravigliosi, veri e propri guardiani silenziosi delle nostre strade e dei nostri quartieri, combattono contro un parassita arrivato da lontano, la Toumeyella parvicornis, una cocciniglia insidiosa che si attacca alla base degli aghi e succhia voracemente la linfa, indebolendo progressivamente ogni pino fino a condannarlo a una lenta agonia. Dal 2018 la sua diffusione è stata evidente, eppure la risposta istituzionale è apparsa goffamente tardiva, timida, insufficiente, quasi come se il problema fosse irrilevante o come se gli alberi, a differenza dei voti, non meritassero attenzione immediata.

Eppure un rimedio esisteva, ed era noto: l’endoterapia, un trattamento fitosanitario concreto e relativamente semplice, che consiste nel praticare piccoli fori nel tronco e iniettare una sostanza attiva, l’abamectina, insieme a nutrienti capaci di aiutare l’albero a difendersi. La sostanza, veicolata dalla linfa, raggiunge la chioma e colpisce la Toumeyella laddove prolifera, salvando l’albero quando il trattamento è applicato in modo corretto e tempestivo. Nel 2021 lo stesso Ministero dell’Agricoltura ha reso obbligatoria questa pratica per le amministrazioni, proprio per impedire il diffondersi dell’infestazione e per evitare l’abbattimento di migliaia di pini; un’indicazione chiara, diretta, difficile da interpretare in altro modo. Ma a Roma, secondo moltissimi cittadini e associazioni che da anni denunciano il problema, la cura non è stata applicata in modo sistematico né capillare, lasciando intere file di alberi senza protezione, esposti a un destino prevedibile e tristemente annunciato. Oggi il risultato è drammaticamente sotto gli occhi di tutti: pini ormai morti in piedi, scheletri silenziosi che invece di essere curati devono essere abbattuti, con un costo economico enormemente superiore alla spesa che sarebbe stata necessaria per salvarli.

L’endoterapia, peraltro, sarebbe costata appena 50 o 70 euro per albero, mentre l’abbattimento ne costa dieci, quindici, persino venti volte tanto, arrivando a cifre tra i 1000 e i 1500 euro ad albero. Una spesa pubblica assurda, evitabile, che pesa sulle casse comunali e dunque sulle tasche dei cittadini, e che si somma alla già evidente perdita ambientale. Perché ogni albero che cade non è solo un tronco in meno: è una fetta di ombra che scompare nelle torride estati romane, è un filtro naturale per le polveri sottili che viene meno, è un alleato nella gestione delle acque piovane e nella mitigazione dei cambiamenti climatici che viene sacrificato senza un’alternativa pronta. Roma perderà dunque non solo verde ma benessere, qualità dell’aria, protezione, identità; e perderà tutto questo non per fatalità, ma per una gestione superficiale e confusamente burocratica, incapace di percepire l’urgenza del problema e di agire con coraggio e competenza. E, perciò, la domanda sorge spontanea cosa cosa possiamo fare per aiutare questi alberi meravigliosi, e con essi noi stessi? La risposta potrebbe cominciare da una cittadinanza più informata, più vigile, più esigente, una cittadinanza che non accetta più che decisioni lente e incerte compromettano ciò che resta del nostro patrimonio verde. Perché gli alberi non votano, è vero, ma fanno respirare chi vota. E, soprattutto, fanno respirare Roma.

November 20, 2025

Casa Barnekow in via Vittorio Emanuele 83 ad Anagni, in provincia di Frosinone, ospiterà una produzione di rara intensità: “Il dolore” di Marguerite Duras, nell’adattamento curato da Medusa Teatro con la regia di Ivano Capocciama.

L'opera  ("La douleur" in francese) è tratta dal romanzo autobiografico omonimo di Marguerite Duras, pubblicato nel 1985. Sebbene sia nato come testo letterario, è stato poi spesso adattato e messo in scena come monologo teatrale.

 Foto: Eleonora Di Ruscio

Il testo deriva da due quaderni-diario che Marguerite Duras affermò di aver ritrovato anni dopo, dimenticati in una casa di campagna, e di non ricordare di averli scritti. E’ un resoconto viscerale e in prima persona di un periodo traumatico della sua vita.

 L'azione si svolge a Parigi tra il 1944 e il 1945, durante gli ultimi giorni dell'occupazione tedesca e subito dopo la Liberazione.

La parte centrale e più toccante della storia è incentrata sull'angosciosa attesa della scrittrice.

Il dolore non è solo il titolo, ma la sostanza dell'opera. È il dolore dell'attesa, della guerra interiore ed esteriore, della vista dell'orrore. Sul palco la bravissima attrice Giulia Germani, giovane promessa per il teatro, darà voce e corpo a uno dei testi più strazianti della letteratura del Novecento. Per la natura confessionale e introspettiva, l’opera è intesa come un monologo intenso, interpretato da grandi attrici (come Mariangela Melato in Italia o Dominique Blanc in Francia), in cui l'attrice incarna la scrittrice sola sul palco, a tu per tu con il suo tormento.

