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Nel diciassettesimo capitolo della Bolla di indizione del Giubileo ordinario 2025, Spes non confundit (La speranza non delude), papa Bergoglio evidenzia che, proprio nell’anno in corso, si compiranno 1700 anni dalla celebrazione del Concilio Ecumenico di Nicea, momento di fondamentale importanza nella storia del cristianesimo, da lui definito “pietra miliare nella storia della Chiesa”, in quanto avrebbe avuto “il compito di preservare l’unità, seriamente minacciata dalla negazione della divinità di Gesù Cristo e della sua uguaglianza con il Padre”. 1)
Francesco, con particolare enfasi, sottolinea il fatto che l’espressione “Noi crediamo” adoperata dai Padri conciliari in apertura del Simbolo niceno (divenuto poi il nucleo fondante del Credo tuttora adottato) costituirebbe la “testimonianza che in quel “Noi” tutte le Chiese si ritrovavano in comunione” e che “tutti i cristiani professavano la medesima fede”.
Ora, però, nella versione latina del Simbolo niceno leggiamo semplicemente: “Credimus …”. Il “Noi” di cui parla Francesco (che non compare neppure nella traduzione italiana presente nell’Enchiridion Symbolorum del Denzinger), quindi, risulta essere una opinabile forzatura letteraria, utilizzata, non certo per superficialità, con il preciso obiettivo di sottolineare il carattere unitario dei cristiani di allora in funzione dell’unità tanto (ancora invano) invocata dei cristiani di oggi.
Dice il papa, infatti, che Nicea rappresenterebbe un invito rivolto “a tutte le Chiese e Comunità ecclesiali a procedere nel cammino verso l’unità visibile”, e, a tutti “i cristiani a unirsi nella lode e nel ringraziamento alla Santissima Trinità e in particolare a Gesù Cristo, il Figlio di Dio, “della sostanza del Padre”, che ci ha rivelato tale mistero di amore”. 2)
Ora, però, ad una onesta osservazione degli eventi storici, le cose appaiono in termini alquanto differenti.
Il Concilio venne convocato, organizzato, finanziato e attentamente supervisionato da Costantino (pontifex maximus della tradizionale religione romana), all’interno del palazzo imperiale di Nicea. Ad esso presero parte circa 300 Vescovi (si ignora il numero esatto), con schiacciante maggioranza di rappresentanti delle chiese orientali. Neppure Silvestro, il vescovo di Roma, fu presente, limitandosi ad inviare, in sua vece, due preti plenipotenziari.
Al fine di comprendere il senso di tale iniziativa intrapresa da parte di un imperatore pagano (che si farà battezzare soltanto in punto di morte) non particolarmente interessato a sofisticate disquisizioni teologiche, occorre fare riferimento al clima di grande eterogeneità e conflittualità che contraddistingue il mondo cristiano dell’epoca, caratterizzato dalle innumerevoli discussioni e divergenze relative sia ad aspetti di carattere dottrinale che disciplinare. In particolar modo, in una fase storica in cui esistevano numerose comunità di matrice cristiana, con orientamenti di pensiero spesso divergenti (in disaccordo anche sui testi da considerare “rivelati”), una violenta disputa teologica attraversava l’intera cristianità, soprattutto per quanto concerne la parte orientale dell’Impero: quella relativa alle peculiari problematicità del monoteismo cristiano, all’interno del quale si trovavano a convivere, con non piccole difficoltà, sia la fede in Gesù Cristo, Figlio di Dio, sia quella in Dio Padre, creatore del mondo. In particolare, stava godendo di rilevante diffusione il pensiero teologico di Ario, onesto presbitero libico, il quale, in un’ottica di impronta gnostico-neoplatonica, coerentemente e rigorosamente monoteistica, si rifiutava di attribuire natura pienamente divina ed eterna alla persona del Figlio, ritenendolo creato, prima di tutti i tempi e prima di ogni altra creatura, dal Padre, l’unico Ente correttamente definibile come Dio.
“La controversia tra i fautori del presbitero alessandrino Ario e i suoi avversari definiti di solito “cattolici” oppure “ortodossi”, riguardava il problema di determinare la relazione tra Dio Padre e il Figlio di Dio. A tale questione ci si interessava ormai da tempo: i teologi del III secolo oscillavano nelle loro risposte da un rigoroso monoteismo che imponeva di vedere in Cristo solo un “modo” (…) di manifestarsi di Dio, privo di una forma fissa, a una netta affermazione della diversità tra Padre e Figlio, con chiara accentuazione della gerarchia tra le persone della Trinità”. 3)
Le tesi di Ario, quindi, poi ampiamente anatemizzate e demonizzate dall’opposta fazione (la quale si troverà a determinare i contenuti dottrinali “ortodossi” del Credo cristiano) riconoscevano l’esistenza di “un solo Dio”, considerato senza inizio e quindi eterno, che, come tale, non poteva condividere la sua unicissima e immodificabile natura divina con altri enti. Il Figlio, pertanto, doveva essere considerato “creatura” del Padre (l’unico vero Dio), utilizzata per la creazione del mondo e per agire in esso, creatura perennemente perfetta, ma pur sempre creatura “creata dal nulla”, sostanzialmente diversa e quindi gerarchicamente subordinata al Padre.
Nel più antico documento della controversia, la lettera ad Eusebio di Nicomedia, Ario scrive:
“Veniamo perseguitati perché abbiamo detto: “Il Figlio ha principio, mentre Dio è senza principio”. Per questo siamo perseguitati, e perché abbiamo detto: “Deriva dal nulla”. Così abbiamo detto, in quanto non è né parte di Dio né deriva da un sostrato. Per questo siamo perseguitati.” 4)
Ario riteneva di ricavare le sue tesi dall’esame delle fonti evangeliche, soprattutto per quanto concerne le sofferenze e i dubbi relativi alla natura umana di Gesù e facendo leva su non pochi passi scritturali in cui si mette in luce il rapporto subordinato rispetto a Dio:
“Perché mi chiami buono? Nessuno è buono se non Dio solo”, Mc 10, 17-18; “… il Padre è più grande di me”, Gv 14,28; ecc.
