L'informazione non è un optional, ma è una delle condizioni essenziali dell'esistenza dell'umanità. La lotta per la sopravvivenza, biologica e sociale, è una lotta per ottenere informazioni. |
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Nel dibattito politico italiano, le forze politiche di destra vengono spesso accusate di vincere cavalcando la paura dilagante, etichettata come “paura del diverso” o “xenofobia”; una trappola linguistica, in cui i partiti che si definiscono o sono identificati come “di sinistra” cadono da decenni
Dopo il crollo dell'Unione sovietica una delle principali preoccupazioni della sinistra italiana era dimostrare di non aver nulla a che fare con il “vecchio regime” e di essere pienamente in grado di “gestire la transizione”, ossia la globalizzazione e l'imposizione del neoliberismo in un ordine mondiale guidato dalla superpotenza statunitense.
Un atteggiamento inutilmente remissivo e suicida, che ha consentito lo sgretolamento progressivo delle conquiste sociali dei decenni precedenti rinunciando a portare avanti in modo serio la questione dell'equità e della giustizia sociale, e ha spianato la strada all'ascesa di Silvio Berlusconi. In altri termini, respingendo in blocco l'eredità comunista, ha anzitutto offerto il fianco alla propaganda dei partiti liberisti consentendo a questi di imporre all'immaginario collettivo, attraverso i mezzi di comunicazione di massa, l'infondata identificazione concettuale tra uguaglianza (quindi anche equità e giustizia sociale) e Stato autoritario; di conseguenza, la sinistra ha perso il suo potere rappresentativo in una società in rapida evoluzione, in cui il “mercato del lavoro” disintegrava progressivamente la solidarietà di classe in una miriade di istanze corporative di matrice individualista.
Inoltre, poiché era tale potere concreto a fondare l'efficacia comunicativa dei suoi discorsi, la sinistra ha perso la capacità di attrarre chi dissentiva o era relegato ai margini del sistema di produzione capitalista, mentre la progressiva diffusione delle nuove tecnologie dell'informazione e della comunicazione gettava le basi di una nuova società di massa, iperconnessa e fluida, nella quale l'imposizione di un pensiero unico passa per il controllo della “rete” e per l'abilità nell'orientarla. Ciò avviene peraltro secondo un meccanismo simile alla tendenza delle grandi imprese multinazionali e degli organismi finanziari più potenti a imporre la propria egemonia sulle piccole realtà economiche e sui piccoli sistemi produttivi, magari di sussistenza. D'altronde, la nuova concezione imposta dalla retorica dominante della “democrazia” come culla del libero mercato ha favorito l'affermazione di un nuovo tipo di figura politica, strettamente legata al mondo dell'economia, adatta a guidare lo “stato-impresa”. Come sosteneva Pier Musso sul mensile francese Le Monde diplomatique, si tratta di un modello inaugurato da Berlusconi e portato avanti oggi da presidenti come quello statunitense Donald Trump o quello francese Emmanuel Macron.
Secondo una tendenza analoga a quella della sinistra italiana degli anni '90 e 2000, da qualche anno si assiste a un'insistenza, da parte di quanto resta delle forze politiche che si riconoscono o vengono classificate come di sinistra, su due temi: il timore per l'ascesa di forze politiche reazionarie e la necessità di opporsi a queste ultime superando i pregiudizi e la “paura del diverso”. Due argomenti, peraltro, non di per sé fuori luogo, ma il cui insistente sbandieramento su tutti i mezzi di comunicazione di massa, dalla tradizionale TV alle reti sociali, induce a fraintendere la radice del deterioramento del tessuto sociale nelle società europee attuali, in particolare in quelle dei paesi con economie più fragili, Italia e Grecia in primis.
In virtù di un tale meccanismo, si afferma paradossalmente la tesi degli avversari politici, quei “reazionari” ai quali si dice di opporsi: la vera paura che induce gli elettori a votare “a destra” (oppure a non votare) è la paura dell'altro e la conseguente chiusura nella paranoia securitaria. Così, se la rinuncia all'utopia dell'uguaglianza e della solidarietà per conquistare l'”elettorato moderato” tra gli anni '90 e gli anni 2000 portò la sinistra ai margini della scena politica italiana, ora la rinuncia a un sano materialismo dialettico che punti il dito sulla vera causa della “paura” rischia di farne sparire i pallidi epigoni. Si tratta di una strategia che con quella adottata negli anni '90 ha in comune, oltre alla vocazione suicida, la perdita di quel senso di responsabilità collettiva che caratterizzava i discorsi degli esponenti del fu Partito comunista italiano (PC). In altri termini, l'unico modo che quanto rimane della sinistra ha di sopravvivere è affermare con convinzione e precisione argomentativa che la cosiddetta “paura dei migranti” di cui si parla tanto sui media e sulle reti sociali, quella strumentalizzata e cavalcata in senso xenofobo dalle destre, non è in realtà che una manifestazione dell'incertezza e delle profonde disfunzioni che caratterizzano le società europee in questa fase storica, prime tra tutte il precariato, lo sfruttamento brutale del lavoro e l'impoverimento.
In particolare, per quel che concerne l'Italia, dove, secondo un'indagine Istat del 2017, oltre cinque milioni di persone vivono in povertà assoluta, ciò che davvero preoccupa non è l'arrivo di rifugiati e migranti economici, ma l'assenza di giustizia sociale.
Infatti, la forma di discriminazione che è alla base di tutte le altre è economica e da questa dipendono le altre forme, da quella di genere a quella etnica, da quella culturale a quella religiosa: parole come straniero o extra-comunitario hanno connotazioni diverse a seconda che riguardino un ambasciatore, un turista o un povero alla disperata ricerca di un “porto sicuro” o di un lavoro, magari di un “posto sicuro”. Basti citare un esempio recente: a nessuno è venuto in mente di classificare i due turisti statunitensi accusati dell'omicidio del vicebrigadiere dei carabinieri Mario Cerciello Rega come extra-comunitari, né qualcuno ha invocato decreti sicurezza o espulsioni. Più in generale, un ambasciatore o un ricco uomo d'affari, in qualunque paese del mondo, saranno difficilmente oggetto di discriminazioni, insulti o aggressioni motivate da odio razziale. Si verifica quindi un fenomeno analogo a quello osservato in occasione dei dibattiti sull'imposizione di obblighi religiosi (ad esempio nei paesi islamici), che riguardano per lo più le classi dominati mentre nelle classi dominanti si riduce spesso a finzione propagandistica finalizzata alla conquista e al mantenimento del potere. Persino le discriminazioni di genere sono condizionate in varia misura, a seconda dei contesti, dall'appartenenza o meno alle classi dominanti. Conseguentemente, il fatto che il lavoro sia sempre più raramente fonte di dignità, di autonomia e di indipendenza oltre che di sostentamento materiale (eppure, non era forse questa una delle basi per l'affermazione della borghesia come classe dominante?) ha accentuato il feticismo delle merci di cui scriveva Karl Marx. In altri termini, la borghesia, una volta affermatasi come classe dominante, ha fatto proprio il sistema dei privilegi che fondava l'Ancien Régime, mutando il criterio della discriminazione: dalla nobiltà di sangue alla proprietà dei mezzi di produzione. Oggi, al feticismo delle merci si aggiunge quello della rete, dell'apparire, dell'attrarre seguaci (“followers”) e del potere di influenzare opinioni e tendenze: nell'attuale società di massa iperconnessa, l'uomo produce non solo (forse quasi non più) merci, ma soprattutto dati. Un prodotto che si vende e si acquista, quindi ha un suo specifico valore di scambio, che cresce in misura direttamente proporzionale alla sua pertinenza nel controllo delle collettività e degli individui e all'importanza che tale controllo ha nelle singole società. È il capitalismo della sorveglianza, messo in moto dal profitto generato dall'estrazione di dati che riguardano la quotidianità e spesso l'intimità dei singoli.
In un contesto simile, parole come trasparenza, legalità, sicurezza e integrazione hanno subito una risemantizzazione significativa del pensiero unico che si tende ad affermare in questa fase di transizione. Così la trasparenza, con il pretesto del diritto di informarsi su quanto incide sulle condizioni della collettività, diventa l'etichetta che nasconde lo strumento autoritario del controllo della vita privata degli individui sotto il paravento della garanzia di correttezza. Analogamente legalità viene spesso impiegato come carico di impliciti repressivi, come se il rispetto della legge fosse prerogativa di società guidate da poteri forti. Occorre ricordare, a tal proposito, che la mafia, intesa come criminalità organizzata non è solo un fatto culturale, ma è anche essenzialmente un ingranaggio economico funzionale a un sistema produttivo fondato sul profitto e sulla concentrazione progressiva delle ricchezze nelle mani di un'oligarchia finanziaria. Lo stesso si dica della sicurezza, che, malgrado il suo abuso nella retorica dilagante, è anzitutto sicurezza dei mezzi di sussistenza, sicurezza alimentare. Una sorte analoga è toccata alla parola integrazione, che non significa solo inclusione meccanica all'interno di un corpo sociale, ma è capacità di progredire facendo sentire tutte le componenti della società come autrici e partecipi di tale progresso, in misura equa. La giustizia sociale, pertanto, è l'unico strumento in grado di produrre integrazione, sicurezza, legalità e trasparenza, quest'ultima nel senso del diritto fondamentale di accedere al sapere e all'informazione, ma anche di sviluppare un pensiero critico indipendente. Basi essenziali per la costruzione di una responsabilità collettiva, fondata su un nuovo patto sociale.
Ministero della Sanità, Camera e Senato (Interrogazioni parlamentari), Antitrust, Ordine dei Giornalisti, Ordine Nazionale dei Biologi ed altri, contestano il giornalista ancora insediato presso le varie reti televisive a spiegare con dovizia di particolari ciò che i suoi accusatori non riescono a demolire
Come un carosello
In ordine cronologico la lunga sequenza degli avvertimenti, delle promesse e degli impegni di por termine drasticamente alle trasmissioni mediatiche di cui lo stesso Panzironi da anni ormai, si è reso protagonista, sembra ora essere ritornata all’ origine.
Infatti il Dott. Magi, Presidente dell’ Ordine Nazionale dei Medici che lo scorso anno denunciò Panzironi per abuso della professione medica, secondo quanto riportato dalla stampa, si è lamentato di non essere stato invitato tempestivamente alla rappresentazione Live 120 al Palazzetto dello Sport di Roma il 30 giugno scorso, quantunque là menzionato. Panzironi invece fa a lui presente di averlo invitato con congruo anticipo, ma che comunque siano andate le cose, egli stesso sarebbe anche disponibile ovunque ad un confronto sulla materia trattata. D’ altra parte, aggiungiamo noi, la trattazione dei meccanismi biologici e delle ragioni per le quali hanno origine le patologie che lo stesso Panzironi ha appreso soprattutto dalla letteratura medica internazionale, non costituisce affatto abuso della professione medica.
Le malattie iatrogene
Secondo l’ Ordine dei Medici, troppe sono state le affermazioni per le quali Panzironi avrebbe utilizzato concetti di medicina la cui trattazione spetta soltanto alla classe medica e non ad un profano come un giornalista che neppure è laureato. Come se la laurea impedisse ai medici di essere gli autori delle cosiddette malattie iatrogene, ossia di quelle malattie causate da farmaci o da errori medici, che ogni anno sono responsabili di circa il 10% di tutte le morti che avvengono in Italia. Quindi, tenuto conto che i decessi nel nostro Paese si attestano mediamente intorno 600.000 ogni anno, questo significa che circa 60.000 persone muoiono a causa di queste malattie.
Non è pertanto di immediata comprensione l’accanimento dell’Ordine dei Medici nei confronti di Panzironi. Questi infatti, beneficia di un numero significativo di testimonianze di persone uscite dal grave stato di malattie croniche in cui si trovavano e che ora si fanno in quattro per ringraziare pubblicamente il giornalista di avere loro indicato una dieta con cui sono risalite verso il loro stato di salute. Non è qui il caso di discutere quali sono le malattie in quanto chi ha seguito il caso Panzironi attraverso la televisione, ha ben chiara l’idea che egli si riferisce ad una vasta gamma di patologie.
