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Hermann Hesse parlava dell’ozio come di un’arte di matrice orientale, una pratica perlopiù sconosciuta alla cultura dell’occidente, nella quale – come il nostro autore sottolineava a più riprese – l’industrializzazione e il progresso della tecnica erano le uniche risorse tramite cui l’umanità avrebbe tracciato il proprio cammino. Ebbene, l’efficienza era un principio cardine, imperante, che già ai tempi di Hesse provvedeva sistematicamente nel guidare il singolo nel pensiero e nelle scelte, in cosa fosse più conveniente alla luce di bisogni contingenti, della volontà spersonalizzata delle masse e dei doveri sociali, il tutto in ossequio a un imperativo opportunistico incentrato sulle virtù secolari dell’utile e del necessario.
La particolarità di autori come Hesse risiede in quella lungimiranza che schiude nella mente del lettore contemporaneo la consapevolezza di fenomeni che risentono solo in apparenza dei cambiamenti del tempo e nei quali l’atteggiamento acritico dei molti si è manifestato attraverso varie forme sotto l’egida della normalità. L’ozio concepito da Hesse è in un certo senso una specie di pratica esoterica, appannaggio di quei pochi (coraggiosi) che sanno come andare controcorrente. L’affermazione di una volontà individuale, libera dalle logiche dell’epoca, non era solo l’espressione di uno stile di vita atipico e poco ordinario, bensì un vero e proprio atto di eroismo per sé stessi e per tutti quegli spiriti affini nei quali, al centro delle proprie esistenze, fioriva solitario il sentimento artistico. L’autore ci metteva oltretutto in guardia dalla facile associazione dell’ozio al puro e semplice far niente, o al vizio della procrastinazione che distoglie la persona dalla contemplazione del qui e ora, dall’accettazione più autentica della vita vissuta istante per istante. A tal proposito, vengono in mente le parole del celebre mistico indiano Jiddu Krishnamurti quando alla domanda “Qual è il vero fine della vita?” risponde: “E’, prima d’ogni cosa, ciò che ne fate; è ciò che fate della vostra vita”. Dietro l’apparente semplicità di questa osservazione, Krishnamurti lancia un monito rivolto a chi, invece di vivere con consapevolezza il proprio tempo, si limita a subirlo. Un appello a coloro che ricercano incessantemente risposte eloquenti e definitive senza interpellare prima di tutto se stessi, senza riflettere sulle domande giuste da porsi.
Tuttavia, sarebbe un errore se vedessimo nella pratica dell’ozio un metodo infallibile per adattare – in maniera del tutto personale – il tempo a disposizione ai ritmi della produttività, seppur nobilitata da finalità artistiche; vista come la conquista di un senso, la consapevolezza di sé non implica automaticamente la paura e il disprezzo dei cosiddetti “tempi morti”, dei momenti di pausa nei quali il tempo opera in modo misterioso. L’incubo dell’artista consiste proprio in questo mistero, nell’incomprensibilità racchiusa in istanti di silenziosa inoperosità ai quali si contrappone l’ossessiva esternazione del genio; parliamo di situazioni in cui secondo lo scrittore tedesco “…l’artista stesso viene sorpreso e deluso ogni volta da simili pause, ogni volta egli cade nelle stesse angosce e negli stessi tormenti […]”. Ma nelle esperienze individuali custodite nei suoi racconti, Hesse offriva al pubblico la dimostrazione che non esiste spirito dotato di sensibilità artistica destinato a ristagnare nell’ozio.
Per l’appunto Nell’arte dell’ozio Hermann Hesse riesce a descrivere con forza l’immagine di chi esercita con grazia e spontaneità l’oziare, e del legame che intercorre tra tale pratica e la catarsi spirituale, elemento imprescindibile per la crescita del sé. Viene in mente la novella Il pittore, in cui l’autore raccontava la storia dell’artista Albert, la cui produzione artistica, per quanto ispirata fosse, era fatta di continui insuccessi. Nessun plauso da parte del pubblico; la speranza che le sue opere suscitando forti emozioni sarebbero state un giorno apprezzate rimaneva soltanto un’illusione. Nonostante la delusione, Albert, stanco delle preoccupazioni quotidiane, abbraccia uno stile di vita che lo avrebbe cambiato completamente. Smette di produrre, e comincia ad osservare la natura con le sue bellezze. Cede alla solitudine, accoglie il silenzio; si lascia inebriare senza le interferenze di pensieri e volontà. In quei momenti Albert sente svanire il proprio Io - influenzato dall’approvazione esterna - a favore di una totale simbiosi con la natura. Alla fine, l’artista riprenderà a dipingere, questa volta con più fortuna, eppure continuerà ad “andarsene via di nuovo alla chetichella”, deciso a lavorare solo per trarne piacere personale.