Al contrario, Alessandro, vescovo di Alessandria (all’epoca, la sede vescovile più importante dopo quella di Roma), affermava che il Figlio deve essere ritenuto coeterno al Padre:
“il Padre è sempre stato Padre: è Padre sempre avendo accanto a sé il Figlio, grazie al quale è chiamato Padre. Ed essendo sempre il Figlio accanto a lui, sempre il Padre è perfetto, non mancando di alcuna perfezione, né nel tempo né dopo un intervallo né dal nulla avendo generato il Figlio unigenito”. 5)
Dopo accese discussioni, prevalse la posizione sostenuta dal vescovo Atanasio (assistente di Alessandro e suo successore) che riuscì a far trionfare, avvalendosi di categorie concettuali e di terminologia di derivazione classica, la tesi della consustanzialità (mèros homooùsion) del Padre e del Figlio: “Dio vero da Dio vero; generato non creato (natum non factum); della stessa sostanza del Padre”.
Ad un sereno esame libero da fideistici pregiudizi, le posizioni di Ario, a dir la verità, appaiono non prive di logica e filosoficamente ben costruite ed argomentate. Qualcuno potrebbe, infatti, comprendere e onestamente spiegare (al di là delle labirintiche dissertazioni teologiche inquinate da macroscopici antropomorfismi) perché il Figlio, se considerato coeterno e consustanziale al Padre, meriterebbe lo status ontologico di “Figlio”? Ovvero, se entrambi partecipano della stessa sostanza divina eterna, perché andrebbero poi distinti e diversamente denominati e come potrebbero, soprattutto, non costituire, allora, due divinità della stessa natura e di identica dignità concettuale (in palese contrasto con le più ovvie esigenze monoteistiche)?
Quanti cristiani – mi chiedo – sarebbero in grado di comprendere quanto ha recentemente affermato l’apposita Commissione Teologica Internazionale, davvero con cristallina sobrietà di linguaggio, relativamente alla capacità del Cristo di farsi rivelatore della
“inaudita paternità intra-divina di Dio, fondamento della sua paternità ad extra”?
Ora, però, facendo a meno di ricorrere alla credenza in interventi di natura soprannaturale, come giustificare la sconfitta di Ario e dei suoi seguaci?
Indispensabile, a questo punto, tenere ben presente che:
A fare luce sul contesto in cui si è andato definendo il Credo cristiano, in modo da prendere le distanze da facili trionfalismi apologetici e da manipolazioni ideologiche dei dati storici, potrebbe bastare, forse, la seguente analisi, decisamente amara, proposta dall’ Enciclopedia Cattolica, alla voce Arianesimo:
“Disgraziatamente per la Chiesa, i primi imperatori cristiani, cioè Costantino e Costanzo II, - bisogna notare che tutti e due non furono battezzati che sul letto di morte e da ariani, - vollero dogmatizzare cercando di sostituirsi al vescovo di Roma, capo della Chiesa e regolatore della sua unità, e divennero così il balocco di prelati intriganti o vendicativi.” (mia l’evidenziazione)
In conclusione, quando Bergoglio ci dice che
“Il Concilio di Nicea ebbe il compito di preservare l’unità” del cosiddetto “Popolo di Dio e dell’annuncio fedele del Vangelo” 13),
ci offre una valutazione ben poco rispondente alla effettiva realtà storica.
Il mondo cristiano delle origini è costituito, infatti, da una coloratissima galassia di pratiche religiose e di credenze teologiche in competizione fra di loro, per cui: all’epoca di Nicea, non poté esserci nessun attacco all’ “unità”, per il semplice fatto che l’ “unità” ancora non esisteva.
La fazione che riuscì ad imporsi sulle altre, si preoccupò di riscrivere con grande cura “la storia della controversia, facendo vedere che dopotutto non c’era stato un grande conflitto e affermando che le proprie opinioni erano sempre state quelle della maggior parte dei cristiani, fin dai tempi di Gesù e dei suoi apostoli, e ribadendo che la propria interpretazione di fatto era stata sempre “ortodossa” (letteralmente: “di fede retta”) e che gli avversari, con i loro testi scritturali “diversi”, avevano rappresentato poche schegge impazzite dedite a ingannare la gente per spingerla all’eresia (…).
Ciò che il Cristianesimo guadagnò alla fine di questi conflitti antichi fu la convinzione di essere nel giusto e di esservi sempre stato. Ne guadagnò anche un credo, a tutt’oggi recitato dai cristiani, che affermava le credenze giuste in contrasto con quelle eretiche e sbagliate”, nonché una teologia trinitaria, un ben definito canone di Scritture (il cosiddetto Nuovo Testamento) e, cosa non certamente secondaria, “una gerarchia di capi ecclesiastici in grado di mantenere viva la chiesa e sorvegliare l’aderenza alla fede e alla pratica corretta”. 14)
Ma, chiediamoci, quante forme di Cristianesimo, di ricerca spirituale e di autentica esperienza religiosa sono andate perdute, deformate o sistematicamente cancellate, ad opera della Chiesa trionfante? E come e quanto ne siamo stati tutti noi, credenti e non credenti, irrimediabilmente impoveriti?
Nel celebrare Nicea, la Chiesa cattolica celebra innanzitutto sé stessa, come suprema e provvidenziale fonte di luce nel mondo, e l’unità che essa invoca (l’unica per lei desiderabile ed accettabile), è, come sempre, l’unità conseguibile al di sotto del suo manto maternamente protettivo.
Per coloro che guardano con sospetto e diffidenza alle celebrazioni fideistiche ed apologetiche, ripensare criticamente Nicea potrebbe rappresentare, invece, una preziosa opportunità per sollevare questioni e porre interrogativi, e, soprattutto, per meglio comprendere come, all’interno del variegatissimo cristianesimo delle origini, “soltanto un gruppo sia riuscito a imporsi come dominante nel campo della religione, stabilendo per i secoli successivi ciò che i cristiani avrebbero dovuto credere, frequentare e leggere come Sacra Scrittura.” 15)
Senza dimenticare che, qualora i conflitti si fossero risolti diversamente, “forse gli abitanti dell’Occidente (cioè noi) sarebbero rimasti politeisti fino a oggi e avrebbero continuato ad adorare gli antichi dèi della Grecia e di Roma; oppure l’Impero avrebbe potuto convertirsi a una forma diversa di Cristianesimo, e lo sviluppo della società e della cultura occidentale avrebbe preso strade che non possiamo neanche immaginare.” 16)
E senza dimenticare, soprattutto, che la Chiesa uscita vittoriosa dal Concilio di Nicea diventò presto la grande madre dei fedeli che, nei secoli, si dedicheranno al pio massacro di milioni di persone in nome della raggiunta unica “verità” e di un ben poco compreso “Dio di misericordia”…
NOTE
Il cortometraggio “Sei sempre stata tu” della Regista Alessandra Sasha Carlesi è stato presentato il 4 maggio scorso al teatro Testaccio di Roma
Alessandra Sasha Carlesi è una regista dalle idee innovative, di origini toscane, di Prato, vive e lavora a Roma dall’età di 20 anni. Inizia a recitare a teatro da giovanissima e dopo aver frequentato numerose scuole, laboratori e compagnie teatrali, partecipa a numerose realizzazioni cinematografiche (corti e mediometraggi). Alessandra una volta trasferitasi nella capitale, si forma all’interno dell’ Accademia teatrale e nel suo percorso di studio, conosce vari aspetti del cinema. Dopo tanti anni di affiancamento, inizia a lavorare come aiuto regia, un lavoro molto tecnico e organizzativo e si rende conto che esiste tutto un mondo che probabilmente le interessa di più. Con un amico inizia a produrre i primi spettacoli teatrali e i primi lavori sul set.
