L'informazione non è un optional, ma è una delle condizioni essenziali dell'esistenza dell'umanità. La lotta per la sopravvivenza, biologica e sociale, è una lotta per ottenere informazioni.

Kaleidoscope (1585)

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August 13, 2025

Giorgio Morelli, nato ad Albinea (RE) il 29 gennaio 1926, cattolico, nella primavera del 1944 entra nella formazione partigiana Brigata Garibaldi per uscirne nel 1945 ed entrare nelle Fiamme Verdi, i partigiani cattolici, arruolandosi nella 284^ Brigata “Italo” fondata da don Domenico Orlandini, “Carlo”, operante nelle province di Reggio Emilia e Modena. Giorgio Morelli e Eugenio Corezzola nella primavera 1945 fondano “La Penna” giornale delle Fiamme Verdi. Conclusa la guerra riprendono la testata con il titolo “La Nuova Penna” esperienza conclusa nel 1947. Il 9 agosto 1947, ad Arco, in provincia di Trento, moriva Giorgio Morelli, giornalista e partigiano, a soli vent’anni. Moriva a causa delle conseguenze di un vile attentato subito oltre un anno prima, la notte del 27 gennaio 1946, mentre rientrava nella sua casa nella frazione di Albinea (Reggio Emilia). Gli spararono sei colpi di pistola. Uno raggiunse un polmone. Non si riprese mai più. A 78 anni dalla sua morte, ricordare Giorgio Morelli non è solo un atto di memoria. È un gesto necessario di giustizia civile verso una figura scomoda, coraggiosa, e troppo spesso dimenticata. La sua storia è quella di chi, giovane e idealista, si getta nella lotta per la libertà con ardore e passione, ma anche di chi rifiuta il silenzio e paga con la vita il prezzo della verità. Nato nel 1926 ad Albinea, Morelli era appena diciassettenne quando nel 1943 inizia la sua battaglia contro il fascismo: prima con la parola, attraverso i “Fogli Tricolori”, ciclostilati clandestini; poi con le armi, unendosi prima alla Brigata Garibaldi, che lasciò nel 1945 per confluire nei gruppi cattolici delle Fiamme Verdi. Il suo nome di battaglia era “Solitario”. Il 23 aprile 1945 fu il primo partigiano ad entrare nella Reggio Emilia liberata, un gesto che simboleggia la speranza di una nuova era.

 a sin. Giorgio Morelli

 Ma quella speranza si infrange presto contro la violenza del dopoguerra, le epurazioni, i regolamenti di conti, le ombre che calano sulla Resistenza. L’assassinio del suo amico Mario Simonazzi, comandante partigiano di orientamento non comunista, ucciso nella Pasqua del ’45 da altri partigiani, fu uno spartiacque per Morelli. Sconvolto da quella e da altre morti, e dal silenzio che le circondava, Morelli fonda insieme a Eugenio Corezzola il settimanale indipendente “La Nuova Penna”, con l’obiettivo di rompere l’omertà e fare luce sui delitti politici, gli insabbiamenti e i depistaggi che stavano segnando la provincia reggiana nel dopoguerra. Il primo numero esce il 23 settembre 1945. Dopo appena una settimana, i comunisti locali lo bollano come “organo dei nemici del popolo”. Il presidente dell’ANPI locale, il comandante partigiano “Eros” Ferrari, lo espelle dall’associazione. La risposta di Morelli arriva con uno degli editoriali più forti e coraggiosi della stampa del dopoguerra: “Eros, per chi suonerà la campana?” «La nostra espulsione dall’Anpi, da te ideata, è per noi un profondo motivo d’onore… La nostra voce, che chiede libertà e invoca giustizia, è una voce che ti fa male e che ti è nemica». Da quel momento, le minacce si moltiplicano. La tipografia che stampa il giornale viene danneggiata. “La Nuova Penna” deve spostarsi a Parma, dove viene ospitata dai Padri Benedettini.