Fuoco incrociato
In effetti il giornalista sotto il fuoco incrociato delle istituzioni più importanti in Italia, tratta con dovizia di particolari scientifici attraverso i media, soprattutto in TV, il meccanismo biologico vitale di cui finora neppure l’istruzione universitaria in Italia sviluppa sufficientemente. Panzironi, individua soprattutto nella “dieta mediterranea”, tanto per dare un nome di sintesi al tipo di alimentazione, la causa del maggior numero delle patologie in atto.
Egli sostiene in primo luogo di sostituirla, spiegandone le ragioni. E’ quindi abbastanza consequenziale per non lasciare in sospeso la questione, il suggerimento del giornalista di quale dieta preferire; dieta che egli stesso indica come la migliore dal punto di vista nutrizionale che può essere composta con ingredienti a piacere e come ciascuno più preferisce. Si tratta come noto, di una dieta ricca soprattutto di proteine ma anche di grassi oltre naturalmente di verdure, con forte limitazione di zucchero che è sempre praticamente presente anche se in modo ridotto, in pressoché tutti gli alimenti. Tutto qui.
Qual è dunque il crimine medico di cui Panzironi si è reso responsabile? Se per la maggior parte delle persone questo crimine non esiste, la stessa cosa non si può dire per il Presidente dell’_Ordine dei Medici che ha invece denunciato il giornalista alla Procura della Repubblica.
L’auspicato confronto
Per quanto riguarda il confronto, questo probabilmente non si farà; ma caso mai avesse luogo, è prevedibile che non sarà lo stesso Presidente a presentarsi sotto la luce della ribalta per esporre le proprie teorie al livello scientifico con il quale il giornalista si esprime.
Vi sono soprattutto due ragioni per le quali questo confronto non è condiviso tra le due parti. La prima è di carattere formale, per la quale la classe medica si sottrae dal confrontarsi con un comune “mortale”, così come nel passato facevano i nobili cavalieri, sottraendosi dal competere con i figli della gleba; l’ altra è che Panzironi sembra avere una preparazione scientifica della biologia e dei meccanismi con i quali avvengono gli scambi chimici all’ interno dell’ organismo che almeno fino adesso, non si immaginano interlocutori validamente capaci di dimostrare il contrario.
Il bene supremo
Teniamo comunque conto che allo stato delle cose l’ opinione pubblica non è attratta dalla demonizzazione di nessuno, ma è alla ricerca della verità, nell’ interesse generale della salute di noi tutti.
Qualcuno dovrebbe però spiegarci in modo ufficiale, perché questa disputa sul più alto valore esistenziale e cioè, sulla salute collettiva di quasi 60 milioni di persone, si protrae da anni, rendendo sempre meno credibili gli Enti a cui compete la tutela della salute.
È vero che: “mai dire mai” , ma è più facile veder volare nel cielo qualche animale esotico che il Presidente dell’ Ordine di Medici si presenti in prima persona ad un confronto di contenuto che a fronte della sua stessa denuncia, non sembra abbia l’ intenzione di fare.
Ma non sarà certamente la denuncia presentata contro il giornalista, né tutte le altre, passate e future, a stabilire la verità scientifica sulla quale si basa la salute degli italiani.
Di fronte alla politica della massima pressione attuata da Washington nei confronti di Tehran, l'Unione europea non si sbilancia, restando ancorata a un approccio di tamponamento piuttosto che di contestazione in nome della giustizia internazionale; vale tuttavia su scala globale una tendenza simile a quella interna ai singoli paesi: le istituzioni tengono finché sono rappresentative di un determinato stato di cose
Il paradosso creato dalla condotta adottata dal presidente degli Stati Uniti Donald Trump nei confronti dell'Iran e in particolare dalla sua decisione, a maggio 2018, di uscire dal cosiddetto “accordo sul nucleare iraniano” (il Piano d'azione congiunto globale – JCPOA), rappresenta la sintesi di un percorso che i paesi del vecchio continente hanno scelto di imboccare a seguito del crollo dell'Unione sovietica. Il paradosso di un agglomerato di stati concepito in piena guerra fredda, con l'obiettivo (uno dei principali) di bloccare un'eventuale espansione a Ovest della sfera di influenza di Mosca. Una Comunità di difesa, poi Comunità economica, poi Unione, che né durante né alla fine della contrapposizione tra Mosca e Washington ha saputo produrre molto altro se non una gabbia economico-finanziaria, incapace peraltro di proteggere gli stati membri dalla crisi del 2008, e ha imposto ai paesi dalle economie più fragili misure che hanno aggravato le diseguaglianze e inasprito l'ingiustizia sociale senza promuovere la crescita. Ma soprattutto, un'Unione che finora non è stata in grado di elaborare una strategia geopolitica autonoma, né un approccio alle relazioni internazionali alternativo all'intraprendenza aggressiva degli USA. Dai Balcani all'Afghanistan, dall'Asia centrale alle attuali tensioni tra India e Pakistan, dalla Libia al Vicino e Medio Oriente, le disastrose conseguenze degli interventi umanitari e delle guerre preventive lascerebbero presupporre che, nell'attuale fase di transizione negli equilibri mondiali di potenza, più voci promuovono il dialogo e la cooperazione, più è possibile allontanare il rischio di conflitti armati e altre dinamiche destabilizzanti. Per recuperare il dialogo tra Tehran e la comunità internazionale, Bruxelles potrebbe fare molto, ma opta per un profilo basso. Anziché intensificare i tentativi di riportare Washington sulla via della distensione e del dialogo con l'Iran, l'Unione europea, attraverso la sua Alta rappresentante per gli Affari esteri e la politica di sicurezza Federica Mogherini, manifesta a settembre 2018 l'intenzione di mettere in piedi un meccanismo per preservare le sue relazioni commerciali con Tehran, aggirando le sanzioni statunitensi. Lo scorso gennaio, arriva quindi INSTEX, società per azioni semplificata fondata da Francia, Germania e Regno Unito.
A questo fondo comune di credito si è successivamente ispirato il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan, che, durante un colloquio con il suo omologo iraniano Hassan Rouhani a febbraio 2019 a Sochi (Russia), ha dichiarato di voler creare un sistema simile, una società di progetto. Nelle intenzioni velleitariamente ottomanizzanti di Erdoğan, si tratterebbe di un meccanismo bilaterale di cooperazione commerciale, concepito come parte di un più ampio progetto di espansione economica e culturale (attraverso l'influenza sulle varie comunità islamiche) in Medio Oriente e in Asia Centrale. In realtà Ankara, che con Tehran e Mosca porta avanti il processo di pace in Siria, ha cambiato politica nei confronti della Repubblica islamica dal 2002, anno dell'ascesa al potere del partito Giustizia e sviluppo, cui appartiene Erdoğan. In un editoriale apparso di recente sul quotidiano turco filogovernativo Daily Sabah, si legge che già nell'agosto 2017 il capo di Stato maggiore iraniano, il generale maggiore Mohammed Bagheri, si è recato in visita ufficiale ad Ankara (la prima di un funzionario del suo rango in Turchia dal 1979) per discutere di una linea comune sulle aspirazioni autonomiste delle minoranze curde della regione, a partire dal rifiuto di riconoscere il risultato del referendum per l'indipendenza del Kurdistan iracheno. Inoltre, sia la Turchia, sia l'Iran sono in contrasto con i vicini paesi arabi, Arabia Saudita in testa, e temono una riconfigurazione sfavorevole degli equilibri regionali a seguito delle cosiddette primavere arabe. Le forme di islam politico sostenute da Ankara e Tehran (nel primo caso l'islam politico sunnita dei Fratelli musulmani, nel secondo l'islam politico sciita elaborato dall'ayatollah Ruhollah Khomeini) sono fortemente osteggiate da quello che talvolta è stato definito l'asse saudita-egiziano-emiratino, che gode del sostegno di Israele e Stati Uniti: uno schieramento, che a partire dall'ascesa di Trump alla Casa bianca ha adottato una linea sempre più apertamente anti-iraniana, suscitando al contempo la diffidenza della Turchia, storico membro dell'Alleanza atlantica. Il presidente USA, infatti, è giunto a inserire i Pasdaran (organizzazione militare comandata direttamente dalla Guida della rivoluzione, che in Iran è anche capo di Stato) nella lista delle formazioni terroristiche. Dal sostegno alla causa palestinese, ai sospetti che l'Arabia Saudita e i suoi alleati stiano tentando di imporre la propria egemonia sulla regione, Ankara e Tehran si sono dunque spesso trovate ad avere punti in comune, anche se più di natura tattica che strategica.
Contestualmente, il cosiddetto asse saudita-egiziano-emiratino mostra qualche incrinatura. Anzitutto, da Riyadh giungono voci critiche riguardo la linea intransigente del principe ereditario Mohammed bin Salman (MBS), al quale Ahmed bin Abdelaziz, fratello del re, ha apertamente dichiarato di opporsi nel caso in cui dovesse unirsi a un'alleanza militare con Gran Bretagna e Stati Uniti in funzione anti-iraniana. In secondo luogo, gli Emirati Arabi Uniti, guidati dal principe ereditario e ministro della Difesa Mohammed bin Zayed (MBZ), hanno dato di recente segnali di parziale allontanamento dall'alleanza d'acciaio con MBS. D'altronde, essendo il principale partner commerciale della Repubblica islamica nella regione, temono le ripercussioni economiche delle tensioni nell'area dello stretto di Hormuz. Eppure erano stati tra i principali fautori della decisione di Trump di uscire dal JCPOA, nonché il più stretto alleato di MBS nella strategia di contrasto a presunte mire espansionistiche di Tehran nella regione. Dopo aver preso parte alla coalizione militare a guida saudita che in Yemen combatte una guerra contro i ribelli sciiti Houthi, gli Emirati hanno annunciato lo scorso maggio di voler ritirare parte delle loro truppe da un conflitto che per MBZ è anche una sorta di “vetrina” per mostrare alla comunità internazionale un ciclopico arsenale militare. Una misura che ha seguito di poco le dichiarazioni del ministro degli Esteri emiratino Abdallah bin Zayed al-Nahyan a commento delle accuse di Trump all'Iran di essere responsabile degli attacchi alle petroliere nei pressi dello stretto di Hormuz. Al-Nahyan aveva infatti espresso cautela nel condividere tali accuse, sottolineando la necessità di prove “chiare, precise e scientifiche” in grado di convincere la comunità internazionale. Inoltre, aveva aggiunto che nessuno ha interesse a provocare un nuovo conflitto, poiché ciò di cui c'è bisogno nella regione è avere più stabilità e sviluppo.
A parte simili dissidi “interni” all'alleanza che fa riferimento all'amministrazione Trump, Washington si trova attualmente in una posizione diversa dallo status di superpotenza del tempo delle guerre umanitarie degli anni '90. Attualmente, infatti, sullo scacchiere mondiale, paesi come Russia e Cina insidiano il primato statunitense in diversi settori, dall'industria aerospaziale alle nuove tecnologie dell'informazione e della comunicazione. Ad esempio, Mosca, che ultimamente ha intensificato le sue relazioni economico-militari con la Turchia, ha invitato Washington e Tehran a evitare strategie pericolose per la stabilità della regione e a dirimere i loro conflitti attraverso “un dialogo civile”, come ha detto il ministro degli esteri russo Serghej Lavrov durante un incontro, a Mosca, con il suo omologo emiratino al-Nahyan (la stessa occasione in cui quest'ultimo ha manifestato diffidenza nei confronti delle accuse rivolte da Washington a Tehran), esortando a respingere politiche fatte di ultimatum, sanzioni e intimidazioni. Dal canto suo, la Cina, che ha espresso a più riprese il suo sostegno al JCPOA, starebbe mettendo in atto sistemi per aggirare le sanzioni USA contro l'Iran, continuando a importare petrolio iraniano. Intanto, l'Unione Europea ha perso un'importante occasione per promuovere una seria mediazione, un ruolo che ora sta tentando di assumere il Giappone del primo ministro Shinzo Abe.