L’artista compie una scelta coraggiosa, ma soprattutto pienamente consapevole. Egli si limita ad osservare e ad accettare le cose nella loro più assoluta semplicità. Ma per farlo, come insegna Hesse attraverso la storia, è stato necessario interrompere l’ordine del tempo. Scelta semplice, non impossibile, nella quale è pur sempre richiesta un’inaspettata dose di coraggio da parte di chi vi si affida interamente. Perché è la sospensione dei nostri pensieri, delle ansie quotidiane e del bisogno morboso di ciò che è al di fuori di noi stessi che rende la mente realmente libera, attenta e ricettiva. La cura dell’ozio è una pratica fondata sulla capacità di abbandonare innanzitutto un “Io” conformato e saturo di conoscenze, seguendo l’appello di Krishnamurti sull’apertura totale alla sensibilità come atto essenziale per una mente non solo libera ma anche creativa. L’ozio non richiede nessun atteggiamento devozionale o fideistico, né rituali a cui adeguarsi per aspirare alla realizzazione di un presunto “stato di benessere”. È semplicemente l’espressione di un animo svincolato dalla pressione del giudizio altrui e dalle continue sollecitazioni di chi non conosce altra verità all’infuori della prestazione e del risultato immediato. Per Hesse, l’ozio – come ogni arte – non era che un atto di gentilezza verso sé stessi, riservato a coloro che riconoscono nell’attesa stessa qualcosa che va oltre l’enigma e l’apparente confusione che inibisce e disorienta. Contrariamente alle leggi che deliberatamente non facciamo altro che seguire al fine di non tradire aspettative, per autori come Hesse in fin dei conti “Non resta quindi altro che aspettare”.
Nella capitale, la sede di Forza Italia a Montesacro subisce il quarto attacco consecutivo, mentre a Milano lo sgombero del Leoncavallo scatena nuovi scontri. Dietro le quinte, DIGOS e servizi segreti in allerta: chi vuole davvero spezzare il confronto democratico? La scritta “Fuori i fascisti da Montesacro” imbrattata sulla facciata della sede di Forza Italia in via Adamello, nel III Municipio di Roma, è l’ultimo di una serie di attacchi che la segreteria romana ha definito “vili e codardi”. A rendere evidente la gravità del gesto è il fatto che si tratta del quarto episodio consecutivo con telecamere sfondate, bandiere strappate e decorazioni vandalizzate. “Questi gesti non ci intimidiranno”, ha dichiarato Luisa Regimenti. “Chi opera nell’oscurità ricordi che la libertà trionfa sempre”. La reazione non si limita alle dichiarazioni. La Digos romana ha aperto un’inchiesta, intensificando i controlli su ambienti anarchici e antagonisti del territorio. Ma l’intreccio con le tensioni nazionali è evidente: pochi giorni prima, a Milano, lo sgombero del centro sociale Leoncavallo, dopo oltre trent’anni di occupazione, ha fatto esplodere un clima politico già incandescente. Il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi ha definito lo sgombero “la fine di una lunga stagione di illegalità” e difeso la linea della “tolleranza zero” con le occupazioni abusive. Concetto rilanciato anche dalla premier Giorgia Meloni: “…in uno Stato di diritto non possono esistere zone franche…”. A Milano, però, il sindaco Giuseppe Sala ha replicato indignato: “…non sono stato avvisato, il Leoncavallo aveva un valore culturale…”, denunciando una gestione politica unilaterale della Prefettura.
Questa escalation, vandalismo politico a Roma e sgomberi forzati a Milano, assume contorni inquietanti. I servizi segreti interni (già SISDE oggi A.I.S.I.) sono chiamati a monitorare non solo i gruppi più radicali, ma anche possibili strategie orchestrate per minare la libertà di associazione e il confronto politico nelle sue forme più visibili. Il rischio è l’indebolimento delle istituzioni democratiche, sostituite con atti simbolici di intimidazione e sgombero. Nel contesto romano, la scritta non è una protesta sfrenata: è una sfida diretta all’identità stessa del partito. In parallelo, lo sgombero del Leoncavallo, storico centro alternativo, assume un valore simbolico: si inviano messaggi politici a tutta la galassia antagonista e con conseguenze concrete sul terreno dei conflitti urbani. Dichiarazioni provocatorie punteggiano il dibattito: Matteo Salvini ha parlato di “decenni di illegalità tollerata dalla sinistra”, citando il suo passato da frequentatore del centro. Dal fronte antagonista, l’occupazione vissuta come presidio culturale assume valore simbolico, mentre gli sgomberi diventano terreni di scontro tra legalità istituzionale e memoria politica. Un utente su Reddit osservava, con testo diverso, ma stesso spirito, che imbrattare un simbolo politico “non porta alcun vantaggio alla causa”, invitando piuttosto a cambiare le cose con azioni di massa concrete (si tratta di un sito web di social media/forum dove gli utenti possono pubblicare domande e risposte, discussioni, esperienze personali, e molto altro). Il cuore della provocazione resta la domanda: qual è il confine tra dissenso legittimo e delegittimazione politica? La Digos ha il compito di sorvegliare le scritte, i movimenti notturni, nonché le connessioni politiche tra gli atti. I servizi segreti, da parte loro, sono chiamati a vigilare su discorsi di tensione premeditata o strategie di destabilizzazione invisibile. E la politica? Qualunque sia l’ideologia di chi scrive, occorre chiedersi: si alimenta confronto o si agita caos? Questa non è cronaca, è un momento di riflessione su quanto fragili siano oggi i simboli, le sedi e le storie. Roma e Milano offrono due facce di un’Europa urbana spaccata, una città imbrattata e l’altra svuotata. Ed in mezzo, la Legge e la Politica rischiano di restare schiacciate tra vernice messa bene e quella colata male.