Ma Morelli non si ferma. E questo coraggio, questa insistenza nel voler dire la verità, gli costano la vita. Il 27 gennaio 1946, mentre cammina verso casa in una notte fredda e senza luce, viene colpito da sei colpi di pistola. Nessuno sarà mai condannato. Nessuna verità ufficiale verrà mai accertata. Giorgio sopravvive, ma non guarisce. Morirà un anno e mezzo dopo, a soli vent’anni, in un sanatorio ad Arco. Eppure, il suo nome non è tra quelli dei decorati, non è celebrato pubblicamente, non campeggia nei monumenti alla Resistenza. Nella sua stessa terra, Giorgio Morelli è stato a lungo dimenticato, forse perché scomodo, forse perché difficile da incasellare nelle narrazioni ufficiali. Ma oggi, dopo 78 anni, il tempo è maturo per superare le letture ideologiche del passato, condannate dalla storia e dalla verità. Non si tratta di riscrivere il passato, ma di riempire i vuoti di memoria, di onorare un giovane che ha combattuto prima contro il fascismo e poi contro il silenzio della democrazia imperfetta del dopoguerra. Morelli non fu solo un partigiano. Fu un giornalista coraggioso, un giovane che credeva nella forza della parola e nel dovere della giustizia. In un Paese che troppo spesso dimentica chi ha pagato con la vita la libertà di cui oggi godiamo, ricordare Giorgio Morelli è un dovere morale. Perché la verità, anche quando è scomoda, non può morire con chi ha avuto il coraggio di cercarla.

Il X Agosto, la 14esima edizione della Notte coi Poeti della Letture d’estate a Villa Edera, ha registrato un altro grande successo.

Un incontro annuale di Poeti, tra i piú sensibili della Sardegna, ma anche di oltremare. Un appuntamento fisso, coordinato da Neria De Giovanni , tra poesia e musica. Quest’anno, come le passate edizioni, ha aperto e puntellato la serata con  brani musicali  Antonello Colledanchise in duo con Susanna Carboni  e Saphira Cabula alle percussioni, davanti ad un pubblico di Poeti, musicisti, pittori e amici degli artisti.

Lo scrittore algherese Antoni Canu ("un ragazzo di 97 anni"…) ha aperto la carovana di poeti che, presentati da Neria De Giovanni, si sono avvicendati al microfono mixato da Ivan Perella: Margherita Lendini, Laura Cannas, Maria Piras, Rosanna Fadda, Sandra Manca, Maria Antonietta Manca, Antonio Maria Masia, Maria Teresa Tedde, Teresa Anna Coni, Bianca Maria Ginesu,Tiziana Meloni, Gianfranca Piras, Raffaele Ciminelli, Giuseppina Palo, Roberto Barbieri, Maria Antonietta Pirigheddu e Monica Tronci.

L’intera serata è stata dedicata  al ricordo di Sergio Bolgeri, a cinque anni dalla sua scomparsa. Artista poliedrico aveva sempre partecipato alla Notte coi poeti, autore anche di due preziose sillogi con Nemapress edizioni. Al centro dell’evento un ritratto di Bolgeri opera della pittrice Maria Filomena Mura, sua grande amica che ha letto alcune poesie inedite. Anche Giovanni Corbia, curatore dell’ultima mostra internazionale di Sergio Bolgeri, ha letto alcuni brevi versi inediti dell’artista e a sorpresa come Presidente della Biennale del Mediterraneo ha fatto un importante annuncio. A Sergio Bolgeri è stato assegnato il Premio Biennale Paolo Pulina nella sez. Artisti storicizzati, manifestazione che fa parte degli eventi della Biennale d’Arte di Roma e del Mediterraneo, Premio alla Cultura della Presidenza del Consiglio dei Ministri. Il premio verrà consegnato nel mese di ottobre in occasione di una mostra antologica delle opere di Sergio Bolgeri che si terrà ad Alghero sempre a cura di Giovanni Corbia. 

 A pochi chilometri dalle spiagge assolate della Versilia, al fresco di un cielo stellato di alcune notti di mezza estate, nella splendida cornice delle Alpi Apuane, il Festival che, negli anni, ha saputo affascinare e

   Locandina

rapire la fantasia ed il palato di migliaia di visitatori. Visitatori che hanno trovato in questo delizioso borgo un’atmosfera unica, fiabesca e surreale, facendone ben presto un appuntamento imperdibile nelle sere dell’estate versiliese.