“Sei sempre stata tu” è il suo nuovo cortometraggio scritto insieme al direttore della fotografia Simone Barletta e Ciro Buono, che nella pellicola riveste anche il ruolo di protagonista. Girato sia a Roma presso la scuola di effetti speciali Fantastic Forge di Sergio Stivaletti che a Fiumicino, il cortometraggio affronta una tematica sociale importante, quale quella delle malattie mentali e in particolare la “Maladaptive Daydreaming” o sindrome della fantasia compulsiva. Tale patologia assimilata al “sogno ad occhi aperti” è un artificio mentale che consente di sfuggire a dei ricordi che affliggono e che si intendono rimuovere. In realtà l’individuo vive costantemente una vita che diventa parallela e può portare a gravi conseguenze. La pellicola racconta la tragica storia d’amore tra Christian (un ragazzo che vive nell’ambito di una famiglia normale) che si innamora di Millie (una ragazza di strada, fragile e incompresa, vittima di una società che l’ha sempre emarginata). Christian decide di vivere la sua storia d’amore con lei in mezzo alla sua realtà, quindi la pellicola affronta anche le tematiche dei senza tetto. Al momento di partorire, Millie muore in circostanze sfavorevoli, perché è costretta a farlo in strada. Christian per convincersi che la sua ragazza vive ancora, si costruisce una nuova realtà che lo porterà a vivere all’interno di un istituto psichiatrico. La bambina che Christian aveva abbandonato, la ritrova anni dopo in circostanze fortuite e dal confronto con la figlia, riesce ad uscire dalla dura realtà per vivere la sua vera vita. L’incontro con la figlia Zoe riporta alla luce un passato doloroso, che offre a entrambi la possibilità di un riscatto.
Alessandra Sasha Carlesi l’abbiamo incontrata per conoscerla più da vicino. “Sei sempre stata tu” affronta un argomento di grande impatto sociale vero?
Ho continuato su una strada tracciata, perché in passato già avevo affrontato tematiche simili. Sono sempre stata sensibile al discorso delle patologie della mente e dei senzatetto. La società di oggi è complessa pertanto oggi molti soffrono di piccole o grandi patologie che spesso sono sottovalutate. Nel caso in questione ho fatto delle ricerche e ho visto che esiste effettivamente questa malattia denominata “sindrome da fantasia compulsiva” che non è molto facile da riconoscere. Non è soltanto un sogno ad occhi aperti perché ha dei risvolti anche più pesanti. E non ci sono idee chiare in merito, perchè gli specialisti a mio parere, quando riscontrano queste gravi problematiche che affliggono la mente, l’unica cosa sanno consigliare è quella di “bombardarti con psicofarmaci” che possono farti anche peggio.
Come sei riuscita a realizzare questa tematica così importante?
Questa estate ad un festival cinematografico io e il mio compagno Ciro Buono, abbiamo incontrato Simone Barletta, Direttore di fotografia e discutendo con loro è sorto questo nuovo progetto. Nello stesso festival c’era anche il noto cantautore milanese Davide De Marinis (autore di tanti successi) con il quale ci siamo trovati subito in sintonia. C’è stata subito l’intesa di creare un progetto che coinvolgesse tutti noi, perché credo molto nelle sinergie. Ho chiesto a Davide se poteva ideare la colonna sonora con un suo brano musicale per la pellicola, così dopo essersi fatto trasportare dalle emozioni del racconto cinematografico e dall‘istinto, ha scritto una canzone suggestiva dal titolo “che meraviglia”. Recentemente è uscito anche il videoclip ufficiale, che sta andando anche molto bene e di questo sono estremamente soddisfatta.
Dove avete effettuato l’anteprima dello spettacolo?
Lo abbiamo fatto al Teatro Testaccio il 4 di maggio scorso, dov’è stato presentato il cortometraggio e il videoclip. Davide De Marinis oltre a cantare il pezzo live, ha presentato i suoi celebri successi musicali quali “Troppo bella”, “Chiedi quello che vuoi” ecc.. E’ stata una bella serata dove si è sprigionata una grande energia positiva, perché si è passati dalla drammaticità del cortometraggio al videoclip e così in un certo senso si è po’ stemperata l’atmosfera.
Il trucco e parrucco del film è a cura di Blentina Tafaj. I costumi sono stati curati da Francesco Bureca.
Grazie e in bocca al lupo, Alessandra Sasha Carlesi.
Sì, esistono anche le orchestre un po’ stonate. Con gente abituata al piccone e al martello, che si ritrova tra le mani una tromba o un clarinetto. Con compagni che vanno su sentieri più o meno interrotti, lungo argini di canali poco illuminati, alla ricerca di attimi di oblìo, lontani dal timore di un ultimo naufragio.
Orchestre stonate, dove si coltivano sogni sfilacciati e, semplicemente, ci si conforta dello starsi vicini, del condividere qualcosa che ti allarghi il respiro, qualcosa che riesca a coltivarti dentro il desiderio di un domani.
Poi, all’improvviso, ci si ritrova a percorrere lo stesso campo arato, a navigare sulle stesse acque che vanno, tumultuose o placide, verso il centro del cuore.
E, allora, ti ritrovi lì, sulla poltrona, col Bolero di Ravel che ti rimbalza dentro l’anima, con gli occhi umidi e le luci che malignamente si accendono.