Anche se l’opposizione attacca sempre il governo e vi sono divergenze nel governo stesso, dall’intero arco parlamentare non si è levata alcuna voce critica quando il premier Conte ha esposto alla Conferenza degli ambasciatori (26 luglio) le linee guida della politica estera, a riprova del vasto consenso multipartisan.
Conte ha definito anzitutto qual è il cardine della collocazione dell’Italia nel mondo: «Il nostro rapporto con gli Stati Uniti rimane qualitativamente diverso da quello che abbiamo con altre Potenze, perché si fonda su valori, su principi condivisi che sono il fondamento stesso della Repubblica e parte integrante della nostra Costituzione: la sovranità democratica, libertà e uguaglianza dei cittadini, la tutela dei diritti fondamentali della persona».
Il premier Conte così non solo ribadisce che gli Usa sono nostro «alleato privilegiato», ma enuncia un principio guida: l’Italia assume gli Stati uniti come modello di società democratica.
Una colossale mistificazione storica.
Riguardo alla «libertà e uguaglianza dei cittadini», basti ricordare che i cittadini statunitensi sono ancora oggi censiti ufficialmente in base alla «razza» – bianchi (distinti tra non-ispanici e ispanici), neri, indiani americani, asiatici, nativi hawaiani – e che le condizioni medie di vita dei neri e degli ispanici (latino-americani appartenenti a ogni «razza») sono di gran lunga le peggiori.
Riguardo alla «tutela dei diritti fondamentali della persona», basti ricordare che negli Usa oltre 43 milioni di cittadini (14 su cento) vivono in povertà e circa 30 milioni sono privi di assicurazione sanitaria, mentre molti altri ne hanno una insufficiente (ad esempio, per pagare una lunga chemioterapia contro un tumore). E sempre riguardo alla «tutela dei diritti della persona» basti ricordare le migliaia di neri inermi assassinati impunemente da poliziotti bianchi.
Riguardo alla «sovranità democratica» basti ricordare la serie di guerre e colpi di stato effettuata dagli Stati uniti, dal 1945 ad oggi, in oltre 30 paesi asiatici, africani, europei e latino-americani. provocando 20-30 milioni di morti e centinaia di milioni di feriti (vedi lo studio di J. Lucas presentato dal prof. Chossudovsky su Global Research).
Questi sono i «valori condivisi» sui quali l’Italia basa il suo rapporto «qualitativamente diverso» con gli Stati uniti. E, per dimostrare quanto esso sia proficuo, Conte assicura: «Ho sempre trovato nel presidente Trump un interlocutore attento ai legittimi interessi italiani».
Interessi che Washington considera «legittimi» fintanto che l’Italia resta in posizione gregaria nella Nato dominata dagli Stati uniti, li segue di guerra in guerra, aumenta su loro richiesta la propria spesa militare, mette il proprio territorio a disposizione delle forze e basi Usa, comprese quelle nucleari.
Conte cerca di far credere che il suo governo, comunemente definito «sovranista», abbia un ampio spazio autonomo di «dialogo con la Russia sulla base dell’approccio Nato a doppio binario» (diplomatico e militare), approccio che in realtà segue il binario unico di un sempre più pericoloso confronto militare.
A tale proposito – riferisce La Stampa (26 luglio) –l’ambasciatore Usa Eisemberg ha parlato col vice-presidente Di Maio (ritenuto da Washington il più «affidabile»), chiedendo un chiarimento sui rapporti con Mosca in particolare del vice-presidente Salvini (la cui visita a Washington, nonostante i suoi sforzi, ha avuto un «esito deludente»).
Non si sa se il governo Conte supererà l’esame. Si sa comunque che prosegue la tradizione secondo cui in Italia il governo deve sempre avere l’approvazione di Washington, confermando quale sia la nostra «sovranità democratica».
(il manifesto, 30 luglio 2019)
L’inaugurazione de “I nidi di Vinchio e Vaglio Serra” e le degustazioni dei “sei vigne Insynthesis” hanno accompagnato i festeggiamenti del 60esimo compleanno della Cantina sociale astigiana Vinchio-Vaglio Serra.
Vinchio e Vaglio Serra sono due paesini che si fronteggiano in una vallata dell’astigiano.
Posizionati in cima a due colli a dominare un territorio comune. E la Cantina sociale costruita nel fondo-valle a metà strada tra i due Comuni altrimenti contendenti tra loro.
Tutta l’economia della vallata ruota intorno alla Cantina Sociale che è riuscita (e continua in questo suo lavoro) in questa funzione che va al di là dei meri numeri di produzione ricoprendo il ruolo di garante dell’economia valligiana e figura importante della vita sociale delle due comunità.
192 soci, circa 450 ettari coltivati, oltre 30.000 Hl di vino prodotto, con un fatturato che si avvicina a € 9.000.000 e, dato significativo, € 3.300.000 di dividendo distribuito ai soci (2017).
Senza considerare i compensi differenziati €/Q.le per le uve conferite. Insomma una grande realtà cooperativistica che da 60 anni, grazie al conferimento da parte dei viticoltori-soci del totale delle uve prodotte ha visto un conseguente aumento della propria capacità di crescita non solo nei volumi ma anche nella qualità.
Perché se è vero che buona parte della produzione è costituita dalla vendita di vino sfuso e in bag nei nuovi locali adibiti a Punto Vendita Diretta ai consumatori, è anche vero che dagli anni ’80 la Cantina è impegnata nella difficile sfida alla modernità. Nuove filosofie produttive, dove la vigna diventa centrale,i vigneti distinti a seconda della qualità delle loro uve, tutto in funzione delle etichette che orneranno le bottiglie contenenti vini di eccellenza.
Ed ecco allora che il risultato finale è costituito da etichette di Barolo Docg, Barbaresco, Gavi, Asti, Arneis.
E poi la grande passione per la Barbera (assolutamente al femminile) declinata in tutte le possibili interpretazioni: Vigne Vecchie, Superiore, giovani, immediate.
Uno dei motivi per cui mi sono trovato coinvolto nei festeggiamenti del 60esimo compleanno della Cantina è stata proprio la Barbera, quel vino quotidiano che in seguito ha stimolato un gruppo di produttori ad accrescerne la qualità indirizzandola verso una nuova primavera.
E così dal grande lavoro nei campi e nella cantina dove trovano più spazio le botti e le barriques, la Barbera torna a nuova vita ed entra a pieno diritto nelle eccellenze viticole piemontesi.
La Cantina Sociale Vinchio-Vaglio Serra, sapendo che molti vigneti dei soci rispondono a quelle caratteristiche di eccellenza (una sorta di Cru alla francese) ecco prendere forma il progetto Barbera d’Asti Superiore “Vigne Vecchie” (oltre cinquant’anni) che, oltre salvaguardare i vigneti storici, con una scelta di alta remunerazione, riesce a portare in cantina basse rese significative per produzioni eccellenti.
Un certo Carlin Petrini (!) nel 2004 ha definito questa Barbera Superiore Madre di tutte le Barbere.
Altro progetto , con il finire degli anni ’90, la volontà di realizzare una nuova Barbera d’Asti, da uve selezionate provenienti dai vigneti maggiormente vocati. Ormai il percorso intrapreso verso la qualità premiava sforzi ed investimenti. Sfida enologica e culturale, il messaggio indirizzato ai soci.
Dal 2001 l’inizio della produzione Barbera d’Asti Docg Superiore “Sei Vigne Insynthesis”.
Le migliori uve Barbera provenienti da sei vigneti dove i viticoltori hanno avuto al loro fianco i tecnici della Cantina sociale per tutto l’intero processo agronomico. Il risultato?
“Una Barbera che esprime amore, impegno, volontà, scienza enologica e passione dei viticoltori associati coinvolti”.
Le celebrazioni del 60esimo compleanno non potevano essere festeggiate meglio se non con una verticale di Barbera d’Asti Docg Superiore “Sei Vigne Insynthesis”. Vendemmie 2009, 2007, 2006, 2004, 2003, 2001.
Ma di questo evento nell’evento ne parlerò dettagliatamente in un prossimo specifico articolo in degustazioni.
Comunque anticipo che la Barbera d’Asti Docg Superiore “Sei Vigne Insynthesis” della Cantina Vinchio-Vaglio Serra è entrata ufficialmente e meritatamente nell’Olimpo dei grandi vini italiani. Chapeau!
Visita del 13 luglio 2019
Viticoltori Associati Vinchio-Vaglio Serra
Strada provinciale 40, Km 3,75
Località Regione San Pancrazio 1
Vinchio (Asti)
Tel: 0141 950903
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Frammenti che orbitano qua e là, individuati, carpiti; li commento e condivido con voi.
La Riflessione!
Il pericolo giallo.
La Cina prima produttrice mondiale di uva. Notizia fresca fresca dell’ultim’ora. Pensavamo che questo risultato che ha dell’incredibile (non per me) arrivasse, caso mai, tra qualche anno. Hanno bruciato i tempi portando l’estensione dei vigneti a 875.000 ettari, secondi solo alla Spagna (969.000) che presto supereranno visto il trend di crescita espansiva territoriale. Qualcuno dei “soloni” addetti ai lavori, oltre continuare a belare “noi siamo i migliori e i cinesi non arriveranno ai nostri risultati di qualità”, hanno aggiunto dopo l’uscita della notizia data durante il 42° Congresso Mondiale Della Vite e del Vino:”si tratta in gran parte di uva da tavola”. Bene; abbiamo trovato la scusante per continuare a “far finta di niente”. Ed allora mi pongo due interrogativi: primo “ma anche noi e gli spagnoli produciamo quantitativi interessanti di uva da tavola”; secondo “ ma i 10 milioni di ettolitri di vino prodotti dai cinesi non rappresentano niente?” E non parliamo della qualità per favore. Meditate e svegliatevi.
Frammento n. 1
60 volte Vinchio e Vaglio Serra
Vinchio e Vaglio Serra sono due paesini dell’astigiano posizionati sui rispettivi colli. Per noi che parliamo di vino i loro nomi uniti ma separati da un trattino rappresentano una realtà vitivinicola primaria se non unica nella zona. Viticoltori Associati Vinchio-Vaglio Serra è una realtà con più di 200 associati (si può dire “tutti” i viticoltori presenti nell’area interessata) di grande rilevanza a livello nazionale. In questi giorni ha festeggiato i suoi 60 anni con una due giorni fitta di appuntamenti: il recupero di sentieri (I Nidi) che uniscono i due paesi e una verticale di Barbera d’Asti Superiore, “Sei Vigne Insyntesis”, che ha raccolto l’unanime apprezzamento dei giornalisti di settore (c’ero anch’io). Una Barbera fortemente identitaria, miglior biglietto da visita per questa realtà consapevole dell’importanza economica, sociale e culturale che riveste per le comunità locali.
Frammento n. 2
Le Nuove Comete
Sono uscite sul mercato due nuove “comete” del firmamento vitivinicolo di Alois Lageder, Magré in Alto Adige. Ultimi due esperimenti eseguiti in vigneto e in cantina. Perché vino cometa? Le comete prima si illuminano, poi percorrono le proprie orbite fino alla distruzione. Ma ogni volta lasciano delle tracce come ad indicare la direzione da seguire e così ogni bottiglia di Comete è un vino unico e irripetibile. Per chi volesse approfondire l’argomento: www.aloislageder.eu/vini/comete Mi dimenticavo: le due comete. Bla-Bla 2, vitigno autoctono altoatesino Blatterle e Min-XVI, particolare gewurztraminer.
Frammento n. 3
Onda Rosa, dieci rosé in una location incredibile: la spiaggia Vip di Forte dei Marmi.
Giovedì 11 luglio i Bagni di Villa Grey a Forte dei Marmi hanno ospitato una serata dedicata a 10 aziende toscane che producono vini rosé considerati tra la migliore offerta nazionale. Nove delle Colline Lucchesi con l’ormai affermato Villa Sardi e uno proveniente dalla Maremma: Tenuta Belguardo. Per la cronaca questi gli altri presenti: Colle di Bordocheo, Fabbrica di San Martino, Fattoria di Fubbiano, Il Calamaio, Tenuta Lenzini, Tenuta Mareli, Tenuta Maria Teresa, Villa Santo Stefano. Particolarità della serata il poter dialogare con i vignaioli, tutti presenti. Senza dimenticare gli abbinamenti gastronomici curati dallo chef Nicola Gronchi del ristorante Il Parco di Villa Grey. Omettevo di ricordare che tutte le aziende presenti praticano da tempo l’agricoltura biodinamica!