Un Festival particolare dove la festa popolare,  con musiche, balli, luminarie abbraccia e si unisce in matrimon

  Manifesto

io con manifestazioni di arte, cultura, folclore.

Ed ecco allora che a Levigliani compaiono dodici punti gastronomici, dodici spazi per spettacoli ed esibizioni, animati da oltre cento artisti nei quattro giorni del festival. 

Festival arricchito da un concorso e una mostra fotografica, dall’angolo culturale con la presentazione del libro “Le Radici dell’Elleboro” da parte dell’autrice Alessandra Pozzi (romanzo d’esordio) e dall’esposizione del Maestro Oronzo Ricci.

 Levigliani Wine Art Festival

Oronzo Ricci, il genio, colui che descrive su tela la “pigheologia”, cioè l’interpretazione della personalità di una donna partendo dall’osservazione della forma delle natiche.

Nell’ambito di un festival simile non può mancare la componente del Wine Art, rappresentata da oltre cento etichette con i rispettivi produttori.

Wine Art nel contesto generale del festival si riferisce all'idea che il vino, oltre ad essere una bevanda, può essere considerato un'espressione artistica, una forma di narrazione, un'esperienza culturale. La produzione del vino, spesso vista come un atto creativo, Il vino come linguaggio, le etichette d'arte comunicative, come esperienza e le manifestazioni come celebrazione dell’espressione artistica, come mostre d’arte.

- Produzione come atto creativo: dalla scelta delle uve alla vinificazione, dove il vignaiolo esprime la sua visione e il suo talento, proprio come un artista con la sua opera;

   Foto Vino e Arte

- Il vino come linguaggio comunicando sensazioni, emozioni e storie, proprio come un'opera d'arte;

- Manifestazioni che celebrano il vino come espressione artistica, come mostre d'arte;

- Etichette spesso illustrate o dipinte, che possono essere considerate opere d'arte a sé stanti, spesso collezionabili;

- Il vino come esperienza. La degustazione che può essere vissuta come un'esperienza sensoriale e culturale, paragonabile al “godimento” di un'opera d'arte.

"Wine art", concetto che riconosce al vino un valore artistico, sottolineando il suo potenziale come espressione culturale e creativa.

 Urano Cupisti

Al sottoscritto è stata riservata una stanza dove, nei giorni del festival, in collaborazione con le aziende vinicole presenti, ho parlato di vino, spiegando i concetti base delle produzioni degli stessi,  guidando diverse degustazioni, comunicando con il linguaggio le sensazioni, emozioni e storie, proprio come un'opera d'arte. Levigliani Wine Art Festival. Chapeau!

 

Festival nei giorni 31 luglio, 1-2-3 agosto 2025.

 