E capisci, allora, che ti è stato fatto un dono immenso e imprevisto:
impregnato di lacrime e consolato da un sorriso …
L’ORCHESTRA STONATA ( EN FANFARE)
Lingua originale: francese
Paese di produzione: Francia
Anno: 2024
Regia: Emmanuel Courcol
Roma, sabato 10 maggio 2025. Un racconto intriso di passione, tensione e bellezza sospesa nel tempo. Adelchi, nella visione di Vincenzo Zingaro, unisce la potenza della parola alla forza della musica, trasformando la scena in un luogo in cui la storia si fa emozione.
Alcuni spettacoli scorrono davanti agli occhi e svaniscono, altre esperienze invece restano dentro, lasciando una traccia che il tempo non cancella. Non è soltanto una memoria ma una voce che continua a risuonare, anche quando il palco è ormai in silenzio. Adelchi, al Teatro Arcobaleno, è stato questo: un varco nel tempo, un soffio nell’anima, una risonanza che attraversa il silenzio.
Ero seduta in terza fila, quasi immersa nella musica dell’orchestra che si preparava sotto i miei occhi. I musicisti erano così vicini che ogni gesto sembrava parte della scena prima ancora che questa iniziasse. E, infatti, non c’è stato un momento preciso in cui tutto ha avuto inizio, perché la musica è arrivata prima delle parole, diffondendosi nello spazio in un lento fluire, tra le sedie e nei fiati sospesi.
Quando il sipario si è sollevato, sembrava che la storia fosse già iniziata molto prima di quel gesto. Le prime vibrazioni delle percussioni, disposte direttamente sul palco, sono giunte come un battito proveniente da qualcosa di antico e profondo. Un velo di fumo ha cominciato a scivolare sulla scena con la grazia di un sogno, mentre la luce blu, tenue e vibrante accarezzava ogni superficie, emanando nell’aria una tensione quasi sacra.
Nel cuore di quello spazio rarefatto è apparso Adelchi, immobile e vestito di nero, figura sospesa tra realtà e visione, carica del destino che stava per compiersi.
Vincenzo Zingaro, regista e interprete, restituisce un Adelchi trattenuto, assorto, attraversato da un’inquietudine profonda. La sua voce, priva di artificio, giunge limpida e consapevole, sussurra verità con la delicatezza di chi interroga il silenzio. Ogni parola incide, ogni pausa rivela, scavando nel cuore di chi ascolta, là dove anche l’obbedienza più rigida lascia spazio al dubbio.
Gli attori appaiono gradualmente, come presenze che emergono dal tempo stesso del racconto. Non formano un coro statico, bensì un susseguirsi di voci e volti che danno corpo, uno dopo l’altro, a una partitura teatrale in cui ogni ingresso ha il peso di una rivelazione. La scena vibra e si sviluppa, costruendo una densità narrativa che cresce, si stratifica, si moltiplica.
Il tempo drammatico si svolge nell’Italia dell’VIII secolo, quando l’equilibrio tra potere temporale e spirituale si frantuma sotto il peso dei regni in guerra. La corte di Desiderio vacilla, Carlo Magno avanza, e Adelchi, personaggio creato da Manzoni per esprimere l’inquietudine morale, si trova sospeso tra l’obbligo della dinastia e il rifiuto della violenza. Non rappresenta l’eroismo della conquista, ma quello della rinuncia: la sua battaglia interiore vale più delle guerre che si combattono intorno a lui.
Il dolore di Re Desiderio non è solo un peso interiore ma una lente attraverso cui osserviamo l’intera corte, dilaniata dalla disperazione e dall’impotenza. In questo contesto, il ruolo di Ermengarda non si limita a quello di una vittima del potere, poiché diventa simbolo di un amore tradito, di una forza che sopravvive nel silenzio della sofferenza. Annalena Lombardi riesce a donare a questa figura una voce che non è solo lamento, bensì preghiera e canto, un filo luminoso in un quadro altrimenti oscuro. La sua presenza è intensa e radiante, tutt’altro che marginale, capace di catalizzare l’attenzione e trattenere l’emozione del pubblico.
Il suo delirio nel convento è un momento fuori dal tempo, un istante sospeso che immobilizza l’intero teatro.
E poi accade. Albino, messaggero dei Franchi, pronuncia la frase che spezza l’equilibrio:
«E tal risposta è guerra.». Il teatro trattiene il fiato. I Longobardi rispondono in un’unica voce:
«Guerra!». Le percussioni esplodono dal palco come una scarica, un battito primordiale che vibra sotto la pelle. Il suono non accompagna la parola: la completa, la rilancia, la scolpisce nell’aria. È un attimo che frantuma il tempo. Il pubblico non assiste più: viene travolto.
Mentre Desiderio tenta disperatamente di resistere e i suoi alleati progettano il tradimento, Ermengarda muore lontano, consumata da un amore che la politica ha cancellato ma i Franchi sfondano le Chiuse grazie a un sentiero segreto. Il popolo, che sogna la libertà, resta in realtà privo di voce, come quel “volgo disperso che nome non ha”, che risuona oggi più che mai attuale.
Nel cuore della battaglia, il contrasto tra i Longobardi e i Franchi si materializza non solo nelle parole e nelle azioni, ma anche nei colori che li avvolgono. Il nero dei Longobardi racconta l’ombra della sconfitta che incombe, un’eredità di orgoglio e resistenza che non cede, ma si consuma. Di fronte a loro, i Franchi, vestiti di bianco, sono la luce gelida e determinata che avanza, come una forza venuta da lontano, portatrice di un destino inevitabile.
E quando, finalmente, Adelchi rinuncia alla gloria, scegliendo la quiete dell’anima, un silenzio profondo e risonante cala sulla scena. Non è un vuoto, ma una sospensione che resta, come una carezza che si allontana. Il pubblico, avvolto in questo silenzio, percepisce il peso di una scelta che trascende il dramma e penetra nelle sue viscere.
Il buio che segue non è silenzio: è sospensione. L’applauso, che lentamente prende forma, non è un atto dovuto, piuttosto un ringraziamento profondo, uno scambio intimo tra chi ha donato e chi ha ricevuto.
Questa profondità emerge non solo nella regia, ma anche nella fusione della parola e della musica, che Zingaro utilizza come veicolo per esprimere l'intensità del testo. Adelchi non è solo un racconto drammatico, è una conversazione profonda, in cui la musica di Zappalorto, delicata e penetrante, diventa un'eco delle emozioni. Le percussioni di Maurizio Trippitelli, collocate sulla scena, vibrano come risonanza profonda, mentre il resto dell’ensemble, archi, fiati e tastiere, suona da sotto il palco, evocando presenze invisibili. La scelta della lettura-concerto, che richiama il melologo, è intrisa di un’attualità che non conosce nostalgia ma rivela una potenza espressiva unica, capace di immergere lo spettatore nell’intimità del racconto.