Mentre si parla di transizione ecologica e mobilità sostenibile, Roma sprofonda tra strade dissestate, lampioni spenti, piste ciclabili pericolose e una rete viaria soffocata. Una città eterna, ma sempre più in declino. Roma è una capitale che si spegne, letteralmente.Quartiere dopo quartiere, la città vive nell’oscurità a causa di un sistema di illuminazione pubblica che alterna lampioni accesi a tratti interi completamente al buio. Non si tratta di episodi sporadici: la discontinuità dell’illuminazione è diventata sistemica. Un giorno è il turno di una zona residenziale, il giorno dopo tocca a una trafficata arteria periferica. E quando il buio arriva, si porta dietro disagi alla circolazione, senso di insicurezza e un netto peggioramento della
qualità urbana. La manutenzione degli impianti è, nella migliore delle ipotesi, reattiva. Nella peggiore, inesistente. L’efficienza energetica non può essere una scusa per lasciare interi quartieri abbandonati a se stessi ed un’illuminazione pubblica efficace è un requisito minimo per una città vivibile. Eppure Roma sembra averlo dimenticato. Al disastro dell’illuminazione si aggiunge quello, ancora più grave, della mobilità. La città ha assistito negli ultimi anni a un proliferare disordinato di piste ciclabili, in molti casi realizzate senza un piano organico e senza tener conto delle caratteristiche urbanistiche delle zone coinvolte. In nome della sostenibilità, concetto nobile, ma troppo spesso abusato, si sono ridotte carreggiate già congestionate, inserendo cordoli rigidi in prossimità di rotatorie e svincoli, proprio dove servirebbero visibilità e margini di manovra. Il risultato? Un caos assicurato, soprattutto, con l’inizio dell’anno scolastico e il rientro di massa dei cittadini in città.
Il traffico, già di per sé ingestibile, sarà aggravato da strettoie artificiali che non migliorano la sicurezza dei ciclisti, ma, anzi, la compromettono, creando conflitti diretti con auto, bus, motocicli e monopattini. Non serve imporre ciclabilità a forza dove mancano le condizioni minime di sicurezza e convivenza, bensì serve pianificazione e non propaganda. Nel frattempo, le strade romane continuano a essere disseminate di buche, rattoppi, cantieri aperti e mai chiusi. La viabilità privata e pubblica è ostacolata quotidianamente da lavori scollegati tra loro, senza alcun coordinamento tra municipi, assessorati e aziende di servizio. I mezzi pubblici subiscono ritardi cronici, i cittadini rinunciano all’autobus per disperazione, e il traffico privato torna ad aumentare, alimentando un circolo vizioso che peggiora inquinamento, tempi di percorrenza e frustrazione collettiva.
A ciò si somma la gestione del verde pubblico, che definire, approssimativa, è un eufemismo. Marciapiedi invasi da arbusti, rami che ostruiscono la visuale agli incroci, erba alta che nasconde segnaletica e semafori: la vegetazione urbana, non gestita, è diventata un ostacolo. E non solo per chi passeggia con una persona con disabilità, per un genitore con passeggino e per un anziano, ma, anche il semplice atto di camminare a Roma può trasformarsi in un percorso ad ostacoli. Tutto questo, mentre si moltiplicano gli annunci su “smart city”, rigenerazione urbana e investimenti per il Giubileo. In questo modo una città non è “intelligente” se non riesce nemmeno ad accendere le luci. Roma non ha bisogno di promesse roboanti né di piste ciclabili calate dall’alto. Ha bisogno di manutenzione ordinaria, visione tecnica e rispetto per i suoi cittadini. Un piano serio di illuminazione, strade sicure, segnaletica chiara, mezzi pubblici puntuali e spazi verdi curati, questo si, che è il vero progresso, non il maquillage elettorale a colpi di cantieri estivi. Roma merita di più di un restyling di facciata. Merita amministratori che conoscano la città, che ascoltino i cittadini e che tornino ad occuparsi delle fondamenta della vita urbana. Perché non c’è bellezza, non c’è innovazione e non c’è futuro senza la dignità delle cose semplici. Anche accendere un lampione può essere un atto politico. Ed, oggi, sarebbe già una rivoluzione.
Luigi Vagaggini |
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Si è spento Luigi Vagaggini, figura storica della politica locale toscana, già sindaco di Marciana dell’Elba e di Piancastagnaio, uomo profondamente legato alla sua terra, alla comunità e ai valori che per tutta la vita ha rappresentato con sobrietà, rigore e passione civile. La notizia della sua scomparsa ha suscitato cordoglio non solo nei luoghi dove ha esercitato il suo mandato amministrativo, ma anche all’interno delle istituzioni nazionali ed europee, dove il suo impegno si è fatto sentire per molti anni, in particolare attraverso la collaborazione con l’onorevole Antonio Tajani, oggi segretario di Forza Italia, vicepresidente del Consiglio dei Ministri e Ministro degli Affari Esteri. Luigi Vagaggini è stato un uomo delle istituzioni nel senso più alto del termine. Il suo approccio alla politica era improntato al servizio, al rispetto delle persone e all’ascolto delle esigenze del territorio. Sindaco apprezzato, capace di interpretare con equilibrio il ruolo di amministratore e, peraltro, ha saputo unire alla competenza amministrativa una profonda umanità, che lo ha reso un punto di riferimento per generazioni di cittadini. Con il suo stile sobrio, lontano dalle esasperazioni del dibattito politico contemporaneo, ha rappresentato una forma di impegno pubblico che guardava all’interesse comune e non alla visibilità personale. La sua presenza costante e discreta è stata sinonimo di affidabilità e coerenza. La sua lunga e significativa collaborazione con Antonio Tajani al Parlamento europeo testimonia non solo la stima e la fiducia che aveva saputo conquistare sul piano personale e politico, ma anche la visione europeista che ha sempre accompagnato il suo percorso. Credeva fortemente in una politica che sapesse coniugare l’identità locale con l’appartenenza a una dimensione più ampia, convinto che le sfide del presente e del futuro si potessero affrontare solo dentro una cornice di dialogo tra i popoli, di coesione e di responsabilità condivisa. Il ricordo di Luigi Vagaggini resta vivo anche nella comunità di Forza Italia, che in lui ha riconosciuto uno dei suoi uomini migliori come una figura sobria, concreta, rispettata trasversalmente, capace di tenere insieme valori moderati e senso dello Stato. Il segretario del partito, Antonio Tajani, ha voluto ricordarlo pubblicamente con parole semplici ma cariche di significato: “La Sua fede lo accompagnerà in cielo.