August 10, 2025

 vista dello studiolo di Francesco I° De' Medici

Un  uomo è libero nel  momento in cui desidera esserlo.”-  Voltaire


Firenze, la culla del Rinascimento, è un libro di storia a cielo aperto dove ogni vicolo, ogni piazza e ogni palazzo racconta una storia. Ma cosa succede quando si va oltre la facciata splendente, oltre le opere d'arte che tutti conosciamo? Se si gratta la superficie dorata, si scopre una Firenze più segreta, fatta di passaggi nascosti, simboli esoterici e intrighi che hanno segnato la vita dei suoi abitanti più potenti.
È qui, tra le mura del maestoso Palazzo Vecchio, che si nasconde una delle curiosità più affascinanti e misteriose della città: il passaggio segreto di Francesco I de' Medici, un tunnel che sembra uscito da una spy-story rinascimentale.
Francesco I de' Medici (1541-1587), secondo Granduca di Toscana, non aveva l'animo del politico né la tempra del condottiero. A differenza del padre, Cosimo I, che governò con pugno di ferro, Francesco era un uomo solitario e introverso, un intellettuale affascinato dall'alchimia e dalle scienze naturali. Mentre il mondo si aspettava che governasse, lui passava invece le sue giornate a Palazzo Vecchio, non nei saloni di rappresentanza, dove in realtà doveva essere, ma in un luogo intimo e riservato. Questo luogo, al quale si accedeva attraverso un percorso segreto, era il suo Studiolo, il cuore pulsante delle sue passioni, la zona dove poteva in libertà lavorare ai propri interessi e piaceri.
Progettato da Giorgio Vasari, lo Studiolo non era un semplice ufficio, ma una vera e propria "camera delle meraviglie" rinascimentale. Era un piccolo ambiente rettangolare e senza finestre, le cui pareti erano decorate con dipinti che nascondevano un profondo significato simbolico, con riferimenti ai quattro elementi: Terra, Aria, Acqua e Fuoco. Sotto ciascun dipinto, si trovavano armadietti che custodivano gli oggetti più rari e preziosi della sua collezione: minerali rari, gemme preziose, strumenti scientifici e ampolle da alchimista.
Il Granduca fece realizzare quel passaggio segreto proprio per accedere a quel tempio della conoscenza. Più che un semplice corridoio, era lo specchio della sua anima, la confort zone dove si sentiva se stesso, un modo per isolarsi dalla corte e dedicarsi indisturbato alle proprie passioni. Questo passaggio gli garantiva la riservatezza assoluta e gli permetteva di muoversi tra i suoi appartamenti e il laboratorio senza essere visto, proteggendo così i suoi esperimenti di alchimia, una disciplina che all'epoca era vista con sospetto e circondata da un alone di mistero.
Si racconta che questo percorso venisse utilizzato anche per ricevere ospiti particolari o per incontri privati, evitando le rigide formalità di corte, e forse anche per i suoi incontri amorosi prima  con la sua amante, e poi seconda moglie, Bianca Cappello.
La storia di questo passaggio non è solo un aneddoto affascinante, ma una chiave per comprendere un Granduca che, pur essendo al centro del potere, cercava la solitudine e preferiva il silenzio di un laboratorio al clamore di una sala del trono.
Francesco I de' Medici era un uomo di passioni, che viveva per i suoi interessi più che per il potere. Nonostante abbia promosso grandi progetti per Firenze, come l'ampliamento del porto di Livorno e la creazione della Galleria degli Uffizi, non riuscì a farsi amare mai dal popolo. Rimase nella memoria dei suoi sudditi soprattutto per la sua natura schiva, solitaria, per  le sue manie e per essere ossessionato dai suoi studi di alchimia, piuttosto che per le sue opere da mecenate.

Conclusione personale:
"Ogni uomo e donna ha nel cuore sogni e desideri. In alcuni periodi storici, luoghi o contesti familiari non era permessa la libertà individuale. Tuttavia, se veramente desiderata, questa libertà emerge in qualche modo, perché è un bene sacro per ogni essere umano."

 

 

 Martin Lutero

“ 20.  Dunque il papa con la remissione plenaria di tutte le pene non intende semplicemente di tutte, ma solo di quelle imposte da lui.

21. Sbagliano pertanto quei predicatori d'indulgenze, i quali dicono che per le indulgenze papali l'uomo è sciolto e salvato da ogni pena.

24. È perciò inevitabile che la maggior parte del popolo sia ingannata da tale indiscriminata e pomposa promessa di liberazione dalla pena.”

 

                              Martin Lutero (da le 95 Tesi)

 

      L’articolo apparso il 10 luglio* ha suscitato in numerosi lettori un sincero interesse e alcuni di loro hanno avvertito anche il desiderio di esprimere personali commenti in merito alle questioni ivi sollevate.

Ne riportiamo alcuni fra i più stimolanti, con alcune mie ulteriori riflessioni di approfondimento, miranti a mettere meglio in luce quelli che considero gli aspetti maggiormente problematici del pensiero e della prassi giubilari.