Frammento n. 4
Vino al calice. Quanti errori bisogna sopportare
Le regole esistono, accettate da tutti: bisogna rispettarle. Non è una questione economica. A volte ci troviamo al tavolo di un ristorante da soli o in due e una bottiglia di vino sappiamo di non riuscire a berla. Da noi portarla via “è un reato”, additati di spilorceria, al contrario di altri paesi dove lo stesso ristoratore ti offre il “bag” con tanto di iscrizione pubblicitaria del locale. Da noi, nel bel paese dei furbetti (e non ditemi che non è vero), molti recuperano le bottiglie mezze vuote (meglio dire mezze piene) per riciclarle come vino al bicchiere. Già, il vino al bicchiere. Ed allora ricordiamoci che:
La bottiglia va sempre portata al tavolo e lo sbicchieramento davanti al cliente;
Far assaggiare il vino prima di servirlo per evitare contestazioni;
Attenzione agli spumanti. Verificare che non siano della sera precedente altrimenti “tanti saluti alla carbonica”;
Attenzione al rabbocco. Mai nel bicchiere mezzo vuoto. Chiedere un calice pulito;
e non parliamo delle temperature delle bottiglie. I ristoranti “seri” hanno erogatori che garantiscono temperature perfette. Un consiglio? Se siete titubanti, ritenete che il servizio non sia all’altezza e possa non rispondere alle vostre aspettative, fatevi una “buona birra”.
Osservo, scruto, assaggio e…penso.
La primavera fiorisce sempre, l’estate fiammeggia sempre, l’autunno accarezza sempre nel mondo di colui che non si sazia mai dei liquori della vita, che non si dichiara mai vinto dagli eserciti della disperazione e della morte.
Giovanni Papini
Da domenica 7 luglio fino a lunedì 30 settembre, il Museo Paleontologico “Rinaldo Zardini” di Cortina d’Ampezzo ospiterà una mostra di rara bellezza: MONOCROME – Camminando tra le Dolomiti d’Ampezzo – Immagini dal libro fotografico di Manuel Cicchetti*.
Dice Cicchetti, nell’ introduzione al suo splendido volume, che la sua storia tra le dolomiti ampezzane è iniziata assai precocemente, fin da quando ha cominciato a muovere i primi passi proprio su quei sentieri.
E il suo rapporto d’amore (perché di questo indubbiamente si tratta), mai interrotto e sempre accresciuto, è ben racchiuso ed espresso nelle 25 fotografie in bianco e nero che compongono il libro. Fotografie raccolte nell’arco di ben quattro anni di ricerche esplorative quanto meditative, in cui le acque ribollenti dei ruscelli si alternano a ieratici silenzi lacustri, e nuvole massicce si alternano a filamenti ectoplasmatici inzuppati di cielo, a cirri e cumulonembi dalle luminanze variegate e cangianti. In cui pareti aspre si immergono in orizzonti abissali e boschi solenni vengono risucchiati nell’inesausto altalenìo del gioco delle stagioni. In cui l’inverno accondiscende appena alle prime tentazioni del sole e l’invito amoroso dell’aurora rimbalza sui ghiacci e sul crinale dei poggi respiranti alla vita.
Chi ama la montagna, chi sa cosa si provi colloquiando con il fruscio delle selve e il gorgoglio dei rivi incastonati nelle rocce, non potrà non innamorarsi di questa mostra e della magnifica pubblicazione da cui trae origine. E chi sa poco di montagna credo che difficilmente potrà riuscire a resistere alla fascinosa tentazione di incamminarsi, con passo lento e curioso, su qualche sentiero.
L’opera, con testi in italiano e inglese (180 pagine, formato 30x30, cartonato) gode dei patrocini di Fondazione Dolomiti UNESCO,Comune di Cortina d’Ampezzo, Regole d’Ampezzo e Parco Naturale delle Dolomiti d’Ampezzo, e, cosa importante e bella, parte del ricavato della vendita del volume sarà devoluta ai fini del ripristino e della cura delle foreste abbattute dalla tempesta dell’ottobre dello scorso anno.
Il Museo Paleontologico si trova presso il Centro Culturale Alexander Girardi Hall in Via Marangoi, 1 – loc. Pontechiesala – Cortina d’Ampezzo
Orari apertura:
Luglio 10.30-12.30 15.00 19.00 chiuso lunedì
Agosto aperto tutti i giorni 10.30 -12.30 15.00-19.00
Settembre 15.00 - 19.00 chiuso lunedì
Tel. 0436 875502 - This email address is being protected from spambots. You need JavaScript enabled to view it.
*Manuel Cicchetti è un creativo che si è misurato con le più varie attività artistiche, teatrali e musicali. Tra queste, fotografia e regia sono state preponderanti.
La Conca, le montagne, i boschi, i luoghi e le persone della zona di Cortina lo hanno profondamente influenzato nel suo rapporto con la Natura, assolutamente particolare e unica, come uniche sono le Dolomiti.
http://bit.ly/catalogomonocrome
La Russia, dove operano 500 aziende italiane, è il quinto mercato extra-europeo per il nostro export e fornisce il 35% del fabbisogno italiano di gas naturale.
L’interscambio – precisa Putin – è stato di 27 miliardi di dollari nel 2018, ma nel 2013 ammontava a 54 miliardi. Si è quindi dimezzato a causa di quello che Conte definisce il «deterioramento delle relazioni tra Russia e Unione europea che ha portato alle sanzioni europee» (in realtà decise a Washington). Nonostante ciò vi è tra i due paesi una «intensa relazione a tutti i livelli».
Toni rassicuranti che ricalcano quelli della visita di Conte a Mosca nel 2018 e del premier Renzi a San Pietroburgo nel 2016, quando aveva garantito che «la parola guerra fredda è fuori dalla storia e dalla realtà». Prosegue così la sceneggiata.
Nelle relazioni con la Russia, Conte (come Renzi nel 2016) si presenta unicamente nelle vesti di capo di governo di un paese dell’Unione europea, nascondendo dietro le quinte l’appartenenza dell’Italia alla Nato sotto comando degli Stati uniti, considerati «alleato privilegiato».
Al tavolo Italia-Russia continua quindi a sedere, quale convitato di pietra, l’«alleato privilegiato» sulla cui scia si colloca l’Italia.
Il governo Conte dichiara «eccellente» lo stato delle relazioni con la Russia quando, appena una settimana prima in sede Nato, ha accusato di nuovo la Russia di aver violato il Trattato Inf (in base alle «prove» fornite da Washington), accodandosi alla decisione Usa di affossare il Trattato per schierare in Europa nuovi missili nucleari a raggio intermedio puntati sulla Russia.
Il 3 luglio, il giorno prima della visita di Putin in Italia, è stata pubblicata a Mosca la legge da lui firmata che sospende la partecipazione russa al Trattato: una mossa preventiva prima che Washington ne esca definitivamente il 2 agosto.
Lo stesso Putin ha avvertito che, se gli Usa schiereranno nuove armi nucleari in Europa a ridosso della Russia, questa punterà i suoi missili sulle zone in cui sono dislocate.
È così avvertita anche l’Italia, che si prepara a ospitare dal 2020 le nuove bombe nucleari B61-12 a disposizione anche dell’aeronautica italiana sotto comando Usa.
Una settimana prima della conferma dell’«eccellente» stato delle relazioni con la Russia, il governo Conte ha confermato la partecipazione italiana alla forza Nato sotto comando Usa di 30 navi da guerra, 30 battaglioni e 30 squadre aeree dispiegabili entro 30 giorni in Europa contro la Russia a partire dal 2020.
Sempre in funzione anti-Russia navi italiane partecipano a esercitazioni Nato di guerra sottomarina; forze meccanizzate italiane fanno parte del Gruppo di battaglia Nato in Lettonia e la Brigata corazzata Ariete si è esercitata due settimane fa in Polonia, mentre caccia italiani Eurofighter Typhoon vengono schierati in Romania e Lettonia.
Tutto ciò conferma che la politica estera e militare dell’Italia viene decisa non a Roma ma a Washington, in barba al «sovranismo» attribuito all’attuale governo.
Le relazioni economiche con la Russia, e anche quelle con la Cina, poggiano sulle sabbie mobili della dipendenza italiana dalle decisioni strategiche di Washington.
Basta ricordare come nel 2014, per ordine di Washington, venne affossato il gasdotto South Stream Russia-Italia, con perdite di miliardi di euro per le aziende italiane. Con l’assoluto silenzio e consenso del governo italiano.
(il manifesto, 9 luglio 2019)
Nata a Kyiv, in Ucraina, da una famiglia di diplomatici. Kateryna "Katia" Sadilova nel 1999 ottiene il master nella facoltà di relazioni internazionali e politica estera dell'università Nazionale di Taras Shevchenko. Dopo un breve stage nel Ministero degli Affari esteri, dal 1999 al 2001 lavora nel dipartimento di ricerche strategiche del consiglio di sicurezza ucraino.
Nel 2001 si trasferisce in Italia, dove inizia a collaborare con vari canali televisivi ucraini, tra cui "1+1". Spesso invitata a conferenze che riguardano temi di geopolitica, in particolare inerenti a Ucraina, Russia ed est Europa, lavora attualmente come Digital Account Manager nel settore del Digital Advertising e ha partecipato come relatore in convegni su argomenti come le Fake News e il ruolo della Russia insieme a Anna Zafesova e Jacopo Iacoboni de "La Stampa", ed è attualmente vicepresidente di Futura, un'associazione di Lodi che, tramite conferenze e incontri, si occupa di promuovere i valori europei e affontare i temi politici di oggi.
Una breve panoramica della situazione politica ed economica attuale in Ucraina?
Per quanto riguarda la situazione economica va ricordato che dopo la fuga del presidente Yanukovych a febbraio 2014 nelle casse dello stato sono rimasti 3.600€. Questo per far capire in che stato drammatico si è trovato il paese. Nel 2015 il prodotto interno lordo è crollato del 10%, per risalire del 2,4 nel 2016 e del 2,5 nel 2017. Un aumento che si è consolidato nel 2018 con un +3,5%, nonostante la guerra. Cresce il numero delle aziende europee che aprono le proprie sedi in Ucraina: solo negli ultimi 4 anni sono state aperte oltre 2000 aziende arrivate dalla Germania che danno lavoro a circa 600 mila ucraini. Quel che attira di più è il basso costo del lavoro a fronte di una manodopera qualificata, infatti molti imprenditori hanno portato in Ucraina fabbriche che prima erano in Polonia, Romania, Slovacchia.
Il 2019 è pieno di incertezze, a causa delle elezioni appena passate. Gli investitori attendono cautamente per capire i prossimi passi del presidente neo eletto e vedere che clima regnerà nel paese dopo le elezioni parlamentari.
Persino il Fondo monetario internazionale, senza il cui supporto l’Ucraina sarebbe affondata, ha già fatto sapere che soltanto dopo le elezioni parlamentari si deciderà se il paese riceverà una tranche di 1,3 mlrd di dollari secondo il programma standby firmato a dicembre 2019.
Cosa significa oggi essere ucraini nello scenario politico, economico, culturale nel mezzo di oriente e occidente? Quali sono le caratteristiche principali dell'essere ucraino oggi?
Essere ucraini oggi vuol dire condividere i valori della famiglia europea e saper presentare il proprio paese e la propria cultura in tutto il mondo. L'Ucraina non deve affermarsi come paese, non è uno stato "Artificiale" che esiste da pochissimo, come sostiene la propaganda russa per sminuire l'intera nazione. L'Ucraina ha una storia di oltre mille anni di cui gli ucraini possono andar fieri. Pensare solo che già nel X secolo il Ducato Rus' di Kyiv (non confondere con la Russia che allora non esisteva nemmeno) è stato uno dei più sviluppati economicamente in Europa, contava numerose accademie e università. Le cronache parlano di Kyiv di quei tempi come della "Città delle cento cupole". L'attività edilizia era imponente (chiese di Santa Sofia, dell'Annunciazione, di Santa Irene), come pure la produzione di icone. Si costruirono anche monasteri (soprattutto il monastero delle Grotte) e numerosi palazzi.