Dei 2.100 versi composti da Manzoni, ne restano circa mille, selezionati con cura per preservare la forza lirica dell’opera anche nella sua essenzialità.
Zingaro, con una direzione misurata e sensibile, permette al testo di respirare e di trovare il suo spazio, senza essere soffocato dalla fretta. Il suo approccio evita qualsiasi eccesso, puntando a un'esperienza che invita lo spettatore a una riflessione profonda, immerso nella bellezza e nella verità del classico, rinnovato e vivo.
All’esterno del teatro, le luci della città appaiono più sfocate, quasi lontane, come se l’esperienza vissuta continuasse a vibrare nell’aria. Quello che è accaduto non si dissolve, ma si trasforma in qualcosa di più duraturo: una memoria viva, un'eco che ci accompagna. Un respiro che non finisce mai, proprio come solo il grande teatro sa fare.
Massimo (Attilio Fontana) e Damiano (Emiliano Reggente) sono fratelli; il primo, quello più grande, sta per sposarsi. Tra i due si nota un leggero attrito, forse perché il minore è più esuberante, scapestrato ed infantile del maggiore, che sembra invece essere molto più posato e stabile. Tra i due intercorrono solo due anni di differenza, eppure i caratteri e l’approccio con la vita sono palesemente diversi.
La sera precedente il matrimonio Damiano organizza un addio al celibato, ma sarà sicuramente diverso da come se lo aspetta il fratello…
La storia si svolge nell’originale casa di Massimo, una sorta di monolocale arricchito con discutibili opere d’arte moderna. Qui Damiano, imbarazzato, arriva cercando di spiegare al fratello che il suo addio al celibato non sarà come lui immaginava. Effettivamente, oltre a non aver saputo organizzare la festa con gli amici più intimi dello sposo, rischia di far saltare il matrimonio per un dissidio creato con i testimoni di nozze. Ciliegina sulla torta, la sorpresa che Damiano ha preparato per Massimo sta arrivando a casa. È Tamara, una ballerina piuttosto conturbante ma anche molto delicata, sensibile ed insicura, afflitta dalla sindrome di Tourette che la convince di essere accompagnata da una bimba immaginaria di cinque anni con cui parla e discute perché troppo vivace.
L’incontro con Damiano è divertentissimo, Tamara si rivela subito la persona particolare che è. Il poverino coglie subito l’entità del guaio che gli sta cadendo addosso e asseconda le follie della donna con delle gag molto divertenti in cui interagisce con la bimba immaginaria. In questa turbolenta situazione, finalmente arriva Massimo. Anche lui capisce la situazione e comincia subito ad assecondare Tamara, che alterna momenti da vamp sensuale ad alterchi da madre infuriata con la bimba invisibile che girerebbe per la casa creando scompiglio. Si abbandona anche a sfoghi personali per la vita grama e sofferta che ha vissuto e che vive.
Unico affetto per questa sconsolata ragazza è la figura infantile che la segue, che poi sembra la proiezione della sua adolescenza perduta, a sottolineare il dramma della sua solitudine. Un personaggio che diventa il punto centrale della serata, rubando dapprincipio la scena ai due uomini per poi fondersi elegantemente nella storia.
La commedia si fa sempre più toccante, la distanza tra i due fratelli viene via via colmata e sembra anche che le difficoltà di Tamara vengano limitate. Tra i tre si forma un bel legame affettivo che emoziona lo spettatore quando accade un incidente domestico che provoca uno stato di regressione in Massimo riportandolo allo stato giovanile. La perdita di memoria potrebbe compromettere il matrimonio e finisce per aprire una porta ai ricordi che lo legano a Tamara conosciuta evidentemente nella sua infanzia.
Lo sviluppo della storia si fa sempre più interessante e romantica mentre i personaggi si legano sempre più in maniera inscindibile, anche perché Massimo evidenzia la sua parte più profonda e spontanea che contrasta con quella del suo personaggio iniziale. Anche Tamara e Damiano manifestano un’evoluzione nel rapporto sia con se stessi che con gli altri e questa è una parte molto interessante della commedia. Lo sviluppo della storia non è così scontato, evolve in maniera piuttosto tenera e godibile in quello che è un velato dramma presentato con magica ironia.
I due attori maschili hanno una recitazione diversa. Emiliano si è formato sicuramente con la vecchia scuola del cinema italiano; è un esuberante showman che ruba la scena, platealmente carico e travolgente. Da lui emergono echi di attori amati come Paolo Panelli, Carlo Verdone e un mix di altri artisti che hanno fatto delle pellicole in bianco e nero dei veri e propri cult. Emiliano aggiunge a questo una grande gestualità e mimica che ricorda quella dell’ avanspettacolo.
Attilio, al contrario, sembra più influenzato da una scuola italiana più moderna, espressa da una comicità più seriosa e riflessiva in cui ho rivisto reminiscenze di Pino Quartullo, con quelle piacevoli tonalità che contengono dei leggeri picchi e i modi di esprimersi che tanto lo caratterizzano. Nella seconda parte Attilio ci sorprende dando spazio alla nuova personalità emergente che prende il sopravvento, quella di un personaggio infantile, semplice e talmente dolcissimo da commuovere.
Come sempre Claudia è esuberante, frizzante, energica e prorompente. Si presenta sensuale ed accattivante come dovrebbe essere la ballerina che interpreta, inserendo l’aspetto influenzato dalla sindrome di Tourette che però ne evidenzia anche il lato più dolce, introverso e sofferto.
Già dalla prima scena si percepisce la caratura e la preparazione artistica dei due attori. Con l’ingresso plateale di Claudia, loro perdono ogni freno andando a briglia sciolta. Da qui la commedia prende il via per poi crescere piano piano ed esplodere nella seconda parte.
La regia di Francesca Nunzi enfatizza le doti del cast senza imprigionare gli attori, dona dinamismo ai personaggi e aria alle scene. Il testo di Luca Giacomozzi presenta scambi con dialoghi efficaci e ben sviluppati che gli attori sanno interpretare e personalizzare con gusto. Gradualmente fa allontanare lo spettatore dalla prima impressione sui personaggi e lo conduce a rivedere il proprio giudizio, che dapprima era influenzato dai loro difetti e in seguito coglie invece i pregi e i lati nascosti del carattere.
