L'informazione non è un optional, ma è una delle condizioni essenziali dell'esistenza dell'umanità. La lotta per la sopravvivenza, biologica e sociale, è una lotta per ottenere informazioni.

Economics (246)

Roberto

Roberto Casalena
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C’è un momento, nella vita di una persona, in cui il peso dei conti da pagare diventa insostenibile. Non è solo una questione di numeri, di saldo negativo o di scadenze che si accumulano. È la sensazione di sprofondare lentamente, senza che nessuno tenda una mano. È in quel momento che lo Stato dovrebbe farsi sentire, non quando il danno è ormai compiuto. Il problema non è tanto la durata della crisi personale o familiare, breve o lunga che sia, ma il punto di rottura. Quel momento critico in cui un cittadino non riesce più a pagare l’affitto, le bollette, le rate del mutuo o a onorare i propri debiti. Quando accade, la spirale dell’indebitamento si avvita su se stessa e diventa quasi impossibile risalire. In una società che si definisce giusta e solidale, lo Stato non può restare spettatore. Non può limitarsi a intervenire con aiuti tardivi o misure tampone, quando le famiglie hanno già perso tutto la casa, la serenità e la fiducia. La povertà, una volta entrata, lascia ferite profonde che non si rimarginano facilmente. Perciò, l’intervento pubblico dovrebbe avvenire prima che la situazione degeneri, quando ancora è possibile salvare le persone dal baratro.

Ciò significa creare meccanismi di prevenzione, strumenti flessibili ed accessibili a chi, pur lavorando e facendo sacrifici, non riesce a far fronte agli impegni economici. Un sostegno temporaneo, ma decisivo, per evitare che la difficoltà diventi cronica. Peraltro, aiutare chi è in difficoltà non vuol dire premiare l’inadempienza, ma significa, piuttosto, difendere la dignità delle persone e la tenuta sociale del Paese. Perciò, quando un cittadino affonda nei debiti, non perde solo denaro, ma perde la fiducia nelle istituzioni, nel futuro e nella possibilità di rialzarsi. E, ribadisco, senza la fiducia, nessuna economia può funzionare davvero. Oggi, l’Italia affronta una realtà fatta di famiglie sempre più fragili e di giovani che, nonostante il lavoro, faticano a sostenersi. Gli stipendi restano bassi, il costo della vita aumenta e i margini per risparmiare sono quasi inesistenti. Un guasto all’auto, una bolletta più alta del previsto ed una spesa medica imprevista basta poco causare uno scivolamento in un vortice da cui è difficile uscire. Lo Stato, però, spesso arriva tardi e le misure di sostegno vengono approvate con mesi di ritardo, peraltro, i bandi sono complicati, le procedure lente e scoraggianti. Peraltro, la gente si arrangia e chiede prestiti, si indebita, rinuncia a curarsi, a riscaldare la casa e perfino a mangiare in modo dignitoso. Occorre una politica economica che prevenga, non che rincorra. Un sistema capace di intercettare per tempo i segnali di difficoltà e perciò il lavoratore che perde il posto, la famiglia che non riesce a pagare l’affitto, e l’artigiano che non riceve i pagamenti dai clienti.

Ogni storia ha il suo momento di svolta, e in quel momento serve presenza, e non burocrazia. Si potrebbe partire dal rafforzare i servizi territoriali di ascolto e sostegno economico, ma oggi, spesso, ridotti all’osso. Inoltre, potenziare il reddito di emergenza per chi attraversa un periodo di crisi, anche breve. E, aggiungerei, poi, promuovere la rinegoziazione dei debiti, consentendo a chi è in buona fede di trovare accordi sostenibili con banche, locatori e fornitori. Un’altra strada è quella dell’educazione finanziaria, non come materia per specialisti, ma come strumento quotidiano di cittadinanza. Sapere gestire le proprie spese, capire le clausole dei contratti, e conoscere i propri diritti e doveri si possono includere nella prevenzione. Il debito, in fondo, non è un fallimento morale. È una condizione umana che può riguardare chiunque, peraltro, in un momento di fragilità. Per questo, una società moderna deve saper distinguere tra chi evade e chi non ce la fa. E deve avere il coraggio di dire che aiutare il secondo non significa essere deboli, ma giusti. Intervenire prima, invece di punire dopo dovrebbe essere la nuova missione dello Stato Sociale, perché dietro ogni insolvenza c’è una storia umana di fatica, e dietro ogni fallimento c’è spesso solo l’assenza di un aiuto nel momento giusto. E allora sì, lo Stato deve intervenire, ma non con la forza dei pignoramenti o dei sequestri. Deve farlo con la forza della solidarietà, quella che tiene insieme una comunità e la rende più umana.