 

                      “Le cose su cui ci inviti alla riflessione sono importanti e da approfondire senz’altro. Secondo me, il Giubileo è sostanzialmente un business, però, d’altra parte, la grande fiducia riposta da moltitudini in papa Francesco (incluse le proposte giubilari), e mi sembra anche in papa Leone, credo risponda ad un bisogno di leadership positiva, in un mondo che, purtroppo, attualmente non ha più leader degni di questo nome, ma solo governanti che fanno scelte di guerra infinitamente lontane dal cuore della gente …

E, poi, il bisogno di ritualità (vera, profonda) credo sia innato in ognuno/a, ma, purtroppo, non trova spazio nella nostra società consumistica … E, allora, penso che ci siano tantissimi che si aggrappano anche all’Anno santo, nel tentativo di dare spazio a questo bisogno di ritualità, di sacro, di spiritualità …

Ovviamente, concordo con te che questo bisogno dovrebbe trovare risposte più significative e profonde e meno appariscenti!”

                                   

                                                                   CRISTIANA G.

 

                           “Mi ritrovo in totale sintonia con te e, non so bene per quale motivo, mi hai fatto pensare a Giovanni Franzoni che, se fosse ancora vivo, ti applaudirebbe (lui, forse, avrebbe usato

 Papa Leone XIV

espressioni meno garbate delle tue).

 Il filo logico che deve portarci a una linea di comportamenti, ad una direzione “umana”, non può che nascere dal Vangelo che ci indicherebbe di agire con atti concreti e non “acquistando” meriti grazie ad una “lavatrice a gettoni (ovvero a moneta)” che, esageratamente sofisticata, ha programmi in grado di restituirci coscienze pulite anzi immacolate e capace di cancellare anche il passato. Insomma, capace di restituirci, come fossimo ab initio della nostra venuta al mondo, moralmente puri! Sarebbe una immensa pietà da parte del Padre darci una simile opportunità, ma non aver memoria del male fatto in passato è la premessa a reiterare quel male.

Perché arrivare ad una “indulgenza pro business”? No, non credo sia nello spirito del Vangelo.”

                                                                            CARLO C.

 

           Ha certamente ragione Cristiana nel sottolineare come, per comprendere un fenomeno di massa come quello giubilare, sarebbe necessario far riferimento al grande vuoto culturale della nostra epoca e al grande bisogno di punti di riferimento e di figure carismatiche.

Ma, più che condurre un’analisi di tipo socio-antropologico, a me premeva (e preme tuttora), più di ogni altra cosa, evidenziare il fondamento dottrinale del Giubileo (da molti ignorato) e il suo imprescindibile legame con la questione filosofico-teologica della possibilità-accettabilità della tesi e della prassi delle indulgenze. Ciò nella convinzione che a molti possa sfuggire il fatto che tesi e prassi giubilari (come, d’altronde, tanti dogmi, credenze, cerimonie e tradizionali forme di culto) siano sorte nel corso dei secoli, in base a valutazioni ed obiettivi contingenti (non sempre nobilissimi) e in modo del tutto svincolato dall’insegnamento evangelico incentrato sulla purezza della fede e sulla sincera operosità caritatevole.

E la cosa che continuo a trovare particolarmente fastidiosa è il fatto che la Chiesa di oggi (immersa come quella di ieri nella sua presunzione di assoluta autorità di origine soprannaturale) non appaia minimamente sfiorata da una questione come quella della ammissibilità delle indulgenze, questione a lungo dibattuta e che ha rappresentato una delle cause principali della frantumazione dell’unità cristiana.

Ora, per fare un po’ di chiarezza, è necessario ricordare che quando il monaco agostiniano Martin Lutero, all’inizio del Cinquecento, venne a Roma come semplice pellegrino, nella speranza di potersi immergere in una atmosfera intrisa di profonda cristianità, di contrizione e di voglia di purificazione penitenziale, rimase inorridito e disgustato dallo spettacolo di una Roma godereccia, grossolanamente dedita ad occupazioni terrene e dominata da una casta sacerdotale oltremodo viziosa e lussuriosa.

Ma la sua critica non si è limitata a fustigare la decadenza dei costumi. La sua analisi, infatti, va oltre, va a colpire il cuore dell’enorme macchina ecclesiastica ridotta, come ha ben scritto il nostro amico Carlo, a “lavanderia a gettone”. E Lutero non si è limitato a sottolineare l’aspetto aberrante dell’evidentissimo interesse economico legato alla elargizione delle indulgenze, ma ha messo in luce l’aspetto intrinsecamente immorale e “diabolico” di quella che  potremmo definire la “filosofia delle indulgenze”, strettamente connessa a quella della istituzione sacramentale della Confessione dei peccati (altra cosa da lui rifiutata).