È una confessione intima che si fonde con la grande storia della guerra, offrendo una testimonianza viscerale della tragedia dei campi di concentramento attraverso gli occhi di chi è rimasto ad aspettare.

L'opera focalizza l'attenzione sulla guerra delle donne che, inermi, aspettano. Il loro dolore individuale si fa universale, un destino di sofferenza e attesa.

L'amore per Robert è il motore della sua resistenza e della sua sofferenza, ma l'orrore della guerra distrugge l'uomo e, di conseguenza, la relazione che era.

Il marito della Duras, Robert Antelme (nella finzione Robert L.), importante figura della Resistenza francese, è stato deportato nel campo di concentramento di Dachau.

Marguerite, che faceva parte della Resistenza, vive in un perenne stato di sospensione e disperazione. Non sa se Robert sia vivo o morto. Questa incertezza diventa una tortura fisica ed emotiva, un "dolore" che la consuma.

Contro ogni previsione, Robert viene ritrovato e riportato a casa. Non è l'uomo che lei ha conosciuto e amato, ma un "rifiuto" distrutto nel fisico (pesa pochissimo, è malato di tifo) e nell'anima. La Duras

 Foto: Eleonora Di Ruscio

descrive con una lucidità brutale lo strazio di vedere l'uomo amato ridotto a un fantasma.

  Foto: Eleonora Di Ruscio

Segue il racconto dei 17 giorni in cui Robert lotta tra la vita e la morte, e l'impegno della Duras e dei compagni per salvarlo, nutrendolo lentamente. Nonostante la sopravvivenza fisica, l'uomo conosciuto è irrimediabilmente perduto. La narrazione si conclude con il distacco finale.

 

 

 

 

 

 

In scena a 
Casa Barnekow, via Vittorio Emanuele 83 Anagni (FR)
Sabato 22 novembre ore 18:30
Per info e prenotazioni 3288350889

 

 

November 19, 2025
Luca Ward è un nome che non si limita a essere letto; si sente. La sua presenza, pur restando spesso celata dietro il sipario di una cabina di doppiaggio, risiede indiscutibilmente nel DNA emotivo e culturale di ognuno di noi. Nato a Roma, Ward è molto più di un artista; è il custode sonoro dei nostri ricordi cinematografici, un attore, doppiatore, direttore del doppiaggio e conduttore radiofonico la cui carriera è una fusione perfetta tra l'arte dell'interpretazione visiva e la magia della trasformazione vocale. È la sua inconfondibile voce, dal timbro caldo, grave e capace di accarezzare l'anima, ad averlo consacrato come il "Re del Doppiaggio" italiano. Quella voce, che sentiamo come familiare, ha donato profondità e carisma a eroi e antieroi che hanno segnato la nostra vita. È lui il coraggio tonante di Russell Crowe in Il Gladiatore, l'uomo che, con il suo "Al mio segnale, scatenate l'inferno!", ci ha fatto vibrare il cuore. È la fredda determinazione di Keanu Reeves (in Matrix e John Wick), la saggezza tagliente di Samuel L. Jackson (Pulp Fiction) e l'eleganza seducente di Pierce Brosnan (James Bond). Ward non ha solo tradotto parole, ha vestito le emozioni di questi personaggi.Oltre a questi trionfi vocali, Ward è un apprezzato volto del piccolo schermo, capace di emozionare in ruoli come quello in Elisa di Rivombrosa, ed è la voce rassicurante e autorevole che ci guida attraverso le meraviglie della storia e della scienza con Ulisse - Il piacere della scoperta. La sua è la storia affascinante di un artista che ha reso il suo strumento un ponte diretto tra l'azione sullo schermo e la risposta emotiva del pubblico, facendoci credere, ridere e piangere, rendendosi per sempre sinonimo dei più grandi miti di Hollywood.

       D-  "Lei è la voce italiana fra tanti, di due grandi attori come Keanu Reeves e Russell Crowe. C'è una voce che ha doppiato che, per sfumature emotive o difficoltà tecnica, le ha richiesto un impegno maggiore rispetto ad altre?"

R- Il processo di doppiaggio inizia sempre con la visione del film e l'analisi approfondita dei personaggi da interpretare. È fondamentale capire la storia e, soprattutto, le sfumature emotive e psicologiche degli attori originali.
Chi doppia spesso lavora con giganti del cinema che affrontano ruoli complessi e impegnativi. Interpretare vocalmente questi personaggi richiede grande rispetto e impegno; l'emozione è talmente intensa che, come metafora, ci si "fa il segno della Croce" prima di affrontare l'incarico.
Tra tutti i ruoli doppiati, quello che è rimasto più nel cuore è l'interpretazione di Russell Crowe nel film Il Gladiatore. Questo personaggio e la sua storia sono considerati "intramontabili" e l'esperienza di dargli la voce è stata per me particolarmente significativa.
Ogni doppiaggio richiede studio e rispetto per il personaggio, ma doppiare Russell Crowe ne Il Gladiatore è stato per me, forse il momento più memorabile.

        D- "Nella sua autobiografia parla di 'talento di essere nessuno'. Cosa intende con questa espressione e quanto è importante per un doppiatore saper 'sparire' dietro il personaggio?"