Il granduca Yaroslav il Saggio fu soprannominato il Suocero d'Europa: ebbe dieci figli, sei maschi e quattro femmine. Le femmine sono state date in spose ai vari re dell'Europa: Elisabetta divento' moglie del re norvegese Gerald, Anna diventò moglie del re francese Enrico I, tuttora in Francia è amata e rispettata, ci sono i suoi monumenti in alcune città francesi. Anastasia fu la moglie del re Ungherese Andrash I, Agata fu data in sposa a Enrico III d'Inghilterra. Anche i figli maschi si sono sposati con varie principesse delle corti europee: Vsevolod sposò Irina, la principessa greca, un altro figlio, Izyaslav sposo' Gertruda, la figlia del re polacco.
Per cui possiamo sostenere con certezza che il sangue ucraino scorre nelle vene di quasi tutte le monarchie europee. Peccato che di queste cose in Italia non si parla proprio, e se si parla viene presentata una versione russa che non c'entra nulla con veri avvenimenti storici.
Pensare che Mosca è stata fondata solo nel 1147, mentre il Ducato di Rus di Kyiv esisteva già da oltre 300 anni! Il nome "Mosca" viene dalla lingua finnica e significa "umido, bagnato", visto che quel territorio fu abitato dalle varie tribù ugro-finniche che non c'entravano nulla con i slavi della Rus di Kyiv. Infatti fino a 1700 il terrirorio che oggi chiamiamo la Russia si chiamava Moscovia, soltanto con il Pietro il Grande il paese ha "espropriato" una parte del nome Rus di Kyiv, probabilmente per aggiungere i secoli della storia di un altro stato alla propria.
Questo "furto d'identita" riguarda molti famosi ucraini che tutto il mondo considera russi: Gogol, Čechov ("Sono nato in una piccola verde cittadina ucraina Taganrog"), Bulgakov: "Ma come sono belle le stelle in Ucraina. Ormai sono sette anni che vivo a Mosca, pero' non riesco a staccarmi dalla mia patria. Sento il dolore nel cuore, viene voglia di correre alla stazione e prendere il treno... per andare là. Di nuovo vedere i versanti coperti dalla neve, Dnepr... Non esiste la città più bella al mondo di Kiev!", Malevich. Igor Sikorskiy e tanti altri.
L'Ucraina di oggi sembra essere divisa, a macchia di leopardo, tra filorussi, nazionalisti, filoeuropeisti e chi, invece, desidera solo vivere in pace senza interferenze esterne. Quale è la vera identità del paese?
Per capire la vera identità ucraina si dovrebbe tornare indietro di 100 anni, quando, dopo la conferenza di Parigi nel 1918, il paese contava oltre 90 milioni di abitanti. Successivamente, con l’arrivo delle truppe sovietiche, alcune regioni ucraine come Kuban’, Belgorod, Kursk ecc con la maggioranza ucraina del 90% sono state "passate" alla Repubblica Sovietica Federativa Russa (adesso Federazione Russa) dove successivamente e fino ai nostri giorni è stata introdotta una politica di russificazione forzata.
Il resto del territorio ucraino ha subìto tragedie inimmaginabili come Holodomor, la fame artificiale indotta dal governo di Stalin per punire il popolo ucraino per la sua voglia di libertà e poca obbedienza nei confronti del governo “Rosso”. Nell’arco di due anni (1931-1933) l’Ucraina perse oltre 8 milioni di cittadini.
Dopo questa pagina nera per gli ucraini ne arrivò un’altra: la Seconda guerra mondiale, in seguito alla quale l’Ucraina perse oltre 9 milioni di vite (più del terzo di tutte le vittime dell’intera Unione Sovietica). Ricordiamo anche il Rinascimento ucraino che venne fucilato: negli anni Trenta il governo sovietico fucilò l’intera pleiade dei poeti, scrittori, musicisti e attori ucraini. La loro colpa? Portavano gli abiti tradizionali ucraini, scrivevano e recitavano in lingua ucraina.
Aggiungiamo a tutto questo la deportazione di intere regioni ucraine in Siberia, nei campi di concentramento e Gulag: Stalin amava tanto giocare a “Risiko”, spostando interi popoli e mandandoli a morire nei posti più sperduti dell’impero sovietico dove in inverno le temperature arrivano a -55°C.
Così fu con i tatari della Crimea, così fu con gli ucraini di Donbass. Se adesso, per curiosità, controllate i cognomi dei cittadini russi che abitano in Siberia, noterete che la maggior parte porta i cognomi ucraini, quelli che finiscono con -ko: Shevchenko, Stefanenko, Petrenko, Gritsenko. Sono eredi degli ucraini deportati. Gli ucraini e i tatari della Crimea hanno avuto lo stesso terribile destino: le loro case vuote, dopo la deportazione, sono state assegnate ai cittadini russi; in Crimea (dato il clima e il mare) le case dei tatari sono stati regalati ai fedelissimi del partito comunista, nel Donbass mandavano anche gli ex carcerati, criminali, la gente con i precedenti penali, per costruire gli stabilimenti, lavorare nelle miniere, anche gratuitamente, per far ripartire l’economia sovietica dopo la Seconda guerra mondiale. Proprio per questo l’Ucraina di oggi sembra di essere a macchia di leopardo. Gli europeisti sono gli eredi degli ucraini sopravvissuti dopo il “trattamento speciale” riservato alla nostra nazione dal regime sovietico, quelli filorussi sono gli eredi dei “commissari rossi”, quelli che furono i boia del popolo ucraino, quelli che non si sono mai sentiti ucraini, non hanno mai accettato la lingua e l’identità ucraini.
Il popolo ucraino di oggi cosa ha in comune con quello russo e con quello europeo?
Con l’Europa sicuramente lo spirito di libertà, la democrazia, la tolleranza, l’assenza di paura nei confronti delle persone che rappresentano una cultura diversa. L’Ucraina è uno dei pochi paesi dove una moschea dista 100 m da una sinagoga, una chiesa cattolica da quella ortodossa, e non ci sono mai state tensioni. Il popolo ucraino (almeno la maggior parte) è molto tollerante.
Con quello russo in comune abbiamo il passato. Questo collegamento lo sentono soprattutto le persone di una certa età, quelle che hanno vissuto la maggior parte della loro vita nell’impero sovietico. Sono ancora attaccate ai film e alle canzoni sovietiche, spesso questa nostalgia si manifesta non perché lo stato sovietico non esiste più, ma perché gli anni più belli sono passati, gli anni della propria giovinezza che si confondono con l’amore verso l’Unione Sovietica, spiegando che "Allora il gelato era più buono", "Le caramelle erano più dolci" e "Il pane era più soffice". Preferiscono non credere e rimuovere completamente tutte le informazioni che riguardano i crimini del regime sovietico.
In più c’è la lingua. Non è un segreto che per via degli avvenimenti storici che ho già spiegato quasi la metà del paese parla la lingua russa, si tratta soprattutto delle generazioni nate negli anni 50, 60, 70 e 80, i giovani ucraini nati dopo l’indipendenza del 1991 nella maggior parte dei casi parlano la lingua ucraina, questa tendenza è particolarmente evidente dopo la rivoluzione del 2013-2014. Il fatto curioso è che molte persone russofone rifiutano categoricamente di essere associate e collegate alla Russia, sottolineando di sentirsi al 100% ucraini. Infatti la metà di ucraini caduti nel Donbass difendendo la patria dalle truppe dei militanti russi era di madrelingua russa.
Come è cambiata la coscienza nazionale degli ucraini in questi ultimi 10 anni, tra Euromaidan, Rivoluzione arancione, annessione della Crimea, ingerenze russe, ruolo dell'Europa ecc?
Sicuramente gli eventi nominati hanno rafforzato la voglia degli ucraini di diventare ufficialmente parte della comunità europea. Nessuno ha dei dubbi che, geograficamente parlando, l’Ucraina faccia parte dell’Europa, alla fine si trova nel cuore dell’Europa.
Ricordiamo, inoltre, che gli ucraini sono stati gli unici come nazione a morire a Maidan stringendo al petto la bandiera europea. Gli europei di oggi, quelli che hanno la fortuna di far parte dell’Unione, sono pronti a fare altrettanto se dovesse succedere quello che è successo agli ucraini...essere attaccati da uno stato confinante nonché morire per le proprie idee?
La perdita dei territori, annessi dalla Federazione Russa, la successiva occupazione del Donbass, 13 mila morti, tre milioni di sfollati...questo è il prezzo che sta pagando l’Ucraina per aver intrapreso il percorso europeo. Le famiglie distrutte, giovani vedove, bambini orfani, ragazzi ventenni mutilati, funerali dei militari ogni giorno, come fa tutto questo a non cambiare la coscienza nazionale?
Fino a pochi decenni fa, l'Ucraina era considerata Unione Sovietica. Quanto pesa ancora oggi quell'eredità nell'indipendenza e nell'identità dell'Ucraina?
Pesa ancora parecchio. Per spezzare questo cordone ci vogliono almeno due generazioni, nate dopo la proclamazione dell’Indipendenza. Nonostante 28 anni già passati, molti giovani di oggi, nati dopo il 1991 (soprattutto nelle regioni sud-orientali) continuano ad assorbire questa "nostalgia" grazie ai racconti di nonni e genitori.
Tali racconti spesso sono idealizzati, in quanto si tratta di un fenomeno psicologico molto diffuso: con il passar del tempo la memoria umana rimuove la maggior parte degli episodi negativi, lasciando solo quelli piacevoli. Aggiungiamo a questo un fattore molto importante: i mass media. Il 90% dei canali televisivi ucraini appartiene agli oligarchi, quasi tutti filorussi, per cui l’informazione che viene passata al cittadino tramite questo mezzo di informazione corrisponde alle preferenze del proprietario del canale. Ci sono quelli con un’audience molto importante, che mandano in onda tutto il giorno film sovietici, concerti degli anni 70, varie trasmissioni e talk-show dei canali russi (anche oggi identiche a quelli sovietici per quanto riguarda la propaganda e fake news), questo condiziona molto il pubblico nonché danneggia la percezione della realtà.
Per essere indipendenti non basta definire le frontiere dello stato, ci vuole anche la percezione mentale dell’indipendenza da parte dei cittadini, la consapevolezza di appartenere ad un’altra nazione, altra cultura, altri valori, diversi da quelli russi (sovietici). Finché questo non accadrà il popolo ucraino sarà costretto a trascinare il bagaglio sovietico per molti anni, perdendo tempo e risorse.
Un eventuale ingresso nell'UE potrebbe ostacolare l'indipendenza dell'Ucraina o sarebbe un vantaggio per il paese?
Sicuramente sarebbe un vantaggio, l’ingresso sia nell’UE che nella NATO. Le strutture europee e euroatlantiche possono dare e insegnare tanto: il rispetto dei diritti civili, il sistema giudiziario, la responsabilità civile, le regole della trasparenza economica. Ma anche l’Ucraina può dare tanto all’Europa: soprattutto rinnovare e sollevare il suo spirito, visto il clima di sfiducia che regna ultimamente nella maggior parte dei paesi dell’Unione.
L’Ucraina in questi anni di guerra è riuscita a costruire forze armate efficienti e professionali che possiedono l’ottavo posto in Europa e il 29° posto nel mondo secondo la classifica Global Firepower.
Inoltre, l’Ucraina è sempre stata chiamata “Il granaio dell'Europa”, l’export dei prodotti ucraini verso i paesi dell’Unione Europea cresce ogni anno. Nel 2018 l’Ucraina ha esportato nei paesi dell’UE servizi e generi alimentari per un importo di oltre 20 miliardi di dollari. Sta crescendo l’interesse dei cittadini comunitari verso l’Ucraina come meta turistica: Kyiv, Leopoli e Odessa sono le mete preferite. Kyiv ormai da 5 anni fa parte della lista di 10 capitali europee più belle da visitare.
Quali potrebbero essere stati gli errori dell'Occidente nella gestione della crisi ucraina?