Che riposi in pace.” Un pensiero che racchiude l’essenza dell’uomo credente, prima ancora che dell’amministratore o del politico, e che restituisce l’immagine di una vita vissuta nella coerenza tra i valori professati e le azioni quotidiane. Alla famiglia di Luigi Vagaggini, ai suoi amici, ai cittadini che lo hanno conosciuto e stimato, giunge in queste ore l’abbraccio di chi ha condiviso con lui un pezzo di strada, nella politica come nell’amicizia. La sua memoria resterà un esempio per chi crede ancora in una politica fatta di rispetto, servizio e amore per la propria comunità.
In un momento storico in cui il concetto di libertà individuale è sempre più centrale nel dibattito pubblico, si torna a riflettere sulla natura e sulla funzione degli ordini professionali. Lo si fa con maggiore insistenza oggi, quando la Società evolve rapidamente e le regole che la governano mostrano, talvolta, segni evidenti di scollamento rispetto alla realtà. In questo contesto, risuona con forza l’affermazione di Luigi Einaudi, secondo cui “…gli Ordini possono anche rimanere per quelli che intendono iscriversi, l’importante è che venga eliminata l’obbligatorietà della iscrizione ai fini dell’esercizio professionale…”. Una visione liberale e lungimirante che richiama direttamente i principi sanciti dall’articolo 18 della Costituzione italiana, là dove si afferma il diritto di ogni cittadino di associarsi liberamente, senza autorizzazioni, per fini che non siano vietati ai singoli dalla legge. Il nodo centrale della questione non è l’esistenza in sé degli Ordini, ma la loro natura obbligatoria. È lecito chiedersi se oggi, nel 2025, essi rispondano ancora alla funzione per cui furono istituiti o se siano divenuti più strumenti di controllo che di garanzia per la collettività. Le professioni ordinistiche, dagli ingegneri agli architetti, dai commercialisti ai geometri, richiedono certamente competenze tecniche, deontologiche e culturali elevate, ma l’appartenenza ad un albo non è garanzia automatica di queste qualità. L’errore più comune è quello di sovrapporre il concetto di “iscritto” a quello di “professionista competente”, trascurando il fatto che la professionalità deriva piuttosto da percorsi di studio, aggiornamento continuo, esperienza sul campo e qualità personale. L’adesione obbligatoria a un Ordine appare oggi, per molti, come una formalità burocratica che poco ha a che fare con il merito o con la preparazione effettiva. Il meccanismo dell’esame di Stato, per esempio, sembra talvolta più orientato a ribadire l’appartenenza a un sistema chiuso che a certificare realmente le competenze acquisite.
Per chi ha completato un corso di laurea specialistico, svolto tirocini ed affrontato esperienze professionali complesse, è spesso già ampiamente in grado di operare con efficacia, indipendentemente da un passaggio formale imposto da logiche che appaiono sempre meno attuali. Peraltro, va ricordato, che gli ordini professionali sono nati durante il periodo fascista, in un contesto ideologico e politico in cui i concetti di ordine e controllo erano centrali. La loro struttura, oggi, rischia di mantenere una connotazione di chiusura corporativa, più attenta alla protezione del perimetro interno che all’effettivo servizio alla collettività. La riflessione, peraltro, non dovrebbe concentrarsi su una loro abolizione netta, posizione estrema e spesso improduttiva, ma, piuttosto, sull’opportunità di rendere facoltativa l’iscrizione all’albo. In questo modo, il professionista sarebbe libero di decidere se aderire ad un sistema di rappresentanza e autoregolamentazione, senza che tale scelta incida sul suo diritto all’esercizio della professione. Un passo in questa direzione segnerebbe una transizione culturale importante come l’abbandono di un approccio autoritativo in favore di una logica basata sulla fiducia, sulla responsabilità individuale e sul valore riconosciuto dalle competenze reali. Sostenere la libertà di scelta non significa negare il ruolo che un Ordine può giocare in termini di tutela, aggiornamento o rappresentanza, ma rimettere al centro la figura del professionista come soggetto autonomo, valutato sulla base dei risultati, dell’etica, della trasparenza e non dell’appartenenza. È forse giunto il momento di domandarsi se l’obbligatorietà dell’iscrizione, piuttosto che essere una garanzia per i cittadini, non sia in realtà un limite per l’evoluzione di professioni che, in molti casi, hanno ormai raggiunto una maturità tale da non dover essere più validate da un sigillo corporativo. Una società moderna non può prescindere dal merito e dalla libertà e, peraltro, questi due valori che, nel contesto professionale, dovrebbero tornare a dialogare senza mediazioni forzate.