R- Il ruolo del doppiatore racchiude una dualità affascinante: la capacità di essere tutti e nessuno contemporaneamente. Questa riflessione tocca l'essenza stessa dell'interpretazione vocale. Interpretare un vasto numero di attori e personaggi conduce a una domanda fondamentale: "Alla fine, chi sei?" Si entra nella pelle (o nella voce) di innumerevoli figure, ma si rimane consapevoli che nessuna di esse rappresenta l'identità finale dell'interprete. Nonostante la miriade di "maschere" vocali adottate, l'identità di base permane e si riafferma: "resto solo Luca.” È innegabile che ogni doppiatore, come ogni attore, immetta una piccola parte di sé in ogni performance. Questo contributo è inevitabile e, se ben gestito, essenziale per dare anima e verità all'interpretazione L'abilità cruciale del doppiatore risiede nel trovare il giusto equilibrio.È fondamentale però non esagerare con il proprio apporto personale. Il compito primario è seguire e rispettare l'interpretazione originale dell'attore che si sta doppiando, mettendo il proprio talento al servizio del suo ruolo.

        D- "Dato il suo coinvolgimento nel Ward Lab e come Presidente della Fondazione del Teatro di Brindisi, quanto è importante oggi per un artista investire nell'insegnamento e nella diffusione della cultura teatrale e del doppiaggio?

R- Non ricopro più la carica di Presidente della Fondazione del Teatro di Brindisi. Gli impegni pregressi, infatti, mi hanno portato a lasciare questo ruolo di grande responsabilità ad altri. Mi chiedi quanto sia importante investire per la diffusione della cultura teatrale; ritengo che il teatro sia un passaggio indispensabile per la crescita e la formazione di un artista, le nuove generazioni di attori sono spesso attratte direttamente dal cinema e dalla televisione, tuttavia, per imparare e crescere professionalmente fino a diventare un artista completo, è cruciale e fondamentale partire e passare dall'esperienza teatrale.

        D- Tra tutti i suoi ruoli, sia nel doppiaggio, in TV o in teatro, c'è un lavoro specifico a cui è rimasto particolarmente legato nel corso degli anni? E cosa rende quel progetto così speciale per lei?

R- La verità è che non c'è un lavoro particolare – che si tratti di uno spettacolo teatrale, un film o un doppiaggio – al quale io sia legato più di altri. Ho amato e mi sono dedicato a ogni singola interpretazione con lo stesso profondo impegno e con l'obiettivo di donarla allo spettatore, dietro ogni ruolo c'è stato un grande rispetto per il compito che andavo ad assolvere, una dedizione che prescinde dal risultato finale. È umano riconoscere che non sempre il risultato è stato "eccelso" in senso assoluto, ma l'amore e l'integrità riversati in quel momento interpretativo sono sempre stati al massimo. In fondo, ogni esperienza contribuisce a formare l'artista che sono, e per questo, le porto tutte nel cuore.

       D-Luca, i suoi impegni sono molti e vari. Per chi volesse vederla dal vivo in questi giorni, qual è lo spettacolo teatrale o il tour (sia come attore, regista o doppiatore live) che sta portando in scena attualmente?
Vuole parlarcene?

R- In questi giorni sto portando nei teatri uno spettacolo dal formato completamente nuovo e particolare.
Non si tratta del classico monologo, bensì di uno show interattivo che rompe la quarta parete: coinvolgo direttamente il pubblico in sala, invitandolo a cimentarsi con me sul palco.
Lo spettacolo, intitolato "Il Talento di tutti e nessuno", farà tappa a Milano con tre repliche: 12, 13 e 14 Dicembre.
Successivamente, la tournée proseguirà in un percorso che toccherà i teatri di tutta Italia.

            D- Cosa consiglierebbe ai giovani di oggi che volessero avvicinarsi al teatro?

R I giovani che scelgono la strada del teatro fanno una scelta eccellente. L'esperienza teatrale va ben oltre la semplice recitazione: Solo attraverso il teatro si può realmente diventare attori completi. È una vera e propria scuola di vita, un percorso che è al tempo stesso cura, benessere e formazione profonda per l'individuo stesso Lo spettacolo dal vivo (il teatro) fa bene non solo all'attore, ma anche al pubblico. Lo spettatore entra indirettamente a far parte dell'azione in un evento in diretta e irripetibile; lì si realizza un'esperienza unica di empatia ed emozione, un "tutt'uno" magico in cui l'attore, la storia e il pubblico vivono e testimoniano quell'evento nello stesso identico momento. In questa formulazione, si evidenzia la doppia funzione del teatro: come strumento di crescita personale e come esperienza di connessione emotiva condivisa.

         D  Perfetto, Luca. Ci avviamo alla conclusione. Vorrei lasciarle un momento completamente libero: c'è un messaggio, un pensiero, un aneddoto o semplicemente un saluto che vorrebbe rivolgere direttamente al pubblico che la segue e la stima, magari qualcosa che in questa intervista non abbiamo avuto modo di toccare?