Bello il mutamento del legame fraterno che si rafforza mentre i ruoli si invertono: il fratello minore abbandona la superficialità, cresce e si prende cura del maggiore, che potrà tornare libero di esprimersi, spontaneo ed espansivo nella sua nuova dimensione.
La ballerina finisce per trovare la sua giusta collocazione emotiva e sociale in comunione con i fratelli e potrà formare con loro un nucleo familiare dove sentirsi protetta e sviluppare le attitudini rimaste soffocate. Abbandona la bambina immaginaria e si libera da quel rifugio perché ha superato la paura della solitudine e del giudizio altrui. Finalmente potrà dedicarsi agli altri e a sé.
Commedia gradevole con una storia partita in sordina e gradualmente vivacizzata in un riuscito crescendo fino al bellissimo quanto inaspettato epilogo.
TEATROVID-19 l’energia e la forza del teatro
Teatro Roma
“Si vede che era destino”
Di Luca Giacomozzi regia Francesca Nunzi
Con Attilio Fontana, Claudia Ferri, Emiliano Reggente
Una graziosissima, curata e realistica scenografia riproduce la fiancata di uno stabile con tanto di panchina e un romantico lampione sulla via. Sul muro della palazzina, alle spalle di dove si svolgerà la storia, si vedono manifesti strappati e scritte con vernice spray. Al centro un portone con un citofono il cui uso vi farà ridere a crepapelle…
Torna Danilo De Santis con “Sali o scendo?”, commedia che ha già dodici anni di vita senza sentirli, anzi, la sua freschezza e attualità vi sorprenderanno. Torna sul palco per le tante richieste di un pubblico affezionato che è venuto a rivederla.
Come sempre Danilo mette in scena un testo brillante arricchito con tante emozioni, in una chiave che ci permette di ridere con ironia sulle paure e le incertezze dell’amore e sulle ossessioni e le manie di personaggi psicologicamente ed emotivamente non proprio stabili.
Al suo fianco l’immancabile Roberta Mastromichele, che più volte ha condiviso il palco con lui in altre riuscite commedie. Danilo ha sviluppato uno stile molto personale che lo vede inserire nelle sue pièce un riuscito mix di comicità e sentimento, giocando con i suoi stravaganti personaggi che hanno delle caratteristiche sempre piuttosto singolari. Ama queste sue creazioni a tal punto che nonostante diano vita a situazioni bizzarre e buffissime, traspare per loro un profondo rispetto perché ne mostra il lato più estremo senza eccedere. Lui stesso impersona questi ruoli con estrema classe dando voce a quelle parti nascoste e paradossali che tutti nascondiamo dentro di noi.
Quello presentato stasera è l'incontro di due persone alle prese con le turbolenze dell'amore. Danilo si sta recando al suo primo appuntamento con quella che ritiene sarà la donna della sua vita. I motivi che lo inducono a pensarlo sono già di per sé molto divertenti, ma li lascio scoprire a voi in teatro. Quando si avvicina al portone per citofonarle in attesa che cominci la serata galante, incontra Roberta nei panni di una ragazza disperata che è giunta poco prima di lui al citofono. Anche lei in questa vicenda risponde seguendo una serie di motivazioni alquanto divertenti che non rivelerò.
La fanciulla, piangente e con il trucco che le arriva sotto il mento, si è lasciata da poco con il suo fidanzato ed è sotto casa sua per scoprire se è da solo, avvicinarlo e parlarci sperando che sia ancora innamorato di lei.
Il tira a molla sentimentale coinvolgerà altri tre personaggi interpretati da Beatrice Fazi, Piero Scornavacchi e Chiara Canitano.
Ecco che allora che le strade e i destini dei due si incrociano e si ingarbugliamo con la vita degli altri tre.
La gag iniziale è incentrata proprio sul citofono, un personaggio virtuale che prende vita grazie alle voci di Fabrizio Passerini e della scomparsa Francesca Milani. Qualcosa di davvero travolgente. Ricorda la gag della telefonata di Carlo Verdone o quella di Gigi Proietti. Semplicemente un momento fantastico di alta comicità.
Imbarazzatissimo, Danilo cerca di citofonare alla sua corteggiata e si ritrova in un duello verbale con continui scambi di battute al citofono. La scena sembra molto naturale e mi ha ricordato gli incontri con la mia vicina sul pianerottolo, quando comincia a raccontare la storia della sua vita mentre io ho i minuti contati… un mix di tenerezza e comicità esplosiva.
La scena dura molto e continua con nuove azzeccate e frenetiche battute e si ripete ogni volta che erroneamente viene premuto un tasto sbagliato. Impossibile resistere non solo ai personaggi che si nascondono dietro a queste voci, ma anche a tutte le espressioni e ai tentativi falliti di Danilo di chiudere la conversazione.
Ma non è finita perché Roberta nella sua pena d’amore coinvolge anche Danilo facendosi aiutare a contattare il fidanzato. Anche qui parte una gag fantastica con un Danilo strepitoso che cerca di parlare con l’uomo attraverso un espediente che non vi rivelerò attraverso un soliloquio mitico. Stavolta è Roberta a dar vita ad una serie di espressioni irresistibili. Dunque, avrete capito che la maggior parte della storia è incentrata sulla coppia Danilo - Roberta, ma l’entrata di altri tre personaggi “di disturbo” aggiungerà ulteriore verve e pepe.
Uno è Piero, l’energumeno ex ragazzo con serie difficoltà di gestione della propria rabbia, che scende per prendere di petto il povero Danilo. Poi c'è Beatrice nei panni di una donna bipolare che sembra proprio avere o aver avuto una relazione con l'ex di Roberta, anche lei con accentuati problemi di gestione della rabbia. I due si sono conosciuti da un terapeuta proprio per affrontare questo problema e non vi spiegherò qual è il loro riuscito sistema per contenerla…
Finalmente arriva Chiara, la ragazza che deve uscire con Danilo e che non è proprio come l'uomo l'ha sognata, soprattutto perché ha una risata stridula e particolarmente fastidiosa che Chiara rende divertentissima ricordando quella di alcune vallette un po' sciocchine della televisione.