In una fase storica segnata da crisi internazionali, tensioni geopolitiche e profonde trasformazioni economiche, l’Europa si trova davanti a scelte cruciali. Dopo la pandemia, la guerra in Ucraina ha imposto un’accelerazione del dibattito sulla difesa comune. In parallelo, il Green Deal europeo ha preso una direzione che, per quanto fondata su obiettivi condivisibili, ha mostrato più di una fragilità sul piano della sostenibilità economica e sociale. L’aumento della spesa militare, soprattutto in Paesi come l’Italia, viene presentato come inevitabile: bisogna rispettare gli impegni NATO, rafforzare la deterrenza e prepararsi a un futuro incerto. Ma se questo sforzo avviene a discapito dei servizi pubblici, delle politiche sociali e delle priorità interne, la scelta rischia di diventare insostenibile. Il rischio concreto è che a pagare il prezzo siano proprio le fasce più fragili della popolazione, quelle che già oggi fanno fatica a ottenere cure mediche adeguate, un’istruzione di qualità, o una pensione dignitosa.
Serve una riflessione seria. Cosa stiamo sacrificando in nome della sicurezza? E, soprattutto, chi decide quali priorità devono venire prima? Non può essere accettabile che una trasformazione tanto profonda dell’identità europea, da continente sociale a continente militarizzato, avvenga senza un reale dibattito democratico. Una difesa comune può essere legittima e utile, ma non può trasformarsi in una nuova economia di guerra permanente, dove il welfare viene ridotto a margine ed ogni dissenso etichettato come anti-occidentale. Allo stesso modo, è ormai evidente che il Green Deal, così come è stato concepito, ha mostrato forti limiti. In molti casi ha finito per penalizzare le imprese, soprattutto le piccole e medie, e, peraltro, ha aumentato la pressione, su agricoltori e famiglie, introducendo vincoli scollegati dalla realtà produttiva del continente. Non si tratta di negare l’urgenza ambientale, ma di riconoscere che alcune scelte sono state ideologiche, burocratiche e poco pragmatiche. La transizione ecologica non può essere guidata da slogan e né da obiettivi imposti senza strumenti adeguati. Deve essere sostenibile non solo per l’ambiente, ma anche per l’economia e per il tessuto sociale europeo. Un’Europa credibile, forte e coesa deve sapere tenere insieme sicurezza, crescita, e diritti.
Non si può chiedere sacrifici infiniti ai cittadini, mentre moltiplica le spese in settori ad alto impatto strategico, ma basso ritorno sociale: eliminiamo l’IRPEF ai pensionati! Non può affidare il proprio futuro a lobby industriali, siano esse quelle delle armi o delle tecnologie verdi, perdendo di vista la missione originaria dell’integrazione europea della pace, del benessere diffuso e del progresso condiviso. Oggi più che mai, occorre il buon senso. Acclamare una politica europea capace di guardare oltre l’emergenza, di ascoltare territori e cittadini, e di rimettere al centro ciò che davvero conta: gli investimenti intelligenti, le riforme concrete e la vera sostenibilità. Né militarismo e né ambientalismo ideologico possono sostituire il dovere di costruire una società equilibrata. L’Europa deve dimostrare di saper difendere i propri valori senza smarrire la propria anima.
Abbiamo assistito al positivo incontro tra Putin e Trump, in seconda battuta - e separatamente non a caso - alll'incontro tra Trump e Zelensky e in terza battuta anche con gli "zombie EU". Perché separato? Perché Trump vuole un accordo di pace, sebbene in posizione più debole rispetto a Putin (innanzitutto giacimentologica!) e quindi solo con una differenziazione tra i tre livelli di importanza degli interlocutori da convocare poteva farlo capire al mondo. Prima con Putin, dopo con Zelensky e poi ancora con i cosiddetti "volenterosi europei", tutti di bassissimo livello diplomatico, nel loro supporto irrazionale e grottesco - come avrebbe detto il pacifista Giulietto Chiesa (tutta la Duma fece un minuto di silenzio alla sua morte!), per tre anni al nazista Ucraino.
Trump ha sposato - il 15 agosto 2025 - le ipotesi di Putin, che non vuole una tregua ma un vero e proprio ACCORDO DI PACE DURATURO. È la fine del DEEP-STATE di Biden, della Clinton, di Obama, dei compagni di finanza sionisti... e delle biondine europee... a fine carriera, soprattutto con la storia dei Bio-lab di livello 4 intorno a Hunter Biden, sgamati da Trump e Putin in Ucraina e la storia degli "sms sui vaccini Killer" della Big Pharma, scritti dalla biondina, con il marito venditore di farmaci.
Che futuro economico, militare ma soprattutto "giacimentologico" avrebbero gli europei "deviati", disgiunti dai loro rispettivi popoli sovrani, se non accettassero gli accordi dell'Alaska?
Nessuno: fine delle riserve, delle risorse, delle materie prime, nel vecchio suolo e sottosuolo europeo, ... in altre parole fine dell'acciaio e delle tecnologie per costruire le armi di cui parlano tanto...800 miliardi di €... per non poter costruire nulla.
Anche i NEO-CON Republicani USA, i nemici peggiori di Trump, sono ora spiazzati, nella loro alleanza con il deviato Deep-State Democratico: tutti sfidati e abbattuti dalla alleanza tra Trump e Putin, voluta soprattutto da Trump per affrontare la NUOVA YALTA, del 2-3 settembre 2025 in Cina, dove è stato anche lui invitato e di cui abbiamo già parlato ( https://www.stampaparlamento.it/?p=56859&preview=true).