R-  In questo spazio concessomi, mi rivolgo ai giovani, con la sincerità di un uomo adulto e con il cuore di un padre di tre figli. Ascoltate questa verità fondamentale:
Abbiate Coraggio! Non permettete mai a voi stessi di rinunciare al primo ostacolo. Non lasciate che i "NO" iniziali vi definiscano o vi fermino. La vita, la carriera, l'arte sono piene di resistenze, ma la vostra forza deve essere più grande di ogni rifiuto. Quando sapete cosa amate, quando il vostro sogno è chiaro, dovete spingervi fino in fondo. Fate assolutamente tutto ciò che è umanamente possibile per realizzare i vostri sogni. L'unica cosa insopportabile non è fallire, ma non averci mai provato. Ricordatelo sempre: la vita è un dono di una bellezza e un valore inestimabili. Non sprecatela mai vivendo al minimo. Date il massimo e mettetecela tutta per esaudire la vostra vocazione e i vostri desideri, in modo da non dover mai guardarvi indietro con il peso di un solo, terribile rimpianto. Vi auguro la forza di seguire la vostra passione, sempre.
November 18, 2025

 

 

E’ un piacere dare il benvenuto a un volto e una voce molto noti e amati dal pubblico italiano: Corrado Tedeschi. Attore poliedrico e conduttore televisivo di grande esperienza, Corrado Tedeschi ha saputo spaziare con successo tra diversi generi, conquistando il pubblico con la sua eleganza e la sua verve. La sua carriera televisiva è indissolubilmente legata alla conduzione di programmi storici che hanno segnato un'epoca. Negli ultimi anni, si è distinto per la sua intensa e brillante attività in teatro, dove ha dimostrato una profonda sensibilità e una grande padronanza della scena, recitando in commedie e spettacoli di successo. Ha inoltre partecipato a diverse fiction televisive, confermando la sua versatilità come attore. Un professionista che ha saputo mantenere vivo il legame con il suo pubblico attraverso il piccolo schermo e il palcoscenico.
La sua gentilezza si è dimostrata anche nel fatto di avere accettato di rispondere alle domande.

D- Lei è figlio di un Ufficiale della Marina Militare e ha trascorso i primi anni della sua vita spostandosi. Quanto crede che queste esperienze giovanili e il costante cambiamento abbiano influito sulla sua versatilità come artista e conduttore?

R-Quando si è figli di un marinaio si sa che si deve “partire”. Anche ora continuo a viaggiare come facevo da bambino, fare la valigie mi sembra così naturale che se per qualche giorno non le faccio per raggiungere i teatri, mi sento a disagio.

D- Prima della recitazione, ha tentato la carriera di calciatore nelle giovanili della Sampdoria. C'è un insegnamento o una mentalità appresa sui campi da gioco che ha poi ritrovato utile sul palco o in studio televisivo?

R-sono le due ultime forme di espressione “vive”, in un’epoca dove tutto è virtuale, quindi un po’ si assomigliano.Il suono dell’applauso a

 Corrado Tedeschi

teatro e l’emozione del gol provocano la stessa meravigliosa e violentissima sensazione.

D- Nel corso degli anni ha toccato tutti i generi, dai quiz allo sport (Studio Sport, Italia 1 Sport) fino all'intrattenimento leggero (Buona Domenica, Stranamore). Quale ambito della televisione le ha dato la maggiore soddisfazione professionale e perché?

R-ogni cosa che ho fatto in tv mi ha arricchito e completato.
Essere eclettici in tv “dovrebbe” essere una grande ricchezza ….


D- il teatro è diventato sempre più la sua principale occupazione, culminando nel 1999 con il ruolo di primo attore al Teatro Franco Parenti di Milano. Cosa le offre il palcoscenico che lo schermo televisivo non può dare?

R- a teatro non si può sbagliare e si è circondati di persone che, chi più , chi meno, conosce il proprio mestiere .
La televisione invece è diventata una immensa palestra per dilettanti….


D- Parlando sempre di teatro, nel 2013 ha portato in scena Trappola mortale e in tempi più recenti è tornato in televisione con il programma Top Secret su Business 24. Quali sono le sue sfide e i suoi obiettivi attuali, e c'è un progetto (teatrale o televisivo) che sogna di realizzare in futuro?
Se si quale? Vuole parlarcene?

R- i progetti ci sono ma non si rivelano (gli attori sono superstiziosi…)
D- Prima di salutarla, le lasciamo un momento e uno spazio completamente libero per poter comunicare un messaggio, un ringraziamento o un pensiero finale al suo pubblico e ai nostri lettori/telespettatori. A lei la parola.

R- in un ambiente dove impazzano i raccomandati e gli agenti potenti etc.., io devo ringraziare il mio unico “sponsor”, il pubblico, con il quale ho un meraviglioso rapporto d’amore e di fiducia.
Il pubblico va sempre rispettato e mai tradito.

 

A tu per tu con Corrado Tedeschi. Presto di nuovo in teatro con:
“L'uomo che amava le donne" (titolo originale L'Homme qui aimait les femmes) di François Truffaut, del 1977 –
Ecoteatro  di Milano il 21 e il 23 Novembre 2025

November 16, 2025

November 10, 2025

   

 “Siamo stati alberi, piante, erbe, minerali, scoiattoli, cervi, scimmie e animali unicellulari, e tutte queste generazioni di antenati sono presenti in ogni cellula del nostro corpo come in ogni cellula della nostra mente. Noi siamo la continuazione di questa corrente di vita.”