Sotto l'indiscussa comicità si nasconde la difficoltà nel gestire i rapporti di coppia. Emergono le insicurezze, i sensi di colpa, l’egoismo, la paura di rimanere soli, le aspettative disattese, ma anche il lato psicologico dei personaggi, alcuni con particolari fragilità come la rabbia, che generalmente è l'espressione di un dolore più profondo. Poi c’è la bipolarità, uno stratagemma messo in atto dal soggetto per spostare la difficoltà di contenimento delle proprie emozioni creando un soggetto virtuale, immaginario in cui trasferire i propri irrisolti, fobie e manie che non sa gestire e contenere.
Insomma, con un po' di attenzione troverete molto più di una semplice commedia, che tra l'altro è particolarmente divertente e che mi ha fatto ridere dall'inizio alla fine. I personaggi aggiunti sono la ciliegina sulla torta. Anche se appaiono di contorno, lasciano il loro segno indelebile arricchendo e vivacizzando la vicenda.
Dirò di più: verso l'epilogo la comicità scende per lasciare spazio all'introspezione ed esaltare la personalità dei vari ruoli. D'altronde, anche il titolo “Sali o scendo?” rende l'idea dell'indecisione, della confusione emotiva.
Danilo e Roberta sono una coppia consolidata che ormai fa scintille. Lui sembra un personaggio disegnato per Carlo Verdone, lei uno per Margherita Buy. Facendo un velato tributo a questi artisti, hanno sviluppato e caratterizzato i personaggi facendone due pezzi di un puzzle che si incastrano a meraviglia.
Piero è nella parte di un rozzo ma anche delicato ragazzo, burbero quanto basta e particolarmente marpione con un lato delicato e fragile che emerge anche se cerca di soffocarlo. Portentoso.
Beatrice, camaleontica, è divertentissima in questo ruolo dalla doppia personalità; una particolarmente aggressiva e l'altra più profonda e delicata. Sono i picchi caratteriali in entrambe le parti che divertono, colpiscono e dimostrano le sue capacità artistiche. Esplosiva.
Chiara riesce a rappresentare l’antitesi della donna desiderata, sciocchina e superficiale quanto basta, che sa rendersi adorabile e divertente nella veste comico sensuale. Fortissima.
Uno spettacolo che andrei a rivedere, anche subito!
Teatro Golden
“Sali o scendo?”
Scritto e diretto da Danilo De Santis
Con Danilo De Santis, Roberta Mastromichele, Beatrice Fazi, Piero Scornavacchi, Chiara Canitano
Caveau |
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La motivazione: ricerca particolare nella Linguadoca del Muscat de Frontignan Aoc.
L’Appellation si trova nel sud-est della fascia costiera mediterranea una volta Regione Languedoc-Roussillon, oggi Regione Occitanie. A est si trova la AOC Muscat de Mireval e a nord-est la AOC Muscat de Lunel (entrambe con vini simili).
Il vino dolce è stato il primo dei quattro Vin doux naturel a essere classificato come AOC nel 1936. Appartiene alla seconda categoria di qualità "Grands Vins du Languedoc". I vigneti si estendono per circa 800 ettari su terreni argillosi, ricchi di ossido di ferro e quindi di colore rosso, intervallati da calcare. Si estendono nei comuni di Frontignan e Vic-la-Gardiole, nel dipartimento dell'Hérault.
È una delle zone vitivinicole più antiche della Francia. Già Plinio il Giovane (61-113) sottolineava nelle sue lettere l’esistenza del "vino delle api". È stato il famoso medico Arnaldus de Villanova (1240-1311), considerato l'inventore del vin doux naturel, ad esclamare che si sentiva più giovane di molti anni dopo averlo bevuto ogni giorno il Muscat de Frontignan, decretandone il successo.
Altri famosi personaggi che, con le loro affermazioni, lo hanno reso famoso?
- Il filosofo inglese John Locke (1632-1704);
- Il filosofo Voltaire (1694-1778);
Muscat 2023 |
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- il Presidente degli Stati Uniti Thomas Jefferson (1743-1826);
- la Marchesa di Lur-Saluces proprietaria dello Château d'Yquem, nel 1700.
Il produttore scelto dal sottoscritto per una visita approfondita è stato CHÂTEAU DE LA PEYRADE.
I vigneti si trovano su un leggero promontorio tra il mare e l'Etang de Thau nelle vicinanze della cittadina Sète.
Nelle mattine estive, risultano immersi in un'umidità permanente ottima per la maturazione delle sue uve. Le viti affondano le loro radici nel calcare di Frontignan, arrivando anche ad una profondità di circa venti metri.
La tenuta dello CHÂTEAU DE LA PEYRADE ha un’estensione di 24 ettari coltivati a uve Muscat petits grains, Pinot Nero, Syrah, Vermentino (Rolle) e Grenache Gris, che danno vita a una gamma molto variegata di vini dolci e secchi, bianchi, rosati e rossi.
Muscat traditional |
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I miei assaggi:
- MUSCAT DE FRONTIGNAN TRADITION. 15 % vol, 115 gr residuo zuccherino, fermentazione bloccata con aggiunta di 10% di alcool. Percorso in inox. Il mio giudizio: Ottimo, voto 89/100;
- MUSCAT DE FRONTIGNAN PRESTIGE 2023. Millesimato, 15 % vol, 115 gr residuo zuccherino, fermentazione bloccata con aggiunta di 10% di alcool. Percorso in inox. Il mio giudizio: Eccellente, voto 90/100;
- MUSCAT SEC COTE LILAS, VIN DE PAYS DES COLLINES DE LA MOURE, 13 % vol, vino secco senza residuo zuccherino. Assemblaggio di Moscato petits grains e Vermentino (Rolle). Fermentazione completa in inox. Il mio giudizio: Ottimo, voto 88/100;
- ENTRE DEUX IGP PAYS D’OC. 12.5 % vol, 40 gr di residuo zuccherino. Parcelle di vigneti che vengono vendemmiate in agosto due settimane prima di quelle destinate al Tradition. Fermentazione molto lunga, minimo da 15 a 20 giorni. Segue l'arresto con solfiti. Il mio giudizio: Ottimo, voto 88/100;
- VENDAGE D’AUTOMNE, Vino dolce naturale (vdn). Uva moscato bianco grani piccoli. Mosto d'uva parzialmente fermentato da uve appassite. 14,5% vol, 80 gr di zuccheri residui. Vigneti con suolo calcareo lacustre di Frontignan. esposizione a sud. Fermentazione naturale molto lunga, arresto naturale della fermentazione. Il mio giudizio: Eccellente, 91/100.