Quindi tutto è rivelato, tutto è "rivelazione" tutto è ora "Apocalisse": alleati nella de-secretazione della truffa DEM relativa alla falsa RUSSIA-GATE (brava la Tulsi Gabbard!) del 2018-2020, per far fuori Trump e renderlo incapace di portare avanti le politiche contro la finanza speculativa sionista, contro la Big-Pharma, contro il pedo-satanismo, contro la droga fentanyl, contro la morte della manifattura e contro i trabocchetti sionisti di Epstein, le cui registrazioni ricattatorie erano svolte all'Isola Virgin delle orge per incastrare e poi manipolare politici, principi inglesi, magistrati, attori ed altri "VIP" annoiati della vita tanto stipendiata, in cerca di forti emozioni da bambini e bambine... e poi incastrati da certi servizi deviati...stile Mossad deviato (ormai in realtà diviso in due per evitare il collasso morale di Israele e per portare al governo veri ebrei con i veri palestinesi ed i veri cristiani ...tutti ora azzittiti quando non massacrati).
Tutto è in corso di "Rivelazione/Apocalisse ora! Ovvero tutto è in preparazione dell'imminente NUOVA YALTA citata prima, dopo l'incontro storico in Alaska. Uno Stato USA che è di fatto un legame simbolico, fisico e geografico ancestrale tra Russia e USA, fin dai tempi dello ZAR che lo regalò agli USA... con poi la flotta russa della Zarina Caterina che aiutò i coloni Usa a cacciare gli inglesi...con Lincoln che ideò il Cosmopolitan Railway storico che unisce idealmente Russia con America. Da quelle terre del Nord passarono anche i popoli preistorici, che unirono le vaste steppe russe con le praterie del Nord America; da lì passerà il nuovo corridoio energetico del Nord del mondo, come previsto da Roosevelt e Stalin per neutralizzare la nascente City di Londra sionista. Si ricordi che la prima guerra USA di indipendenza fu contro gli inglesi!
Quindi il 2-3 settembre in Cina, invitati entrambi da Xi Jinping, i due nuovi grandi alleati Trump e Putin, andranno rafforzati rispetto alla Cina, dopo lo step in Alaska, cotto e mangiato in pochi giorni, con tappeto rosso. La Cina, di contro, non sarà tradita da Putin se essa non popola lentamente la Siberia con i suoi commercianti silenti - grande statista in questo - ma i tre nuovi blocchi CINA-RUSSIA-USA, saranno alla pari in pace, in una nuova realtà geopolitica multipolare, ognuno con la sua zona di influenza. Essa è stata ben descritta e cartografata dal nuovo libro appena uscito "ERRORI ED ORRORI DELLE GUERRE", Edizioni Palombi, autore il chirurgo/geopolitico novantenne Carlo Quattrocchi, mio padre, ovvero libro scritto "a quattro mani" nell'ultimo anno. Io miglior modo per godersi i genitori anziani!
Scacco matto sovranista quindi in questa rovente estate 2025... con Scott Bessen che ha escluso nuove sanzioni contro la Russia, di fronte alle richieste di soli 5 governi europei peraltro, tra cui quello della nostra Meloni, forse confusa sul futuro assetto mondiale e del tutto ignara della "giacimentologia" mondiale evidentemente. Sanzioni peraltro che finora hanno portato soltanto forza ed autonomia alla Russia stessa. Questa è la fine della vecchia Europa delle biondine e della vecchia NATO: una Europa incompetente e criminale! Potrebbe essere la fine della Meloni, se non cambia rotta rapidamente con un occhio ai BRICS ed alla nuova America dei BRICS.
Israele sionista?? Già finita con i 12 giorni di guerra,che han vinto l'Iran e Trump con il falso bombardamento ai siti nucleari già svuotati 24 ore prima dai 400 kg di Uranio arricchito ... altro che Hollywood...quel tipo di Israele è già finita grazie anche ad episodi grandiosi dei popoli sovrani come le pentole sbattute al Pantheon a Roma quasi tutti i giorni o alla manifestazione oceanica del 17 agosto 2025 a Tel Aviv, con un milione di manifestanti contro Netanyau: vi sarà un nuovo Israele e una nuova Palestina in pace. Ultimo passo di Trump prima delle elezioni di medio termine.
ROMA, 18 agosto - RIA Novosti. È improbabile che il presidente degli Stati Uniti Donald Trump permetta a Volodymyr Zelensky di utilizzare l'incontro per scopi non in linea con quelli americani nel prossimo incontro alla Casa Bianca e dimostrerà che la sua leadership non può essere messa in discussione da nessun alleato, ha dichiarato a RIA Novosti Tiberio Graziani, presidente dell'Istituto Internazionale Italiano per l'Analisi Globale Vision & Global Trends.
Secondo lui, la stampa occidentale, critica nei confronti di Trump , ha valutato negativamente l'incontro tra i presidenti degli Stati Uniti e della Russia in Alaska e, con l'avvicinarsi del vertice alla Casa Bianca, la stampa e gli analisti occidentali si preparano a presentarlo come "un evento in cui Trump sarà costretto ad accettare le richieste di Zelensky ".