                                                                                       Thich Nhat Hanh 

 

In questi ultimi anni, il tema della Natura, della sua devastazione in corso e della crescente consapevolezza relativa alle irrimarginabili ferite che l’idiozia umana le sta infliggendo, si va sempre più imponendo, in maniera più o meno sentita e sincera, all’attenzione generale. Ma il concetto di Natura, al di là delle mere apparenze che ce lo possono far sembrare come uno dei concetti  massimamente evidenti e di comune condivisione, ad uno sguardo attento, non può che risultare di assai difficile definizione.

Il soggetto umano, infatti, risultando impossibilitato dalla propria limitata e limitante struttura cognitiva a penetrare nella sua intima essenza, non è in grado di andare oltre la veste fenomenica di ciò che comunemente chiamiamo Natura, in quella che, kantianamente, possiamo ritenere la realtà noumenica o realtà in sé.  Per cui, potremmo dire che ognuno di noi percepisce, elabora e si costruisce una propria rappresentazione della Natura, e che ogni scuola di pensiero ha finito per costruirsene una peculiare immagine concettuale.

Con il risultato che, ad invocare ed evocare la Natura, incontriamo sia coloro che, come Erasmo da Rotterdam, sostengono la “naturale” bontà dell’essere umano, sia quelli che, come Thomas Hobbes, si fanno teorizzatori della condizione del “bellum omnium contra omnes” e dell’ “homo homini lupus”. E al magistero della Natura si ritengono autorizzati ad appellarsi sia gli irenici teorizzatori della nonviolenza, sia i

 Giordano Bruno

teorizzatori della “lotta per la vita” e della guerra come suprema “igiene del mondo”.

Nicola Abbagnano, nel suo insuperabile Dizionario di Filosofia, ci fornisce elementi di conoscenza preziosi per provare a prendere consapevolezza delle varie concezioni della Natura che si sono sviluppate nell’ambito della storia del pensiero occidentale, aiutandoci a comprendere come, inevitabilmente,  ci troviamo di fronte non certo ad una visione omogenea e monolitica, bensì ad un grande serbatoio di concetti diversamente allacciati fra di loro, a volte in stretta correlazione, a volte in radicale contrapposizione.

Ci spiega, infatti, come la Natura sia stata intesa, nel corso del tempo, come “il principio del movimento o la sostanza”; come “l’ordine necessario o la connessione causale”; come “l’esteriorità, in quanto contrapposta alla interiorità della coscienza”; come “il campo d’incontro o di unificazione di certe tecniche d’indagine.”

Nel primo caso, la Natura viene ad essere interpretata come principio di vita e di movimento di tutto ciò che esiste: forma e sostanza,  intesa sia come causa efficiente e sia come causa finale della totalità delle cose; natura naturante e, nello stesso tempo, natura naturata. E sarà soprattutto la cultura umanistico-rinascimentale ad approdare a questo tipo di sfolgorante esaltazione speculativa: Nicolò Cusano affermerà che la Natura “E’ lo Spirito diffuso e contratto per tutto l’universo e per tutte le sue singole parti”, mentre Giordano Bruno arriverà a dirci che la Natura “o è Dio stesso o è la virtù divina che si manifesta nelle cose”. In questa prospettiva, la Natura appare come un principio inesauribilmente dinamico, perennemente e infinitamente  creatore.

Nel secondo caso, invece, la Natura viene ad essere intesa come ordine e necessità, ovvero come l’insieme della connessione dei vari fenomeni secondo regole necessarie o leggi. La necessità – afferma Leonardo – è “inventrice della Natura, e freno e regola eterna”, mentre Galileo la considera come l’ordine matematico ed immutabile dell’universo.

Nel primo caso, ci veniamo a trovare in una prospettiva dinamica che possiamo definire di carattere organicistico-vitalistico, in cui possiamo fare rientrare sia le tendenze ilozoistiche dei filosofi presofisti, sia lo “slancio vitale” e l’Evoluzione creatrice” di un Henri Bergson.

Nel secondo caso, riscontrabile già nel pensiero di un Democrito o di un Epicuro, ma peculiare, in particolar modo, del pensiero scientifico moderno, prevale invece l’immagine di un cosmo rigidamente

  Thich Nhat Hanh

meccanicistico, retto da leggi oggettive che tutto regolano secondo criteri fissi e necessari, e perciò senza alcun orientamento finalistico.

Nel tempo, queste due concezioni sono apparse, perlopiù,  ideologicamente inconciliabili: da una parte, una natura viva e pulsante, attraversata da un’inesauribile spinta evolutiva; dall’altra una natura dominata da una rigorosa architettura geometrica, eternamente guidata da un ordine di carattere ciclico.