In pratica, Lutero ci dice: lo scopo che dovrebbe guidare la vita del vero cristiano non dovrebbe essere quello di cercare di “meritarsi-guadagnarsi-accaparrarsi” la salvezza, bensì quello di cercare di vivere nel modo più coerente possibile la propria scelta di fede, in maniera totalmente disinteressata, senza pensare minimamente ad eventuali vantaggi per il proprio destino terreno ed ultraterreno. La Chiesa romana, invece, con i suoi ingranaggi di assoluzione dei peccati (confessione da parte del prete) e cancellazione dei residui di peccato rimanenti sull’anima, con annesse pene da espiare in terra o nell’aldilà (indulgenza), favorisce una moralità opportunistica, calcolatrice, superficiale, accomodante, irresponsabile e lassista. Ovvero, un’ottica secondo cui, grazie all’intercessione dell’apparato ecclesiastico, sia possibile SEMPRE E IN OGNI CASO, ottenere un salvifico colpo di spugna che possa permetterci di accedere, dopo morti (il più rapidamente e comodamente possibile), alla gloria celeste, pur dopo aver vissuto in terra una vita antitetica ai valori del Vangelo.

Insomma, secondo Lutero, si tratterebbe di un sistema che avrebbe annacquato e intimamente banalizzato il sentimento della gravità della condizione peccaminosa dell’esistenza umana e, di conseguenza, corrotto il senso del dovere, del rigore e della coscienza dell’essere cristiani, creando una mentalità-moralità di orientamento volgarmente materialistico-mercantilistico, totalmente svuotata di autenticità evangelica.

Da questo tipo di analisi, e dal desiderio di recuperare un approccio alla fede liberato dai veleni delle anticristiane sovrastrutture createsi nella storia (la Chiesa di Roma, con le sue caste sacerdotali, apparati sacramentali, culti di Maria, di Santi, ecc., sempre disposti ad intercedere e a procurare “grazie” e miracoli a richiesta, ecc.), è nato il movimento della cosiddetta Riforma protestante che ha spaccato in due il mondo cristiano, dando vita ad un’ ampia gamma di chiese non cattoliche. 

Ora, una delle cose  che più sconcertano della Chiesa cattolica attuale, sistematicamente impegnata nello sfornare Giubilei, è il non tenere in alcunissima considerazione le posizioni (cristiane) emerse nel corso del tempo (anche prima dello stesso Lutero), divergenti da quelle da essa ribadite nel Concilio tridentino, e il fatto di continuare ad agire come se, dal corso della storia non le fosse minimamente giunto alcun insegnamento.

Insomma, ci si domanda:

                   come non capire ancora, dopo più di 500 anni di discussioni, dibattiti, scontri, scismi e sanguinose guerre di religione, che il desiderio di ottenere una “indulgenza plenaria” si basa psicologicamente su una prospettiva di tipo egocentrico ed utilitaristico, che presuppone la tesi aberrante, palesemente illogica e sacrilega, che le pene ultraterrene stabilite dal Giudizio divino siano annullabili grazie ad un potere (quello della Chiesa) capace di modificare qualcosa di decretato dall’infinita sapienza e dalla giustizia assoluta di Dio stesso?

E come non capire che questa filosofia dell’impunità portata irrazionalmente alle estreme conseguenze abbia comportato effetti moralmente e socialmente degradanti e devastanti sul modo di concepire la giustizia (terrena oltre che ultraterrena) e, soprattutto, sul senso di responsabilità individuale?

Non dovrebbe, forse, un sincero spirito cristiano, onestamente conscio  della propria peccaminosa inadeguatezza, limitarsi ad affidarsi incondizionatamente all’autorità del giudizio divino, confidando, senza alcuna incertezza, nella sua assoluta bontà ed equanimità, senza nulla pretendere, semplicemente con il cuore colmo di pentimento e di speranza?