"Tuttavia, un'analisi più pragmatica suggerisce che per Trump questo incontro potrebbe essere un modo per riaffermare la propria autorità. È probabile che il presidente degli Stati Uniti voglia chiarire che le decisioni all'interno dell'alleanza occidentale vengono prese dalla Casa Bianca senza interferenze esterne", ha affermato il politologo. Da questo punto di vista, ha osservato, gli interessi all'interno della politica di Trump "Make America Great Again" avranno la precedenza su questioni specifiche come l'Ucraina .
"Trump, a quanto pare, non vuole accettare il fatto che la sua leadership sia messa in discussione da qualche alleato. Inoltre, è improbabile che il presidente permetta a Zelensky di usare il palco della Casa Bianca per scopi che non corrispondono agli obiettivi americani", ha aggiunto l'esperto.
Secondo la fonte dell’agenzia, questo atteggiamento si è già manifestato chiaramente nei rapporti di Trump con i paesi europei, la NATO e l’Unione Europea nei primi mesi della sua presidenza.
"L'incontro di lunedì potrebbe quindi essere visto come un monito per gli alleati degli Stati Uniti, in particolare l'UE e la NATO. L'obiettivo dell'incontro sarebbe quello di rafforzare la posizione secondo cui la leadership occidentale è concentrata negli Stati Uniti, il che consentirebbe di presentare il vertice come un dialogo tra un leader e il suo alleato subordinato piuttosto che un dialogo tra due capi di Stato con pari sovranità", ha concluso Graziani.
Dentro l'antico emissario |
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Incastonato tra le dolci alture dei Castelli Romani, il Lago Albano, noto anche come lago di Castel Gandolfo, è molto più di un semplice bacino lacustre. È uno scrigno di storia, geologia e bellezza paesaggistica che da millenni affascina studiosi, viaggiatori e amanti della natura. Con la sua forma ellittica perfettamente riconoscibile e le acque profonde che raggiungono i 170 metri, è il lago più profondo del Lazio e uno dei più suggestivi d’Italia. Situato a circa 300 metri sul livello del mare, nel cuore del Parco Naturale Regionale dei Castelli Romani, il Lago Albano si adagia in un antico cratere vulcanico. La sua origine geologica è tra le più interessanti del panorama italiano, infatti, si tratta di un maar, cioè un cratere di esplosione formatosi da fenomeni idrovulcanici, nato nell’ambito delle caldere vulcaniche sovrapposte dell’antico Vulcano Laziale. L’area è ancora oggi monitorata per fenomeni vulcanici residuali, come emissioni di gas, terremoti di bassa intensità e variazioni idrotermiche, che testimoniano la vita nascosta sotto lasuperficie tranquilla delle sue acque. Uno degli elementi più affascinanti è che il lago non ha immissari naturali e la sua alimentazione dipende interamente da piogge, sorgenti sotterranee con falde acquifere, il che lo rende un ecosistema delicato e unico. Peraltro, ciò che più sorprende è l’opera dell’ingegno umano che lo collega al mondo esterno con un emissario artificiale sotterraneo, risalente addirittura al 398-397 a.C., realizzato dai Romani per scongiurare le inondazioni e, ancora, oggi funzionante.
Un’opera d’ingegneria idraulica straordinaria per il suo tempo, che dimostra come l’uomo abbia cercato fin dall’antichità di convivere con la potenza del vulcano addormentato. Dal punto di vista archeologico, le rive del Lago Albano raccontano storie antichissime. I primi insediamenti risalgono all’età del bronzo, come dimostrano i resti del Villaggio delle Macine, rinvenuti durante campagne di scavo. Più tardi, in epoca romana, il lago divenne una delle mete predilette per le ville patrizie, infatti, l’imperatore Domiziano vi fece costruire una sontuosa residenza estiva, della quale oggi resta il suggestivo ninfeo del Bergantino, un’opera semi-sommersa che si affaccia placidamente sulle acque del lago. In questa cornice, storia e natura si fondono in un equilibrio che ha resistito nei secoli, ma il Lago Albano ha conosciuto anche momenti di gloria più recenti, infatti, nel 1960, in occasione delle Olimpiadi di Roma, le sue acque ospitarono le gare di canottaggio e canoa/kayak, portando questo angolo di Lazio all’attenzione del mondo. Peraltro, le tribune costruite per l’evento sono ancora visibili ed oggi l’area è meta di sportivi, turisti e residenti, in cerca di relax, attività all’aperto e contatto con la natura.
Il lago è oggi sorvegliato speciale anche dal punto di vista ambientale. La sua assenza di emissari naturali, unita ai fenomeni vulcanici residui e al crescente impatto antropico, rendono necessario un costante monitoraggio della qualità delle acque e della stabilità geologica. Le ricerche scientifiche in corso evidenziano l’importanza di conservare un equilibrio tra fruizione turistica e tutela ambientale. In questo contesto, le istituzioni locali e il Parco dei Castelli Romani hanno un ruolo centrale nel promuovere un turismo sostenibile e consapevole, che valorizzi il patrimonio naturale e culturale del lago senza comprometterne la fragilità. Le passeggiate lungo il perimetro, i punti panoramici sul cratere, le attività nautiche regolamentate e gli itinerari culturali legati alla storia romana, e preistorica sono solo alcune delle esperienze che questo luogo può offrire. Il Lago Albano non è solo un luogo, è un organismo vivo, che pulsa silenziosamente da millenni. Le sue acque scure e profonde custodiscono la memoria di eruzioni antiche, di imperatori e contadini, di battaglie idrauliche vinte contro la natura. Ma soprattutto, offrono un rifugio di quiete e bellezza a pochi chilometri dalla frenesia di Roma. Un equilibrio sottile tra forza geologica e grazia paesaggistica, che merita rispetto, cura e conoscenza, poiché il Lago Albano, più che un paesaggio, è un racconto che continua.