Sicuramente il timore e la titubanza nel chiamare l’aggressore con il suo vero nome. È chiaro che la Federazione Russa è una potenza nucleare ed è altrettanto chiaro che l’Occidente abbia permesso all’establishment russo di inserirsi, tramite mezzi economici spesso molto discutibili, nella vita di ogni paese, finanziando partiti politici, giornalisti, imprenditori. In tutti questi anni sono stati creati dei legami con la Federazione Russa, soprattutto in Italia, che influiscono sulla presa di posizione e sull’approvazione di certe decisioni.
Però esistono anche gli obblighi presi dall’Europa e dagli Stati Uniti nei confronti dell’Ucraina nel 1994 tramite il memorandum di Budapest: l’Ucraina era la terza potenza nucleare nel mondo, ha rinunciato poi al possesso delle armi nucleari in cambio alle garanzie dell’integrità territoriale da parte dei paesi-garanti. L’ironia della sorte è che fu attaccata proprio da uno di questi garanti, la Federazione Russa, e la risposta dell’Occidente è stata debole e insufficiente.
Probabilmente l'Occidente non si è reso conto che con questa violazione del diritto internazionale è stato scoperto il vaso di Pandora: come fanno adesso a convincere, ad esempio, la Corea del Nord a rinunciare alle armi nucleari? Risponderanno giustamente: guardate cos’è successo all’Ucraina.
Va però detto che, nonostante tutto, i paesi dell’UE votano all'unanimità per quanto riguarda la proroga delle sanzioni contro la Federazione Russa per l’annessione della Crimea e per violazione degli accordi di Minsk. Questo è un segnale decisamente positivo. Mi auguro che i politici europei capiscano che in questo momento i militari ucraini difendono non solo la frontiera orientale del proprio paese, ma anche quella dell’Europa. Se cade l’Ucraina l’Europa sarà la prossima.
Con questa crisi, c'è chi teme un ritorno di una "Guerra Fredda", con l'Ucraina nel mezzo. È uno scenario fattibile?
La Guerra Fredda è già in corso ed è iniziata molto prima, nel momento in cui il presidente russo Vladimir Putin ha dichiarato che la maggior tragedia del XX secolo fu il crollo dell'Unione Sovietica. Tutto quello che è successo dopo - l'omicidio dei dissidenti russi, di 314 giornalisti tra cui Anna Politkovskaya, Stas Markelov, Anastasiya Baburina, Nataliya YEstemirova e tanti altri, l'avvelenamento di Litvinenko, la morte sospetta di Berezovskiy, la guerra con la Georgia nel 2008...tutto questo fa parte della guerra fredda. Se l'Occidente lo avesse capito e avesse reagito prima avremmo potuto evitare tanti morti, non soltanto in Ucraina, ma anche in Siria, Venezuela, ovunque ci sia l'interesse della Russia.
Per la sua posizione di "Terra di confine" tra occidente e oriente e per numerosi altri fattori, la crisi ucraina è molto importante nello scenario geopolitico europeo. Eppure in Italia, ma anche nel resto d'Europa, se ne parla poco a livello mediatico, specialmente a confronto di altri argomenti molto più gettonati come il terrorismo, l'immigrazione, la Siria, la mafia ecc. Lo stesso conflitto nelle zone del Donbass ha ben poco risalto nei media, figuriamoci nei libri. Perché, nonostante la sua importanza, l'argomento Ucraina è cosi poco discusso?
In Italia è veramente poco discusso...i motivi sono diversi. In primis perché tra l’Italia e la Federazione Russa c’è sempre stato un rapporto particolare, privilegiato, un rapporto di particolare vicinanza per motivi storici che risalgono ancora agli anni 70. L’Ucraina è sempre stata vista in Italia come parte della Russia (grazie anche alla diffusione della propaganda russa in Italia). Ad esempio ancora oggi, spesso, quando mi chiedono delle mie origini e io rispondo che sono ucraina, il mio interlocutore mi risponde: “ah, sei russa”.
Nonostante la poca distanza tra Kyiv e Roma (non parliamo poi di Milano), soli 2 ore con l’aereo, l’Italia non si è mai sforzata per avere i propri inviati a Kyiv. Ricordo che l’Ucraina è il più grande paese europeo, si trova nel cuore dell’Europa, ma nonostante questo, tutte le notizie che riguardano l’Ucraina arrivano direttamente dai corrispondenti italiani che stanno a Mosca. Vi sembra normale? Perché poi ci meravigliamo quando parlano del conflitto russo-ucraino dal punto di vista della Russia, diffondendo le false notizie?
Ho visto più volte i reportage dei vari telegiornali italiani in prima serata che trasmettevano i video con il logo DNR/LNR, le repubbliche terroristiche autoproclamate, armate e supportate dalla Russia. Questo succede in uno dei paesi dell’Unione Europea. I giornalisti non vanno a chiedere le informazioni alle agenzie ucraine, ma preferiscono dare la voce alla propaganda del paese aggressore. Possiamo contare con le dita di una mano i giornalisti italiani che affrontano la questione ucraina con la massima serietà e professionalità, ma loro non fanno parte della cerchia degli "Eletti" quelli che si vedono ogni giorno in TV.
Aggiungiamo poi alcuni politici italiani molto conosciuti che, violando le norme del diritto internazionale, si recano sui territori annessi ucraini, la Crimea, senza chiedere il permesso all’Ucraina, entrando sul territorio della penisola annessa dal territorio del paese aggressore. Che messaggio mandano alla società? Dov’è il rispetto della vita umana e tredici mila morti ucraini?
Considerata la sua importanza economica e strategica (basti pensare alle esportazioni di prodotti agricoli e al passaggio dei gasdotti), l'Ucraina potrebbe ancora ribaltare la sua posizione nei confronti di Russia e America e tornare a trarre per prima vantaggio dalla propria posizione geopolitica?
Certamente, ma questo può succedere solo quando cadrà l'attuale regime russo. Finché c’è Vladimir Putin come presidente della Federazione Russa temo che la situazione non cambi e la guerra non finisca, almeno che l’Ucraina non decida di arrendersi e tornare nella sfera dell’influenza russa, ma per il momento non vedo i presupposti per questa retromarcia.
L'Ucraina è ancora oggi considerata uno dei paesi con il più alto tasso di corruzione. Quanto peso ha ancora oggi questa discutibile pratica nella vita politica, sociale ed economica del paese? E che ruolo ne ricoprono ancora i cosiddetti oligarchi?
Purtroppo, il problema esiste. Ma è vero anche che negli ultimi 5 anni la situazione è notevolmente migliorata, l’Ucraina ha fatto i passi da gigante. Basta pensare al sistema ProZorro (Прозоро, "Trasparenza" in ucraino. Il sistema elettronico per la gestione di appalti pubblici attivo dal 1 agosto 2016, ndr) che permette di migliorare la trasparenza imprenditoriale, la facilità nell’aprire la partita IVA (bastano 5 minuti), rende pubbliche le dichiarazioni dei redditi dei politici e deputati, facilmente consultabili online da qualsiasi cittadino, facilita le riforme nel sistema sanitario e quelle dell'Istruzione.
Si poteva fare molto di più, questo è certo. L’influenza degli oligarchi sulla vita degli ucraini è ancora rimasta, sicuramente molto meno di prima, ma tuttavia c’è, soprattutto nel campo energetico. Va anche detto che in seguito alle ultime elezioni presidenziali in Ucraina e future elezioni parlamentari esiste un notevole rischio del ritorno della situazione di 5 anni fa.
L'ingresso dell'Ucraina nella NATO potrebbe essere un rischio per la posizione di superpotenza della Russia, come alcuni temono?
Finché Vladimir Putin sarà il presidente della Federazione Russa farà di tutto perché questo non accada. Lo scopo principale di tutta la presidenza di Putin è il rinnovo dell'impero sovietico, in un modo o nell'altro, l'allontanamento dell'Ucraina dalla sua sfera di influenza verso le strutture Euroatlantiche lo vede come minaccia alla realizzazione del suo sogno geopolitico.
Ovviamente l'ingresso dell'Ucraina nella NATO non puo' essere in alcun modo un rischio per la Russia, che ha già i paesi del Patto atlantico lungo i propri confini. Il danno sarebbe puramente psicologico, in quanto l'Ucraina è una colonna portante dell'eventuale alleanza "Sovietica", simile a quella che ha già la Federazione Russa con la Bielorussia. Se non ci sarà più l'Ucraina in questo folle progetto non ci sarà il progetto stesso.
Volodymyr Oleksandrovych Zelensky è il nuovo presidente dell'Ucraina: ha vinto con oltre il 70% delle preferenze. Sembra quasi che il popolo ucraino, pur di avere un netto cambiamento, fosse disposto a eleggere "...anche una sedia", come commenta "L'Economist". Ma è realmente lui il presidente di cui l'Ucraina ha oggi bisogno?
Innanzitutto vorrei precisare che il presidente Zelenskiy ha vinto con il consenso del 73% di quelli che hanno votato. il 43% degli ucraini non si è presentato ai seggi, per cui se dovessimo prendere tutti i cittadini ucraini che hanno il diritto di voto, allora la percentuale cambia, diventando il 44%. Va anche detto che a tal punto anche il Presidente Poroshenko non ha preso il 25%, ma soltanto intorno al 13%.
Con l'elezione del presidente Zelenskiy i cittadini ucraini hanno mostrato il forte desiderio di cambiare l'establishment del paese, essendo insoddisfatti dei politici di vecchia data e pensando che con l'arrivo della "Gente nuova" il processo del cambiamento nel paese si velocizzerà.
A mio parere queste elezioni hanno reso evidente tutta l'immaturità della società civile ucraina nonchè l'assenza di responsabilità e di un'idea chiara quanto lavoro deve essere fatto prima di iniziare a vedere i risultati delle riforme, sopratutto nel paese dove il 5% del prodotto lordo interno è destinato alle forze armate.
Era chiaro che in 5 anni, in un paese con un enorme bagaglio sovietico alle spalle, con una vera guerra in casa, con le casse dello stato lasciate vuote dal presidente fuggiasco Yanukovich nel 2014, non si poteva costruire nè la Svizzera nè la Germania, ma nemmeno la Polonia. I polacchi ci hanno messo oltre 20 anni per arrivare dove sono adesso, subendo le dolorose riforme e l'inflazione galoppante, per l'Ucraina ci vorranno altri 30 per avere il livello della Polonia di oggi.
Ci vogliono le riforme, iniziate dal governo precedente, tanto sudore, la responsabilità civile, la consapevolezza del sacrificio richiesto. Evidentemente il 44% dei cittadini non era pronto a tali sacrifici, la pazienza e la voglia di andare avanti, strigendo i denti si sono esaurite abbastanza in fretta.
Aggiungiamo anche la guerra, ogni giorno ci sono funerali, ogni giorno feriti e morti, tutto questo, sicuramente, è stato un altro fattore deprimente. Tutte queste debolezze, inerenti a qualsiasi persona, sono state sfruttate alla perfezione dai mass media che con l'aiuto della manipolazione e delle false notizie trasmesse 24 ore su 24 sono riusciti a convincere molti ucraini che la situazione economica e politica del paese è decisamente peggiore rispetto a quella che viene dichiarata dal presidente, dal governo e dalle istituzioni finanziarie mondiali. Sono riusciti a far credere che la guerra possa essere finita nell'arco di pochi giorni, ma non finisce perché "A Poroshenko conviene". Dimenticando che non è stato Poroshenko a dichiarare la guerra alla Russia e annettere i suoi territori. Si sa che la guerra la puo' finire soltanto chi l'ha iniziata. L'altra parte puo' solo combattere e cercare di vincerla oppure arrendersi.
Tutti i problemi del paese sono stati appositamente ingigantiti, tutti i cambiamenti positivi sono stati sminuiti, i deputati del Parlamento mostrati come un branco di incompetenti, le persone stimate e conosciute sono state infangate. Tutto questo ha potuto succedere in quanto quasi tutti i canali televisivi ucraini appartengono agli oligarchi. Molti di loro sono legati alla Russia per vari motivi, per di più quelli economici e del business, per questo la direzione verso l'Occidente intrapresa dall'Ucraina non coincide con i loro interessi. Alcuni di questi oligarchi, anche non essendo particolarmente filorussi, hanno deciso lo stesso di unirsi agli altri per avere profitti personali.