 

              “Ora dico questo: chi semina scarsamente mieterà altresì scarsamente;

e chi semina abbondantemente mieterà altresì abbondantemente”

                                                 SAN PAOLO (Seconda lettera ai Corinzi 9:6)

 

                “Non vi ingannate, non ci si può beffare di Dio;

perché quello che l'uomo avrà seminato, quello pure mieterà.”

                                                       SAN PAOLO (Lettera ai Galati 6:7)

 

 

 

*GIUBILEO 2025 - OVVERO UNA CHIESA CHE NON SA USCIRE DAL MEDIOEVO  - FlipNews - Free Lance International Press

    La galleria

Nasce all'estremità orientale delle Landes de Gascogne, forma le gole del Ciron di Préchac a Villandraut, poi si getta nella Garonne a Barsac, a valle di Langon.

  Etichetta Chateau d'Yquem

La lunghezza del suo corso, dalla sorgente allo sfocio nella Garonna, è di 97 km. Ha nove affluenti, piccoli ruscelli con sorgenti, più o meno polle d’acqua in un territorio lacustre, come lo stesso Ciron, che lo alimentano nella sua limitata portata.

grappolo attaccato dalla Botrytis Cinerea

Descritto così sembrerebbe un corso d’acqua insignificante, senza storia. Non è così.

Il Ciron è un fiume “magico”. Sotto le fronde del bosco che formano una galleria, l'acqua rimane fresca e protetta dal sole, favorendo la formazione di una nebbia mattutina in autunno, che deposita sull'uva un microscopico fungo, la Botrytis Cinerea, o "muffa nobile". Questo fenomeno naturale viene accolto con gioia, poiché aumenta il contenuto di zucchero del frutto e conferisce ai Sauternes, i vini bianchi dolci più famosi al mondo, la loro miracolosa dolcezza.

Ecco svelato il segreto del Ciron, un fiume che sa di vino!

Il nome Ciron trae la sua origine dal latino Sirio, Sirione, Cirone, Ciron (in guascone).

L'umidità portata dal fiume determina la comparsa di brume mattutine, che favoriscono lo sviluppo sulle vigne del Botrytis cinerea. È grazie a questo fungo che i vigneti del Sauternes e del Barsac devono la loro qualità e la loro reputazione.

Un microclima e idroclima perfetti  che avvolgono non solo i vigneti di Sauternes e Barsac ma anche Fargues e Preignac tutti facenti parte dell’AOC Sautèrnes.

 La Botrytis cinerea, agendo sugli acini maturi, ne perfora la buccia, favorendo l’evaporazione dell’acqua e la concentrazione di zuccheri, acidità e aromi.

I vini prodotti in questa zona sono ricavati principalmente da Sémillon (che dona rotondità e struttura), Sauvignon blanc (che conferisce freschezza e nervatura acida) e una piccola percentuale di Muscadelle (che arricchisce il bouquet floreale). Il mosto ottenuto è estremamente ricco e viene vinificato lentamente, spesso in barrique nuove, con affinamenti che possono durare anni.

    Fiume Ciron

Il risultato è un vino di una complessità straordinaria: miele, albicocca secca, zafferano, arancia candita, fiori bianchi e spezie dolci convivono in un equilibrio perfetto tra dolcezza e acidità. Il vertice qualitativo è rappresentato dal leggendario Château d’Yquem, unico Sauternes classificato come Premier Cru Supérieur nel 1855.

   Chateau d'Yquem

Accanto al Sauternes AOC troviamo Barsac AOC, che condivide terroir e vitigni ma può anche etichettare i propri vini come Sauternes. In genere,

E pensare che a me avevano insegnato, qualche lustro fa, che la botrytis cinerea altro non era che  il marciume grigio, che si verificava in corrispondenza alla maturazione in condizioni di un elevato grado di umidità atmosferica, nel caso del Sauternes, dovuta dalla vicinanza dell’Oceano Atlantico. Insegnanti (o docenti come amavano definirsi) da rimandare immediatamente a scuola!