 

 

Dove nessuno chiede, nessuno giudica: così la Germania combatte lo spreco alimentare. E ora l’Italia prepara la sua risposta solidale.

 

A Berlino, tra i graffiti di Kreuzberg e i viali ordinati di Charlottenburg, si muove una rivoluzione gentile. Non ha leader né bandiere, ma frigoriferi: bianchi, silenziosi, pieni di vita. Li chiamano Fair-Teiler, che in tedesco significa “dividere correttamente”. Dentro, non ci sono soldi né moduli da firmare. Solo cibo. E fiducia. Tutto è cominciato da un gesto semplice: un gruppo di giovani volontari, indignati dal vedere tonnellate di cibo ancora buono finire nei cassonetti, decise di installare un frigorifero in un cortile berlinese. “Chi ha troppo, lasci; chi ha bisogno, prenda.” In pochi giorni quel frigorifero si riempiva e si svuotava più volte. Poi ne nacquero altri, in ogni quartiere. Oggi Berlino, Amburgo, Colonia e Monaco ne contano centinaia. Alcuni si trovano nei cortili delle chiese, altri accanto ai mercati rionali o nei centri sociali. Tutti puliti, controllati e gestiti da volontari che si alternano per verificare la qualità e la freschezza degli alimenti. Il principio è disarmante nella sua semplicità: nessuno chiede, nessuno giudica.

Chiunque può lasciare un piatto di minestra, del pane, frutta o verdura invenduta. Chiunque può prenderli. L’atto di donare e quello di ricevere diventano uguali, parte dello stesso cerchio. Sulla porta di molti frigoriferi campeggia una scritta: “Tutti mettono, tutti prendono e tutti contano”. Secondo le associazioni che gestiscono il progetto, ogni mese vengono salvate dallo spreco oltre 100 tonnellate di cibo. Un risultato enorme, se si considera che ogni cittadino tedesco butta in media 75 chili di alimenti l’anno. Ma, al di là dei numeri, il valore più grande è sociale: questi frigoriferi pubblici hanno ricucito tessuti comunitari logorati, riportando dignità, spontaneità e fiducia tra le persone. Camminando per Berlino è facile vederli: vicino alle fermate della metro, davanti ai condomini, persino all’angolo di Alexanderplatz. Ogni frigorifero ha la sua storia. Una signora anziana che lascia le torte che non riesce a finire, un cuoco che deposita i piatti invenduti del giorno, studenti che si scambiano pasti fatti in casa. Non c’è assistenzialismo, ma solidarietà orizzontale, quella che non ti fa sentire povero, ma parte di una comunità.

E in Italia? Fino a poco tempo fa, tutto questo sembrava un’utopia da nord Europa. Eppure, qualcosa si sta muovendo anche da noi. Dopo anni di sprechi silenziosi, oltre 5 milioni di tonnellate di cibo gettate ogni anno, secondo Coldiretti, alcune città italiane hanno deciso di ispirarsi al modello tedesco e lanciare un progetto simile: “Frigo Sociale Italia”. Nasce “Frigo Sociale Italia”: la rete dei frigoriferi solidali nel Belpaese. Il progetto pilota parte da Bologna, Milano e Napoli, ma l’obiettivo è arrivare a tutte le regioni. Il principio è lo stesso: frigoriferi pubblici, controllati dai volontari, in spazi facilmente accessibili, biblioteche, parrocchie, centri civici ed università.

Ogni punto sarà adottato da una rete di associazioni locali, commercianti e residenti, che si occuperanno della manutenzione e del controllo igienico. A Bologna il primo frigorifero solidale è stato installato in via San Donato: una struttura semplice, con un cartello in legno che recita “Condividi, non sprecare”. Nel giro di un mese, più di 300 chili di alimenti sono passati di mano senza che nulla si perdesse. A Milano, quartieri come Lambrate e Dergano stanno già seguendo l’esempio, con la collaborazione delle università e dei ristoranti della zona.