Perché Zelenskiy? La scelta è stata studiata a tavolino, quando, circa tre anni fa, il canale televisivo 1+1, appartenente all'oligarca Igor Kolomoyskiy, che viene considerato quasi il padrino del presidente Zelenskiy, ha iniziato a mandare in onda in prima serata le puntate della serie "Il servo del popolo", dove Vladimir Zelenskiy ha interpretato il ruolo di un semplice insegnante che improvvisamente diventa il presidente e inizia a lottare con il sistema del paese completamente corrotto per costruire uno stato prosperoso dove regna la giustizia: un presidente onesto, che va al lavoro in bicicletta, "uno di noi" insomma, uno del popolo.
Tale serie, con tantissime puntate, è diventata talmente famosa in Ucraina che la gente involontariamente ha attribuito il carattere e le capacità del "presidente" televisivo interpretato da Zelenskiy a Zelenskiy stesso. E' stata un'operazione ammirevole e sarebbe curioso osservare come andrà a finire se non si trattasse del paese in guerra che potrebbe non sopravvivere a tale "esperimento".
Insieme a Zelenskiy nella sua amministrazione sono entrati i suoi colleghi attori e compagni del business (Zelenskiy è molto ricco, è proprietario di molti beni immobiliari, anche all'estero, in Italia e in Gran Bretagna), ha il business, anche in Russia.
Ma a parte i colleghi e amici del presidente, a mano a mano stanno tornando anche le persone vicine all'ex presidente fuggiasco Yanukovich. Di sicuro non sono quelle "facce nuove" promesse durante la campagna elettorale. La prima visita del presidente Zelenskiy è stata a Bruxelles dove lui ha rassicurato i partner europei della continuazione del percorso ucraino intrapreso dal presidente precedente, con l'obiettivo finale della membership nelle strutture europee. E' ancora molto presto per valutare l'operato e trarre le conclusioni, ma sta di fatto che attualmente abbiamo una situazione interna assai difficile, con una crisi istituzionale tra presidente e parlamento.
Gli ultimi 5 anni sono stati molto intensi per la storia dell'Ucraina. Nel bene e nel male, che scenari prevedi, o speri, per il futuro del paese?
Prevedere qualcosa per l'Ucraina è una cosa molto difficile. Dipende molto dalle azioni del nuovo presidente e del nuovo parlamento. Vorrei credere che il punto di non ritorno nei confronti della Russia è già stato passato, vorrei credere che il paese dopo tanti sacrifici, tanti morti a Maidan e successivamente nel Donbass non cada nella trappola del populismo sfrenato e non ceda la propria indipendenza in cambio di promesse che non potranno essere mantenute. Vorrei credere che una parte della società civile sia abbastanza matura e attiva per controllare scrupolosamente ogni passo e ogni legge del governo, intervenendo prontamente se è necessario. L'Ucraina è l'Europa, il futuro dell'Ucraina si trova all'ovest e non all'est.
Di fronte a una Cina che sembra pronta a mettere in discussione la supremazia mondiale statunitense, diversi analisti hanno recentemente chiamato in causa la cosiddetta trappola di Tucidide;un insieme di processi che nell'arco di qualche decennio può sfociare in un conflitto armato maggiore
Iniziata dopo il crollo dell'Unione sovietica (URSS) e prolungatasi per tutti gli anni '90 con la diffusione globale del neoliberalismo e la proiezione militare lungo assi strategici con il pretesto dell'intervento umanitario, l'era della superpotenza USA viene messa in discussione ormai da circa un decennio da almeno due rivali. In primo luogo, c'è la Russia di Vladimir Putin, che dai primi anni 2000 basa la sua strategia di ascesa geopolitica su due cardini contemporaneamente: il controllo territoriale di aree strategiche, in particolare nei Balcani, in Medio Oriente – Mediterraneo orientale, in Asia centrale e nell'Artico, e il distacco dalla rete Internet mondiale sotto il controllo statunitense. Questi due cardini sono entrambi orientati (almeno finora) al contenimento delle potenze rivali attraverso una retorica centrata sul pluralismo, ossia su una nozione di coesistenza pacifica, fondata sul principio di non ingerenza di ciascuna potenza nella sfera di influenza delle altre. Si tratta di una logica analoga a quella cui ricorre il Giappone per arginare l'espansionismo cinese nell'Oceano Pacifico, soprattutto di fronte ai ripetuti tentativi di Pechino di conquistare più o meno direttamente il controllo degli stretti. Tanto più che a insidiare più da vicino la supremazia USA sembra proprio la Cina, che, a differenza della Russia, punta su ricerca e sviluppo nel settore delle nuove tecnologie dell'informazione e della comunicazione, dell'intelligenza artificiale e dell'internet delle cose, secondo quanto programmato dal presidente Xi Jinping nel piano Made in China 2025. Un progresso graduale, che si affianca a quello delle nuove vie della seta, la Belt and Road Initiative (BRI), che attraverso il controllo delle rotte commerciali di Europa, Asia e Africa dovrebbe assicurare con infrastrutture reali un eventuale futuro dominio cinese del cyberspazio.
Questa conflittualità latente si realizza in una miriade di conflitti civili e regionali che innescano concatenazioni di eventi disastrose e molto difficilmente reversibili. Gran parte di queste guerre affonda le sue radici nella strategia attuata dagli Stati Uniti dopo l'implosione del blocco sovietico: assumere gradualmente il controllo economico, culturale e, laddove sia più vantaggioso, militare sulle regioni un tempo parte della sfera di influenza dell'URSS, soprattutto nella fascia compresa tra i Balcani, il Caucaso e l'Asia Centrale. Territori sui quali si estende la BRI di Pechino e le operazioni delle fondazioni statunitensi come quella di Donald Rumsfeld, ex segretario di Stato alla Difesa degli Stati Uniti, che nel 2014 ha istituito il Forum regionale CAMCA (Asia Centrale, Mongolia, Caucaso e Afghanistan), per mantenere contatti continui tra imprenditori e personaggi politici su temi come la democrazia e il mercato libero (in sintesi, la versione neoliberale della democrazia moderna). All'interno di queste due reti di relazioni, uno dei punti deboli di Washington è il Medio Oriente per come si è configurato in conseguenza della politica estera statunitense degli ultimi decenni: in modo più evidente a partire dalla guerra Iran-Iraq, durata per quasi tutti gli anni '80, ma nella sostanza già dal 1953, anno dell'operazione Ajax, un colpo di Stato ordito dai servizi segreti britannico e statunitense, che rovesciò l'allora primo ministro iraniano Mohammad Mossadeq (colpevole di aver nazionalizzato l'industria petrolifera) e restaurò il regime autocratico di Mohammad Reza shah Pahlavi, il cui sistema repressivo ridusse ai minimi termini l'opposizione socialista e, in generale, laica. Nondimeno, le cause profonde della situazione odierna risalgono per lo più agli anni '90, il decennio della globalizzazione, immediatamente successivo al crollo dell'URSS, durante il quale Washington ha utilizzato alcuni satelliti per puntellare la sua strategia di espansione, quindi di affermazione di sé quale unica potenza mondiale. Tra questi, oltre al Giappone, alla Turchia (per i suoi legami storici con l'islam balcanico, caucasico e centro-asiatico) e a Israele, ci sono le petromonarchie del Golfo, in particolare Arabia Saudita (per la sua influenza storico-culturale sull'islam sunnita arabo) ed Emirati Arabi Uniti.
È questa la principale ragione per cui il periodo tra il 1990 e il 2001 (anno nel quale il terrorismo islamico di al-Qaida ha avuto significative ripercussioni sugli equilibri geopolitici mondiali) è stato denso di conflitti etnici, confessionali e tribali: per citare gli esempi più significativi, dai Balcani, con la dissoluzione sanguinosa della ex-Jugoslavia e la guerra civile in Albania; al Caucaso, con le guerre in Nagorno-Karabakh, Ossezia, Abkhazia, Georgia, Cecenia e Daghestan; fino all'Asia Centrale, con le guerre civili in Afghanistan e Tajikistan. Una conflittualità per certi aspetti analoga, sia pure con le dovute differenze di contesto, a quella che ha interessato nello stesso periodo il Medio Oriente e l'Africa: sempre per citare alcuni esempi, la guerra del Golfo (1990-91), la rivolta curda in Iraq, il decennio nero in Algeria, la guerra civile in Yemen (quella del 1994) e le ribellioni dei Tuareg in Mali e in Niger. In tutte queste guerre, in modo più o meno diretto e talvolta con il pretesto dell'intervento umanitario, gli Stati Uniti e l'Alleanza atlantica (NATO) sono intervenuti a sostegno di una o più parti coinvolte, provocando squilibri che rendono estremamente difficile stabilire negoziati e colloqui di pace risolutivi. Attualmente, sotto l'amministrazione del presidente Donald Trump, la politica mediorientale è materia di competenza di Jared Kushner, suo genero e consigliere speciale responsabile per il Medio Oriente, pur senza una specifica conoscenza della regione. Inoltre, l'ex segretario di Stato Rex Tillerson, sostituito dopo una breve transizione da Mike Pompeo, ha recentemente affermato davanti al Congresso che Kushner, talvolta assieme all'ex consigliere di Trump Steve Bannon, lo ha tenuto all'oscuro di importanti informazioni, escludendolo dalle sue iniziative diplomatiche. Un esempio è certamente la decisione di buona parte del Consiglio di Cooperazione del Golfo di isolare il Qatar, della quale Kushner e Bannon erano stati informati da rappresentanti sauditi ed emiratini nel corso di un incontro di cui Tillerson non sapeva alcunché.
Malgrado i suoi metodi, o forse grazie ad essi, Kushner rappresenta l'alleato ideale dell'Arabia Saudita del principe ereditario Mohamed bin Salman (MBS) e degli Emirati Arabi Uniti del principe ereditario Mohamed bin Zayed (MBZ), le due petromonarchie del Golfo su cui gli Stati Uniti puntano da decenni, assieme a Israele, per controllare il Medio Oriente arabo-islamico. Questi due paesi acquistano ingenti quantità di armamenti da Washington, una scelta particolarmente apprezzata dagli USA di Trump, come dimostra l'ostentazione da parte di quest'ultimo dei contratti multimiliardari siglati con Riyadh. Uno spettacolo che si è svolto nel primo viaggio diplomatico di Trump come presidente, a maggio 2017. Peraltro, una simile concezione mercantilistica della diplomazia che caratterizza Trump, si può considerare una delle forme in cui si realizza il modello dello Stato-azienda, inaugurato da Silvio Berlusconi negli anni '90 (si veda a tal proposito l'articolo https://www.monde-diplomatique.fr/2019/05/MUSSO/59844). Due sono le conseguenze di questa strategia. Anzitutto, Mohamed bin Salman e Mohamed bin Zayed contano sul sostegno statunitense per attuare una politica aggressiva nei confronti dell'Iran, che considerano una “minaccia in comune” con Washington, e per assicurarsi un controllo stabile sui rispettivi paesi. Emblematico è a tal proposito quanto avvenuto a seguito dell'uccisione del giornalista saudita Jamal Khashoggi (che peraltro era nipote di Adnan Khashoggi, coinvolto a suo tempo nello scandalo Irangate). In secondo luogo, ha creato poli di potere che rischiano in futuro di generare nuovi conflitti. Un esempio fra tutti, il crescendo di intraprendenza espansionistica della Turchia, manifestazione del progetto neo-ottomano del presidente Recep Tayyip Erdoğan. Quest'ultimo, infatti, intende estendere l'influenza turca all'islam politico arabo, ragion per cui, a differenza dell'Arabia Saudita, sostiene i Fratelli Musulmani e le formazioni politiche ad esso legate, come Hamas in Palestina. La rivalità latente tra Ankara da un lato e Riyadh e Tel Aviv dall'altro, è emersa in parte proprio con l'uccisione di Khashoggi, avvenuta nel consolato saudita di Istanbul: il presidente israeliano Benjamin Netanyahu ha esplicitamente affermato che un simile episodio, per quanto orribile, non intacca l'importanza strategica dell'Arabia Saudita e di Mohamed bin Salman. Una linea assai simile a quella del presidente egiziano Abd al-Fattah al-Sissi.