Poi, il calpestare le vigne, mi ha portato nel territorio del Sautèrnes nel mese di novembre ad assistere al mattino al fenomeno della bruma avvolgente sui vigneti ed attendere i raggi solari del mezzogiorno, dello zenit, ed assistere all’asciugamento ovvero evaporazione dell’umidità. Tutto dovuto alla presenza del Ciron, il fiume che sa di muffa!

 

August 03, 2025

 Nel cuore del Sannio, tra le colline che custodiscono la spiritualità di Padre Pio e l’autenticità della cultura contadina, Pietrelcina si conferma, per il ventunesimo anno, come capitale campana del jazz. Il Jazz Sotto le Stelle Pietrelcina Festival 2025, in programma dal 28 al 31 luglio, nella suggestiva cornice del Parco Colesanti (in caso di pioggia, concerti al Palavetro), non è solo il più importante appuntamento jazzistico della Regione, ma è ormai un simbolo di resistenza culturale, bellezza condivisa e musica che unisce. Organizzato dalla Pro Loco di Pietrelcina con il patrocinio del Comune, della Regione Campania e la direzione artistica di Giovanni Russo, il festival si conferma punto di riferimento nazionale per la musica jazz e le contaminazioni artistiche. L’edizione 2025, dedicata al tema “Bellezze Connesse”, pone l’accento sulla necessità di riconnettere persone e territori attraverso la musica dal vivo e la bellezza condivisa, suona come un invito esplicito a ricucire i fili delle relazioni umane, troppo spesso smarrite nei ritmi scomposti del nostro presente.

In un’epoca di legami digitali e di contatti liquidi, tali espressioni si riferiscono alla condizione in cui le relazioni umane, sia online che offline, tendono a diventare più fluide, instabili e meno durature rispetto al passato. Il filosofo britannico-polacco, Zygmunt Bauman, usa l’aggettivo “liquido” per descrivere la società contemporanea, che è caratterizzata da rapidi cambiamenti, incertezza e precarietà in tutti gli ambiti della vita, compresi i rapporti interpersonali, il festival sceglie la via opposta: musica dal vivo, silenzio rispettoso, incontro reale, comunità fisica. La direzione artistica di Giovanni Russo, costruisce un cartellone che unisce qualità e apertura popolare. Dai virtuosismi di Danilo Rea alla forza narrativa di Peppe Lanzetta, passando per l’energia del progetto Transleit 2.0 delle Ebbanesis, ogni serata è un viaggio tra poesia, jazz econtaminazioni. Peraltro, Jazz Sotto le Stelle è anche altro: è identità territoriale, grazie agli stand enogastronomici che raccontano il Sannio con sapori e profumi veri; è memoria visiva, con la celebrazione del lavoro del fotografo Angelo Masone e la pubblicazione del volume “PHOTO JAZZ”; è riconoscimentosimbolico a personalità di spicco del panorama musicale italiano, con il “Premio Pietrelcina In Jazz”, l’opera in ceramica è firmata dall’artista Sabrina de Ieso di Pesco Sannita, la rassegna artistica ogni anno omaggia artisti distintisi per passione e qualità. In un’Italia che spesso si affida alla musica come semplice intrattenimento, Pietrelcina fa un passo in più: trasforma il jazz in linguaggio civile, in pedagogia collettiva, in atto culturale e politico. Senza clamori, sponsor invasivi, biglietterie chiuse: i concerti sono gratuiti, i luoghi sono aperti, il pubblico è partecipe e misto, tra turisti curiosi, residenti affezionati e appassionati, venuti da ogni angolo del Mezzogiorno. In un momento storico in cui i festival e le rassegne vengono spesso sacrificati sull’altare dei tagli o ridotti a vetrine commerciali, Jazz Sotto le Stelle è un esempio virtuoso di come si possa fare cultura senza perdere l’anima, anzi, valorizzando le radici e coltivando il futuro. Peraltro, Pietrelcina non è solo terra di devozione: è anche una terra di visione. E da vent’anni a questa parte, ogni fine luglio e qualche volta inizio di agosto, accende sotto le stelle una musica che non consola, ma interroga, eleva e connette.

July 27, 2025

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