Giorgio Morelli, nato ad Albinea (RE) il 29 gennaio 1926, cattolico, nella primavera del 1944 entra nella formazione partigiana Brigata Garibaldi per uscirne nel 1945 ed entrare nelle Fiamme Verdi, i partigiani cattolici, arruolandosi nella 284^ Brigata “Italo” fondata da don Domenico Orlandini, “Carlo”, operante nelle province di Reggio Emilia e Modena. Giorgio Morelli e Eugenio Corezzola nella primavera 1945 fondano “La Penna” giornale delle Fiamme Verdi. Conclusa la guerra riprendono la testata con il titolo “La Nuova Penna” esperienza conclusa nel 1947. Il 9 agosto 1947, ad Arco, in provincia di Trento, moriva Giorgio Morelli, giornalista e partigiano, a soli vent’anni. Moriva a causa delle conseguenze di un vile attentato subito oltre un anno prima, la notte del 27 gennaio 1946, mentre rientrava nella sua casa nella frazione di Albinea (Reggio Emilia). Gli spararono sei colpi di pistola. Uno raggiunse un polmone. Non si riprese mai più. A 78 anni dalla sua morte, ricordare Giorgio Morelli non è solo un atto di memoria. È un gesto necessario di giustizia civile verso una figura scomoda, coraggiosa, e troppo spesso dimenticata. La sua storia è quella di chi, giovane e idealista, si getta nella lotta per la libertà con ardore e passione, ma anche di chi rifiuta il silenzio e paga con la vita il prezzo della verità. Nato nel 1926 ad Albinea, Morelli era appena diciassettenne quando nel 1943 inizia la sua battaglia contro il fascismo: prima con la parola, attraverso i “Fogli Tricolori”, ciclostilati clandestini; poi con le armi, unendosi prima alla Brigata Garibaldi, che lasciò nel 1945 per confluire nei gruppi cattolici delle Fiamme Verdi. Il suo nome di battaglia era “Solitario”. Il 23 aprile 1945 fu il primo partigiano ad entrare nella Reggio Emilia liberata, un gesto che simboleggia la speranza di una nuova era.
a sin. Giorgio Morelli |
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Ma quella speranza si infrange presto contro la violenza del dopoguerra, le epurazioni, i regolamenti di conti, le ombre che calano sulla Resistenza. L’assassinio del suo amico Mario Simonazzi, comandante partigiano di orientamento non comunista, ucciso nella Pasqua del ’45 da altri partigiani, fu uno spartiacque per Morelli. Sconvolto da quella e da altre morti, e dal silenzio che le circondava, Morelli fonda insieme a Eugenio Corezzola il settimanale indipendente “La Nuova Penna”, con l’obiettivo di rompere l’omertà e fare luce sui delitti politici, gli insabbiamenti e i depistaggi che stavano segnando la provincia reggiana nel dopoguerra. Il primo numero esce il 23 settembre 1945. Dopo appena una settimana, i comunisti locali lo bollano come “organo dei nemici del popolo”. Il presidente dell’ANPI locale, il comandante partigiano “Eros” Ferrari, lo espelle dall’associazione. La risposta di Morelli arriva con uno degli editoriali più forti e coraggiosi della stampa del dopoguerra: “Eros, per chi suonerà la campana?” «La nostra espulsione dall’Anpi, da te ideata, è per noi un profondo motivo d’onore… La nostra voce, che chiede libertà e invoca giustizia, è una voce che ti fa male e che ti è nemica». Da quel momento, le minacce si moltiplicano. La tipografia che stampa il giornale viene danneggiata. “La Nuova Penna” deve spostarsi a Parma, dove viene ospitata dai Padri Benedettini.
Ma Morelli non si ferma. E questo coraggio, questa insistenza nel voler dire la verità, gli costano la vita. Il 27 gennaio 1946, mentre cammina verso casa in una notte fredda e senza luce, viene colpito da sei colpi di pistola. Nessuno sarà mai condannato. Nessuna verità ufficiale verrà mai accertata. Giorgio sopravvive, ma non guarisce. Morirà un anno e mezzo dopo, a soli vent’anni, in un sanatorio ad Arco. Eppure, il suo nome non è tra quelli dei decorati, non è celebrato pubblicamente, non campeggia nei monumenti alla Resistenza. Nella sua stessa terra, Giorgio Morelli è stato a lungo dimenticato, forse perché scomodo, forse perché difficile da incasellare nelle narrazioni ufficiali. Ma oggi, dopo 78 anni, il tempo è maturo per superare le letture ideologiche del passato, condannate dalla storia e dalla verità. Non si tratta di riscrivere il passato, ma di riempire i vuoti di memoria, di onorare un giovane che ha combattuto prima contro il fascismo e poi contro il silenzio della democrazia imperfetta del dopoguerra. Morelli non fu solo un partigiano. Fu un giornalista coraggioso, un giovane che credeva nella forza della parola e nel dovere della giustizia. In un Paese che troppo spesso dimentica chi ha pagato con la vita la libertà di cui oggi godiamo, ricordare Giorgio Morelli è un dovere morale. Perché la verità, anche quando è scomoda, non può morire con chi ha avuto il coraggio di cercarla.
Apr 08, 2022 Rate: 5.00