 Helena P. Blavatsky

A dire il vero, dal pitagorismo alla fisica quantistica, non sono mancati geniali tentativi di sposare le due opposte visioni, sostenendone l’intrinseca convergenza e complementarietà. Quello certamente più riuscito, vero punto di approdo delle scuole esoteriche del passato e, al contempo, fonte di illuminata ispirazione per le più ardite aperture biofisiche e astrofisiche dei nostri giorni,  è, a mio avviso, quello realizzato dalla costruzione cosmologica de La Dottrina Segreta di Helena Petrovna Blavatsky. In essa, l’intero Cosmo è definito  vivo e cosciente in ogni sua singola parte: la Divinità, intesa come un Principio assolutamente impersonale, è ritenuta essere presente in ogni singolo atomo e il Tutto appare come intimamente progettato, generato e retto da una Forza intelligente: “Le radici, il tronco ed i suoi numerosi rami sono tre oggetti distinti, ma un solo albero.” *  Nello stesso tempo, è ferma la convinzione che esista  “un piano”  anche “nell’azione delle forze apparentemente più cieche” e che, quindi,  “Tutto l’ordine della Natura” manifesti “un cammino progressivo verso una vita superiore”. **  Secondo il pensiero teosofico, “il mondo è il prodotto di un’evoluzione che parte dal principio eterno” e questo principio (“inconoscibile” nella sua intima essenza) “è presente in tutte le cose ed in tutti gli esseri; esso è tutte queste cose e tutti questi esseri. Nell’eternità dei tempi, le manifestazioni che periodicamente appaiono e scompaiono, emanano da questo principio. In questo flusso e riflusso, l’evoluzione avanza ed essa costituisce il progresso della manifestazione.” ***

Ovvero: c’è vita pulsante ed infinita all’interno di una struttura matematicamente ordinata e c’è logicità e regolarità all’interno di un processo evolutivo perennemente in divenire. La Natura, teosoficamente intesa, assomma in sé l’esistenza di leggi fisse e immodificabili accanto all’inarrestabile esuberanza di una plotiniana “sovrabbondanza d’essere”, che la sospinge a rigenerarsi all’infinito, in un inesausto cammino evolutivo  di autoperfezionamento.

Come successivamente dirà il monaco zen Thich Nhat Hanh, ogni atomo di un granello di polvere “è dotato di intelligenza ed è una realtà vivente” , e la Natura non è soltanto intorno a noi, ma noi stessi “siamo LEI”: la nostra esistenza, pertanto, è indissolubilmente intrecciata con quella di un’unica immensa realtà vivente, tanto che, a ben guardare, potremmo scorgere (e percepire) l’esistenza di  una sorta di “cordone ombelicale” che ci lega alla “nuvola che fluttua nel cielo”.

Da una simile prospettiva unitaria e unificante, se ben compresa e ben assimilata, potrebbe (e dovrebbe) emergere una felice risposta ai tanti mali del tempo presente:

una consapevolezza generatrice di pensieri e azioni armoniosamente rispettosi e responsabili, in grado di indurci a rinnegare ogni forma di rapporto inquinato dalla separatività e dalla prevaricazione, e capace di farci assaporare ed amare l’incommensurabile meraviglia dell’Essere in cui “Tutto è un miracolo”, e in cui tutti “inter-siamo”.

 

Il sorriso della Terra,

la nostra Madre dai capelli verdi,

porta uccelli e farfalle alle foglie e ai fiori. (…)

 

Il giorno che trafiggerai l’illusione

troverai anche tu quel sorriso.

Niente resta e niente va perduto. …”

 

                                                              Thich Nhat Hanh 

 

NOTE

 

*La Dottrina Segreta I, Cosmogenesi, ETI, Vicenza 2010, p.111.

**Ivi, p.287.

***William Quan Judge, Princìpi generali della Teosofia,Lucifer, dicembre 1893.

 

 

 

 

 

November 05, 2025

 Torna in scena questo fantastico spettacolo che tanto mi piacque ed emozionò quando lo vidi nel lontano 2021, al Teatro Sette.

Si tratta di una bella storia di amicizia che prende vita in piena guerra, sotto l’occupazione tedesca, e in cui fa da sfondo un fatto storico poco conosciuto. Sul palco due grandi interpreti, due giganti che insieme vi coinvolgeranno divertendovi ed emozionandovi.

L’idea nasce dalla mente di Stefano Reali, che scrive una bella commedia dedicata alla Resistenza romana e in special modo a Ugo Forno, un ragazzino di dodici anni immolatosi, il 5 giugno del 1944, per salvare il Ponte Di Ferro sull’ Aniene. Ultima vittima dei partigiani romani che ha meritato una Medaglia d’oro al Valore civile. Morendo con i suoi compagni coetanei, impedì ai genieri tedeschi di distruggere il ponte ferroviario. I tedeschi però uccisero lui e gli altri con dei colpi di mortaio. Oggi quel ponte porta ancora il suo nome.

Otello e Tazio, uno “stagnaro” e un orologiaio, sono amici. Il primo più titubante, il secondo più determinato, grazie alla loro grande amicizia trovano insieme quel coraggio per riscattarsi da una vita passata senza esporsi mai troppo. Due cuori grandi, due caratteri diversi che però si compensano e unendosi trovano la forza di compiere qualcosa che cambierà le loro vite.