A Napoli, invece, il primo “frigo di quartiere” sarà collocato vicino a una scuola pubblica, per favorire la partecipazione delle famiglie e insegnare ai ragazzi il valore della sostenibilità concreta. Dietro il progetto ci sono idee semplici ma rivoluzionarie: la lotta allo spreco non si fa solo con le leggi, ma con la fiducia; l’aiuto reciproco non passa per la carità, ma per la condivisione. Ogni barattolo di marmellata donato, ogni porzione salvata, è una piccola vittoria contro un sistema che considera il cibo una merce, non un bene comune. Forse anche l’Italia, paese di grandi tavole e di grandi contraddizioni, può imparare qualcosa dalla lezione tedesca. Perché la vera modernità non sta nelle tecnologie o nei fondi europei, ma nella capacità di riconnettere le persone intorno ai bisogni più semplici. E nulla è più semplice, e più umano, del condividere un pasto. Alla fine, come recita la scritta su uno dei frigoriferi di Amburgo: “Il cibo non ha padroni, ha solo destinazioni”. Sta a noi decidere se vogliamo che finiscano nei rifiuti o nei piatti di chi, magari, quella sera, non aveva nulla da mettere in tavola.

La sinergia tra creatività e artigianato, prende forma nella collaborazione tra PM Management Group Production Film Production SRLs , realtà attiva nella produzione cinematografica e nella promozione di progetti culturali, e la CNA – Confederazione Nazionale dell’Artigianato e della Piccola e Media Impresa, da sempre impegnata nella valorizzazione del territorio.
L’obiettivo è chiaro: unire le forze per costruire una filiera culturale integrata, dove il cinema e l’audiovisivo, diventino motore di crescita economica, occupazionale e identitaria per le imprese del territorio.
Questa collaborazione nasce dalla volontà condivisa di valorizzare le competenze artigiane all’interno delle produzioni cinematografiche, coinvolgendo aziende locali.


"Ogni film è un’opera collettiva (dichiara Piero Melissano), senza le competenze artigiane, le storie non prendono forma. Per questo crediamo nel legame tra produzione culturale e CNA. Il cinema (continua Melissano), rappresenta infatti, non solo un veicolo di narrazione e promozione del territorio, ma anche un’opportunità concreta per l’artigianato e la microimpresa, capaci di offrire servizi altamente qualificati, personalizzati e radicati nel contesto locale. Con la CNA vogliamo costruire un modello che unisca bellezza, competenza e sviluppo sostenibile, un progetto di rete per il futuro" (conclude Melissano).
In un momento in cui il comparto culturale può rappresentare un traino per la ripresa economica, l'alleanza tra la PM Management Group Production Film Production SRLs e la CNA, dimostra come sia possibile coniugare impresa, arte e comunità. Una visione condivisa che guarda al futuro con concretezza, progettualità e passione.

Da oltre settant’anni il dollaro americano è la valuta di riferimento nei mercati internazionali. Simbolo di potenza economica e di stabilità, è stato per decenni il perno attorno al quale si è articolata la finanza globale. Tuttavia, negli ultimi anni, l’architettura finanziaria internazionale sta mostrando segnali di cambiamento. In un mondo multipolare, dove nuove potenze regionali stanno acquisendo un ruolo crescente, l’affermazione che segue è semplice quanto fondamentale cioè che l’egemonia del dollaro è destinata a durare oppure stiamo entrando in un’epoca di pluralità monetaria. Nonostante la crescente attenzione verso la cosiddetta “dedollarizzazione”, soprattutto nei paesi emergenti e nei membri del gruppo BRICS (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica, recentemente allargato), il dollaro continua a dominare. È tuttora utilizzato in oltre l’85% delle transazioni finanziarie internazionali e rappresenta circa il 60% delle riserve valutarie mondiali. La sua centralità è evidente in settori strategici come l’energia, dove il “petrodollaro” rimane lo standard per la vendita di petrolio e gas. Tra i principali sfidanti c’è sicuramente la Cina, che spinge da anni per un ruolo più centrale dello yuan (renminbi) negli scambi globali. Tuttavia, il percorso è complesso. Lo yuan non è pienamente convertibile, e il sistema bancario cinese, sottoposto a controlli statali e scarsa trasparenza, genera diffidenza tra gli investitori internazionali. Inoltre, la valuta cinese non è sostenuta da una rete di garanzie e fiducia paragonabile a quella del dollaro. La Cina possiede circa 600 miliardi di dollari in titoli del Tesoro USA, una cifra significativa, ma inferiore al 2% del debito complessivo americano, che oggi supera i 30.000 miliardi. E, fatto meno noto, anche molte banche americane detengono asset in valuta cinese, riducendo il vantaggio competitivo di Pechino.