In un simile contesto, l'Europa rischia di essere ridotta a territorio di conquista, a teatro di scontro, e di perdere l'ennesima occasione di rivendicare un proprio ruolo geopolitico. Un ruolo che potrebbe essere conquistato sia impedendo, o almeno ostacolando, futuri conflitti maggiori (ad esempio, con una linea più decisamente favorevole alla tenuta dell'accordo sul nucleare iraniano), in particolare nei Balcani e in Medio Oriente, sia investendo nelle nuove tecnologie dell'informazione e della comunicazione, che costituisce il nodo strutturale dell'attuale rivalità tra potenze. Magari partendo da progetti come quello del sistema di posizionamento Galileo.
Nel segno dell’eresia, dunque.
Ritorna oggi, 23 giugno 2019, presso il comune di Motta d’Affermo, l’ormai celebre “Rito della Luce”, giunto alla sua nona edizione, su iniziativa del mecenate dell’arte, il siciliano Antonio Presti.
Dopo la breve pausa dell’anno scorso, a causa dei lutti che hanno segnato il percorso del creatore della Fondazione “Fiumara d’Arte”, oggi un “popolo in bianco”, “eretico” per l’occasione, affluito da ogni parte della Sicilia e non, ha preso parte a questo laico pellegrinaggio che celebra la Bellezza e la sua eresia (possibile).
Ai piedi della titanica Piramide di Mauro Staccioli, realizzata in acciaio corten e inaugurata il 21 marzo 2010, monumento mistico ed alchemico, pregno di simbologia umana e trascendente, fisico e metafisico, dispensatore di geometrica conoscenza, su una leggera altura del territorio di Motta d’Affermo, avamposto sul mare, scelto per le sue coordinate geografiche, lungo il tracciato dell’antico fiume Halesus, alle 15:00 del pomeriggio, prende inizio la celebrazione del rito.
Più di 300 gli artisti che, nel suggestivo spazio messo loro a disposizione, hanno avuto modo di esprimere il proprio credo artistico e non solo.
Spazio d’arte per l’arte!
Lungo un percorso che si snoda su un’ampia area di collina, il visitatore viene accolto dalle oniriche installazioni in bianco e oro e immerso in uno spazio d’arte totale dove i versi di poeti, filosofi, cantastorie fanno da colonna sonora a questo cammino dell’eresia.
L’Arte dell’”hic et nunc” quindi, arte che esce dai Musei, dai suoi stessi limiti e dai confini cui è stata relegata, per interagire con lo spettatore che diventa, esso stesso, parte integrante dell’opera d’arte totale. Immerso in quell’infinito eretico, in quel salvifico labirinto che è principio e fine di ogni umana e sovrumana vicenda.
Celebrazione dell’Arte e della Bellezza come valori della differenza, perché l’arte, nella sua eresia, inevitabilmente segna un confine, ineludibile forse, fra l’iniziato e il profano.
Un’arte alla ricerca dei suoi adepti su cui edificare se stessa e un mondo superiore, fra chi è alla ricerca della conoscenza libero da convenzioni e coefficienti sociali.
Un’arte liberatrice di quella “samsara” alla quale si è altrimenti, inevitabilmente destinati ma un’arte che non può e non deve essere per tutti.
E lo sa bene questo il mecenate-filosofo, l’ideatore di questa magia che si è scontrato sempre con un sistema amministrativo che combatte chi si spende per la Bellezza, “lato sensu” intesa e non con chi deturpa la propria terra con bruttezze e brutture di ogni tipo.
“Guai ad essere riconosciuti dal sistema”, questo il monito di Presti che ha pagato e continua a pagare il prezzo della non uniformazione ad un sistema becero e corrotto.
Eresia e ortodossia dunque si affrontano ma non per combattersi bensì per distinguersi. Perché l’eresia nasce dal santo e quindi ogni santo, ogni dogma sono necessari per far sì che qualcuno possa essere altro da sé.
Libero da quell’inconsistente liturgia di essere sempre uguale a se stesso.
E nella coralità del rito l’antidoto all’anestesia sociale.
Nel tempo dell’uniformità totale, dei centri commerciali, dei rumori assordanti, del nuovo ordine mondiale un’alternativa possibile, nel tempo in cui l’”ossimoro permanente” fondato da Montale è diventato la caratteristica peculiare che connota e denota un sistema dominato dagli aspetti più banali della quotidianità, la sospensione del giudizio non è certo l’unica possibilità di sopravvivenza.
Rito della Luce che è Luce della conoscenza contro l’oscurantismo e le tenebre dell’ignoranza.
RECENSIONE – LA TRAPPOLA DEL FORMAGGIO
Neal D. Barnard, The cheese trap, 2017. Traduzione italiana: La trappola del formaggio, come liberarsi dalla dipendenza, perdere peso e stare finalmente bene. Sonda, Milano, 2019.
Quando una persona, diventando vegetariana, abbandona la carne, spesso prende a consumare maggiori quantità di formaggio. Ma, come ci spiega il dottor Barnard in questo libro, il rimedio potrebbe essere peggiore del male! Infatti il formaggio fa ingrassare, perché è fatto con il latte, che contiene grasso; ma nel formaggio il grasso è molto concentrato rispetto al latte. Molti evitano lo zucchero ritenendo che esso faccia ingrassare; invece lo zucchero viene in gran parte bruciato, mentre il grasso, compreso quello del formaggio, si deposita nel tessuto adiposo. Infatti il grasso si insinua nelle cellule muscolari riducendo il numero di mitocondri, e così rallenta il metabolismo.
Inoltre, il consumo di formaggio causa assuefazione. Infatti la caseina (la proteina principale del latte e del formaggio) è formata da una catena di “mattoni” chiamati aminoacidi, e durante la digestione rilascia delle catene brevi, chiamate “caseomorfine”, che si attaccano agli stessi recettori cerebrali dell’eroina ed altri narcotici, rilasciando dopamina e causando gratificazione e piacere. Ciò ha una funzione nello stabilire e rinforzare il legame del piccolo con la madre, ma rende difficile ad un adulto rinunciare al formaggio, che quindi si comporta come una vera e propria droga.
C’è di più. Il latte è prodotto da mucche gravide, e quindi contiene ormoni. Nel corso della gravidanza di una mucca, l’estradiolo nel latte aumenta di 17 volte, e l’estrone aumenta di 45 volte. Naturalmente, anche il formaggio, essendo fatto con il latte, sarà pieno di ormoni; ed infatti, le donne che consumano latticini ad alto contenuto di grassi hanno maggiori probabilità di morire di cancro al seno, rispetto a quelle che non li consumano. E gli uomini che consumano più formaggio hanno una minore concentrazione di spermatozoi rispetto a quelli che ne consumano meno. Gli uomini che consumano molti latticini hanno inoltre maggiori probabilità di sviluppare il cancro alla prostata. Ancora, chi consuma molti latticini assume più calcio di quanto l’organismo abbia bisogno; ma il calcio rallenta l’attivazione della vitamina D, che protegge dallo sviluppo di tumori; per conseguenza, il rischio di cancro aumenta.
Altri danni provocati dal latte e dal formaggio sono: favorire l’asma ed altri problemi respiratori; scatenare l’emicrania; causare dolori articolari; causare tendinite; causare l’acne; rendere difficile la digestione; favorire il diabete di tipo 1. Inoltre il grasso (incluso quello del latte e del formaggio) ostacola il funzionamento dell’insulina, causando il diabete di tipo 2, nonché malattie cardiovascolari, incluso l’infarto.
Negli allevamenti vengono separate precocemente le mucche dai vitelli, causando sofferenza per le une e per gli altri; inoltre non è vero che le mucche da latte non vengano uccise, come l’industria casearia vorrebbe far credere.
Infine, vi è il danno ambientale. Produrre formaggio significa consumare un’enorme quantità di acqua (un bene sempre più raro) per irrigare le colture di mangime, in modo che le mucche producano latte, che viene poi concentrato nel formaggio. Tali colture richiedono anche l’utilizzo di fertilizzanti, contenenti azoto e fosforo, che si riversano nei fiumi e nel mare: nel Golfo del Messico c’è una zona morta di 13.000 chilometri quadrati, causata dal deflusso di fertilizzanti dal Mississippi, in gran parte per coltivare i mangimi. E le mucche ruttano enormi quantità di metano, un gas serra molto più potente dell’anidride carbonica, e quindi contribuiscono in maniera importante al riscaldamento globale. Quasi metà del libro è dedicata alle ricette, tutte strettamente vegane.
Quando si visitano i Musei Vaticani si viene sopraffatti dalla bellezza e dal numero dei capolavori. Alla fine gli occhi non sanno più dove e cosa guardare.
All’uscita dalla Sistina, si arriva alla cappella di S. Pietro Martire, dove sono conservati alcune suppellettili liturgiche provenienti dal Sancta Sanctorum di S. Giovanni in Laterano.
Poi si accede alla Sala degli Indirizzi, così chiamata per via degli “indirizzi” d’omaggio a Leone XIII e Pio X, qui conservati insieme alle raccolte di arte applicata della Biblioteca. Si tratta soprattutto di suppellettile liturgica: calici, ostensori, reliquiari.
Si passa accanto alle vetrine, gli oggetti scorrono per lo più inosservati, l’attenzione è attirata soprattutto dalla bellezza e dalla preziosità di alcuni pezzi, ma ne sfugge il reale significato liturgico e la storia a questo associata.
Fino al 7 settembre, in una saletta della Pinacoteca Vaticana, è visibile la mostra Plečnik e il sacro, che offre l’opportunità di vedere lo sviluppo del design degli oggetti liturgici tra la fine dell’Ottocento e la prima metà del Novecento.
Jože Plečnik è stato un architetto e designer sloveno, che ha lasciato testimonianza del suo lavoro soprattutto a Vienna (palazzo Zacherl), Praga (ristrutturazione del Castello) e Lubiana. La mostra del 1986 al Centre Georges Pompidou a Parigi ha sancito la sua affermazione pubblica come architetto, urbanista e designer, diffusore delle forme eterne dell’arte classica.
Sono in tutto 33 gli oggetti in mostra: calici, ostensori, cibori, custodie liturgiche. Un video contestualizza gli oggetti mostrando le chiese costruite da Plečnik.
Il Calice di Andrej (1913) e il Calice di Hut (1931) mostrano una forma e una decorazione di sapore medievale. Il metallo è associato a pietre semi-preziose lavorate per lo più a cabochon, richiamando la levigatezza del metallo.
Il Calice di Salvator (1930) affida la cromia al bordo dorato e alla pietra incastonata nello stelo, unica deroga alla purezza lineare delle forme.
Il Calice di Sušnik invece esalta la lavorazione plastica del metallo.
La particolarità del Calice di Plečnik (1956 ca.) è costituita dall’inserzione di monete d’argento nello stelo.
A spirale è lo stelo del ciborio del 1938, che ritorna nei sostegni dell’elemento architettonico sommitale.
Nell’Ostensorio scarlatto (1930) trionfa il contrasto cromatico ottenuto anche con l’impiego di materiali e forme diverse. Il piede è liscio, dorato e quadrangolare. La superficie piatta dello stelo è movimentata da pietre cabochon. Nella lunula la pietra bianca centrale, richiama la sfera alla base della piccola croce gemmata sommitale. Il disco scarlatto è punteggiato da cerchi concentrici di piccole sfere e circondato da un anello dorato con pietre cabochon.
La mostra, con la collaborazione dei Musei Vaticani, dell’Ambasciata della Repubblica di Slovenia presso la Santa Sede, del Ministero della Repubblica di Slovenia per la Cultura e dell’Arcidiocesi di Lubiana, è stata realizzata dal Museo e Gallerie della Città di Lubiana.
L’esposizione dal 26 settembre si sposterà nella capitale slovena.
Plečnik e il sacro
28 giugno-7 settembre 2019
Musei Vaticani, Città del Vaticano
Info: www.museivaticani.va