Decidono di tagliare i fili delle mine tedesche posizionate per far saltare questo ponte, che attraversa l’ Aniene e che, se abbattuto, rallenterebbe l’avanzata degli Alleati.

I due stupendi personaggi a cui danno vita Massimo Wertmuller e Rodolfo Laganà riportano inequivocabilmente alla mente i grandi Alberto Sordi e Vittorio Gassman ne “La Grande Guerra”. Forse, chissà, Reali ha voluto fare un tributo a questi interpreti con altri due mostri sacri dello spettacolo, ma con una storia completamente diversa.

La sceneggiatura inserisce i due anonimi personaggi nella storia di Ugo Forno dando voce a tutti quegli eroi rimasti sconosciuti alla storia e che si sono immolati per la libertà e per la patria. Chissà quante storie come queste sono accadute e di cui non sappiamo né sapremo mai nulla...

La coppia Wertmuller - Laganà è fantastica, più che credibile nel ruolo, vincente ed avvincente, ci dimostra che in ognuno di noi può nascondersi un eroe che inaspettatamente si può ridestare davanti ad un sopruso o ad una violenza. In un’ora abbondante i due artisti ci riportano indietro nel tempo, a quell’infausto '44 in piena guerra civile, con gli Alleati ormai alle porte di Roma. Abiti, dialetto, atteggiamenti sono proprio quelli dei romani di quei giorni. Chi mi segue, sa che adoro il timbro di voce di Massimo e Rodolfo, inconfondibili e molto personali, ma che evocano, con la loro romanità, i grandi attori della vecchia generazione come il nostro Albertone. Anche se gli anni passano, i nostri sono inossidabili; una recitazione, la loro, che entra nel cuore, lo tocca, lo solletica, lo emoziona. Battute semplici, veraci, naturali e sempre efficaci in cui ogni romano si riconosce. I loro atteggiamenti, le espressioni e le movenze sono il trampolino di lancio verso una risata liberatoria che smorza i toni del dramma che stanno vivendo. Perché in fondo di questo si parla, del dramma dei tanti civili morti a Roma dopo l’8 settembre del 1943.

Grazie alla vecchia scuola del cinema e del teatro romano, che attinge alla romanità più pura e profonda, tutto si muove in un’atmosfera realistica pregna dell’ umorismo che caratterizza il romano. Si ride, ma non mancano i momenti drammatici, che ben si incastrano con quelli più leggeri e danno sapore alla storia. I nostri litigano, discutono, si aiutano, si sfottono, ma di fondo si vogliono bene e questo risulta sempre ben chiaro. È una storia di amicizia con alti e bassi che ci viene presentata con ironia, simpatia e drammaticità. Uno spaccato di vita di un momento tragico della nostra storia, sempre affrontata con tatto e delicatezza. Loro sono semplicemente eccezionali, non vorresti che smettessero mai di recitare, che quella atmosfera surreale ma così concretamente reale  non si interrompesse mai.

Bella, realistica ed accurata la scenografia che ricostruisce la parte inferiore del ponte, animato da suggestivi giochi di luce; piacevole e realistico anche il rumore dell’acqua del fiume che si sente scorrere in sottofondo per tutto lo spettacolo, i latrati dei cani lontani, i passi improvvisi, le voci dei tedeschi che si avvicinano, gli spari, il rumore dei cingoli dei carri armati… Tutto viene sottolineato da efficaci inserzioni musicali nei passaggi drammatici più intensi. Uno spettacolo ben scritto, con una bella regia e due icone del cinema e del teatro italiano a rappresentarlo Due grandi personaggi da vedere, gustare, assaporare e rivedere ancora.

 

Teatro Sette Off
“Amici per la pelle”
con Massimo Wertmuller e Rodolfo Laganà,
scritto e diretto da Stefano Reali

 

November 05, 2025

“Il futuro non è sempre avanti, a volte bisogna fermarsi e tornare indietro per raggiungerlo”.

Dopo aver assistito ad un'anteprima di Circo Paradiso nell'arena estiva del Teatro Tor Bella Monaca di Roma, lo spettacolo debutta ufficialmente (prima nazionale) al Teatro Metastasio di Prato dal 4 al 9 novembre, per poi approdare a Roma da al 13 al 30 novembre al Teatro Manzoni.

Cesare e Attilina sono due  trapezisti in pensione. In passato,  oltre che compagni di lavoro erano anche legati affettivamente.

Dopo tanti spettacoli ed una florida carriera, finalmente giunge per loro un riconoscimento: vengono chiamati ad esibirsi nuovamente in una serata in loro onore, dove  riceveranno il meritato premio a cui anelano tutti i circensi: il “Trapezio d’oro”.

I due non si vedono ormai da oltre trent’anni, le loro strade si sono divise ma il destino ha deciso di ricongiungerli per questa serata. Le “lucciole del circo”, come venivano chiamati quando erano famosi, sono pronti a tornare insieme in scena.