Assaggi effettuati il 11 febbraio 2025
Vini assaggiati |
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CHÂTEAU DE LA PEYRADE
Rond Point Salvador Allende
Frontignan
Tel: +049 04 67 48 61 19
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I talent show occupano ormai da anni ampi spazi televisivi lanciando costantemente nuovi talenti. E’ un panorama musicale in continua evoluzione, che assume nuove ‘forme’ e permette a cantanti emergenti o sconosciuti un’immediata visibilità ad un vasto pubblico.
Una vera e propria scoperta è la talentuosa ed emozionante Filomena Migliaccio, cantante partenopea che dalla sua Pozzuoli ha regalato al pubblico televisivo di “Io Canto” interpretazioni intense colpendo dritto al cuore i telespettatori.
Grinta, esperienza e smisurata passione per la musica sono gli ingredienti che hanno emozionato il pubblico del talent, tracciando per Filomena Migliaccio un solco che prosegue ben oltre la performance televisiva.
Difficile credere che questa cantante sia stata lontana dai palcoscenici per molti anni, ma quando “non è mai troppo tardi” la musica può travolgere ogni ostacolo, ricucire i lembi del tempo trascorso e riprendere impetuosa il suo corso.
Una voce straordinaria quella di Filomena, ricca di sfumature e vibrati mai scontati.
La cantante spazia con estrema naturalezza tra diversi generi musicali. Interpreta i grandi classici della tradizione napoletana intrisa della potenza espressiva delle proprie radici.
Filomena Migliaccio è una vera e propria rivelazione nel panorama musicale partenopeo e non solo.
Interpretazioni come “Anema e core” rendono pienamente l’idea della grande magia che quest’artista sa creare, evocando derive di una Napoli passata e attuale, in un’atmosfera senza tempo, che conquista ed emoziona.
Dopo 25 anni di assenza dalla musica la cantante oggi afferma “E adesso ricomincio da me”.
Grande successo in tutta Italia della commedia “L’onorevole, il poeta e la signora” di Aldo De Benedetti
Regia di Francesco Branchetti
con Isabella Giannone , Lorenzo Flaherty e lo stesso Francesco Branchetti
GLI INTERPRETI
Parliamo dell’ultimo lavoro del regista e attore Francesco Branchetti, che, insieme alla bravissima Isabella Giannone e all’indiscussa professionalità di Lorenzo Flaherty, fa rivivere nei teatri del nostro Paese la commedia di Aldo De Benedetti intitolata L’onorevole, il poeta e la signora.
La commedia è stata rappresentata in numerosi teatri di tutta Italia, a partire dai primi di febbraio. Un tour che ha attraversato il paese da nord a sud, attirando un pubblico numeroso e appassionato.
Lo spettacolo ha riscosso, e sta ancora riscuotendo, un meritato successo.
Un altro grande successo del bravissimo Francesco Branchetti, che non sbaglia mai la scelta della sua compagnia dove lui stesso interpreta ruoli molto complessi, sia dal punto di vista interpretativo che linguistico.Al suo fianco, una splendida Isabella Giannone, che conferma ancora una volta la sua grande bravura anche in altri testi e commedie.Una piacevolissima scoperta è stato Lorenzo Flaherty, già grande professionista di televisione e cinema, che ha saputo recitare in modo magistrale anche a teatro. Ha interpretato un onorevole che, con disinvoltura, si destreggia tra corteggiamenti, simpatici ricatti e il desiderio di emergere attraverso la creatività di un poeta, che si rivela essere più furbo di quanto voglia far credere.La forza di Branchetti, oltre a essere il risultato di tanta esperienza e preparazione nel campo teatrale, deriva anche dalla sua astuzia e dalla sua sagacia, che gli appartengono naturalmente, così come dalla capacità di immedesimarsi pienamente nel personaggio da interpretare.
LA COMMEDIA
Si tratta di una commedia umoristica e grottesca, scritta dal commediografo romano Aldo De Benedetti (1892-1970). La storia ruota attorno a Leone,( Lorenzo Flaherty) un onorevole molto attratto da Paola, (Isabella Giannone) una giornalista elegante e astuta. Una sera, Leone riesce a invitarla a casa sua, ma non succede nulla di concreto: la donna lo provoca continuamente mettendolo continuamente in imbarazzo, e poi se ne va.
Dopo l’uscita di Paola, Leone scopre che in casa sua si è introdotto un uomo, Piero, (Francesco Branchetti) un poeta squattrinato che, nascosto dietro un divano ha ascoltato le sue conversazioni. Da questo incontro casuale nasceranno una serie di eventi che cambieranno la vita di entrambi i personaggi. La commedia è un susseguirsi di equivoci, scambi di persona e situazioni esilaranti, con conseguenze imprevedibili.
Il testo è ricco di allusioni, riferimenti, dispetti e velati ricatti, e mette in luce come l’intelligenza possa essere usata in modo divertente. La commedia, con una costruzione impeccabile, rispecchia quella teatralità tipica di De Benedetti, offrendo uno spaccato dei salotti dell’Italia di allora, che ospitavano uomini di potere con relazioni complicate, di talenti svenduti e numerose ambizioni. È anche un’immagine di una società ancora molto attuale, fatta di giochi di identità e scambi sociali che rischiano di essere il male dei nostri giorni, in un contesto di caos sociale e politico.La regia mira a restituire la straordinaria capacità dell’autore di analizzare e raccontare la banalità, il quotidiano, l’inutilità delle convenzioni e la retorica spietata dei rapporti umani. Tutto questo si traduce in un balletto esilarante tra i personaggi, che rende questa commedia un vero e proprio spaccato di ironia e riflessione.
RINGRAZIAMENTO
Un plauso ovviamente va a chi con grande forza e vitalità ha reso lo spettacolo divertente, curioso, dove non manca l’ estro e la creatività degli attori che hanno reso vivo l’interesse del numeroso pubblico che entusiasta applaude.
Il teatro è un’arte che rappresenta molto da vicino l’espressione e i riflessi dell’animo umano. L’attore, infatti, deve immedesimarsi completamente nel carattere, nelle movenze, negli spazi e nei respiri del personaggio che interpreta. Gli attori sono come dei corpi pronti ad accogliere le essenze dei personaggi che portano in scena e questa grande compagnia formata da Francesco Branchetti, Lorenzo Flaherty e Isabella Giannone ci sono riusciti in modo mirabile.
Apr 08, 2022 Rate: 5.00