Il racconto si fonde tra passato e presente attraverso emozionanti flashback. Le coppie rappresentate sono due, quella dei protagonisti piuttosto anziani, affaticati e provati, e l’altra dei due giovani e pieni di vita. La prima coppia anziana è  dolcissima ed estremamente romantica nonostante il tempo, si lascia andare a piccoli e buffi diverbi, teneri battibecchi in cui conservano la loro fanciullezza, la spontaneità e la complicità che li accompagnerà per tutta la storia. È evidente che si amano ancora.

Nell’altra versione Agnese e Tiziano, da claudicanti ed affaticati anziani si trasformano in pochi istanti in due giovani aitanti, pieni di fiducia e speranza nel futuro da costruire. Voci squillanti e appassionate sostituiscono quelle borbottanti e dolcemente pungenti; impettiti e pulsanti perdono all’improvviso la postura affaticata e le movenze lente e incerte. Sembra di avere sul palco quattro attori, anziché due!

Attraverso i passaggi da un’età all’altra ci accompagnano nel  loro percorso di vita, toccando con noi i momenti più significativi e belli.

Ancora bambini, lui figlio di un falegname sardo e ammaliato dal circo, lei di circensi con l’aspirazione di diventare trapezista, si incontrano, poi si perdono e di nuovo si rivedono dopo anni, cosicché quell’interesse speciale e palpabile che li aveva colpiti reciprocamente e che avevano lasciato in sospeso sfocia in un amore adolescenziale fino a maturare. Diventeranno due bravi trapezisti, anche se  proprio al culmine della loro attività artistica ci sarà una dolorosa separazione…

All’interno della storia orbiteranno anche altri personaggi, interpretati anch’essi dai due artisti: il russo lanciatore di coltelli Dimitri e la veggente spagnola Fortuna; Mariuccio, padre di Tilina, e la madre di Cesare. Questi istrionici e camaleontici artisti si trasformano mutando pelle e passando da un personaggio all’altro. Il modo in cui riescono a dare a ciascuno una connotazione peculiare lascia a bocca aperta.

Agnese e Tiziano arrivano, con “Circo Paradiso”, al loro quarto stupendo spettacolo insieme. Propongono un prodotto confezionato con i soliti prelibati ingredienti con cui già ci hanno deliziato in passato. Il risultato è una commedia dolce, appassionante, romantica e nostalgica a cui si aggiunge una vena magica ed onirica. Non mancano gli spunti comici che fanno divertire con tenerezza.

Una commedia che ha lo stile del musical e il sapore dei dolcissimi cartoni di Walt Disney, con qualche spruzzata di quei vecchi bei film romantici in bianco e nero. Il tutto è sorretto da cura, sensibilità  ed originalità eccezionali.

Vedere uno spettacolo di questi due talentuosi artisti è come vivere un sogno ad occhi aperti. Si resta incantati, estasiati, con il fiato sospeso. Si ride, ci si emoziona, ci si commuove immersi nelle loro coinvolgenti storie.

Diretti superbamente dalla  regia del duo Evangelisti-Latagliata, si muovono elegantemente in una piacevole e curata scenografia di Andrea Coppi, che modificano di volta in volta  per evocare stati d’animo e situazioni mutevoli. Le luci impeccabili sottolineano efficacemente i momenti più salienti, aggiungendo un forte pathos alle scene grazie all’attenta direzione di Valerio Di Tella. I costumi di Nicoletta Ceccolini sono semplicemente stupendi, ispirati a quelli del circo degli anni Venti; le musiche si evolvono nello stile per sottolineare i tempi che passano. Tutte le basi musicali sono state composte da Tiziano, che ne ha eseguito la maggior parte al pianoforte o alla chitarra mentre sul palco, insieme ad Agnese, cantano dal vivo divinamente. Sono musiche trascinanti, con le due voci melodiche che si alternano, si rincorrono, a volte procedono insieme su note diverse arricchendo di significati le scene che accompagnano. Con le musiche, i dialoghi e i movimenti sulla scena è come se i due aprissero un baule magico pieno di meraviglie, che a fine spettacolo ripongono delicatamente lasciando nel cuore dello spettatore l’essenza dell’umanità.

Anche lo stratagemma più paradossale si tramuta in qualcosa di reale, tangibile. È il sogno che si fa realtà. Un bellissimo sogno.

Un altro capolavoro che si aggiunge ai tre già proposti e che a distanza di anni continuano ad emozionare: “Letizia va alla guerra”, “Fino alle stelle”, “I Mezzalira, panni sporchi fritti in casa”. E ora “Circo Paradiso”.

Prima da vedere, poi li amerete!

 

Teatro Manzoni

"Circo Paradiso” con  Agnese Fallongo e Tiziano Caputo
Regia Adriano Evangelisti e Raffaele Latagliata
Scritto da  Agnese Fallongo
Musiche e liriche Tiziano Caputo
Scene Andrea Coppi
Costumi Nicoletta CeccoliniMovimenti  coreografici  Elisa Caramaschi
Direzione tecnica Valerio  Di Tella
Editing musicale Fabio Breccia
Trucco Chiara Capocetti
Una Produzione Teatro De Gli Incamminati / Teatro  Metastasio di  Prato
Foto di scena Tommaso Le Pera

 

 

 

 

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