Nel frattempo, i BRICS stanno lavorando a strumenti alternativi come BRICS Pay, un sistema di pagamento che consente transazioni in valute locali, e discutono da tempo la possibilità di una moneta comune per facilitare gli scambi interni, ma, a tutt’oggi, la coesione del blocco è ancora fragile. Le divergenze politiche ed economiche tra membri storici e nuovi (come Arabia Saudita, Egitto o Iran) rendono difficile un’integrazione monetaria coerente e credibile. La strategia dei BRICS si concentra principalmente sulla dedollarizzazione degli scambi bilaterali, cioè sull’utilizzo di valute locali per le importazioni ed esportazioni. È un processo che mira a ridurre l’esposizione ai rischi geopolitici, soprattutto per paesi come Russia o Iran, colpiti da sanzioni occidentali. Tuttavia, si tratta di un fenomeno più difensivo che offensivo, incapace, almeno per ora, di produrre un’alternativa sistemica. Nel contesto attuale, un aspetto spesso trascurato ma fondamentale è la fiducia nei sistemi istituzionali. Il dollaro gode ancora della forza delle sue istituzioni: Federal Reserve, sistema giuridico, trasparenza dei mercati, capacità di assorbire shock economici. Anche in un clima politico polarizzato, gli Stati Uniti mantengono un’enorme capacità attrattiva. Le recenti dinamiche elettorali e l’eventuale ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca, nonostante le tensioni globali, non sembrano intaccare la solidità della valuta americana. Certo, l’Occidente si trova oggi a confrontarsi con una crescente sfiducia interna ed esterna, alimentata da una percezione di declino, diseguaglianze economiche e crisi politiche. Ma se l’egemonia americana vacilla in termini di soft power, il dollaro resta — al netto delle fluttuazioni — ancora una roccaforte finanziaria. Gli Stati Uniti possono contare su mercati liquidi, un sistema di controllo regolamentare consolidato e, soprattutto, un’economia ancora in grado di generare crescita, innovazione e occupazione. Il rischio più concreto, al momento, non è tanto la fine del dominio del dollaro, quanto la nascita di un sistema più multipolare, con una varietà di valute forti che coesistono: yuan, euro, rupia, rublo, magari affiancate da una moneta digitale di nuova generazione sostenuta da risorse reali come oro, terre rare o gas. Un’evoluzione che riflette i nuovi equilibri geopolitici.

In questo scenario, le criptovalute rappresentano un altro capitolo aperto. Nonostante le oscillazioni di valore e i rischi di frode, alcuni governi iniziano a considerare seriamente le valute digitali centralizzate (CBDC) come strumenti per gestire flussi commerciali esterni in modo più indipendente. Ma affinché possano davvero erodere lo spazio del dollaro, serve qualcosa che oggi manca: un sistema di fiducia globale alternativo. In conclusione, parlare oggi di un mondo senza dollaro è prematuro, tuttavia il tempo dell’unipolarismo finanziario è chiaramente alle spalle. Siamo entrati in un’epoca di transizione silenziosa, dove la centralità americana è ancora viva, ma progressivamente più contendibile. Il futuro sarà scritto non solo nei board delle banche centrali, ma anche nei nuovi forum globali, nei piani industriali congiunti e nelle scelte quotidiane degli operatori economici. E, forse, in un nuovo modo di concepire il denaro stesso.

L’Unione Europea, dopo l’attacco russo, ha promesso di spezzare ogni legame energetico con Mosca. Ma i dati e i fatti raccontano una storia diversa, più sfumata e meno eroica. A due anni e mezzo dall’inizio della guerra, in Ucraina, una delle principali zone di battaglia, quello energetico, resta incerto, contraddittorio, ed in certi casi, persino paradossale. Tra questi, spicca quello che potremmo definire il circuito del gas russo “riciclato”: Ungheria e Slovacchia, pur criticate da Bruxelles per i loro legami con Gazprom, rivendono gas all’Ucraina, che lo riceve come se non fosse più russo e, invece, nella sostanza lo è. Peraltro, l’Ucraina interruppe gli acquisti diretti di gas da Mosca nel 2015, ma ha continuato ad approvvigionarsi tramite il cosiddetto reverse flow cioè è una pratica che consiste nel far rientrare gas in Ucraina da paesi europei confinanti. E formalmente, si tratta di gas europeo. Ma in realtà, è lo stesso gas russo, acquistato da intermediari europei. Perciò nel caso di Ungheria e Slovacchia, il flusso è chiaro: questi paesi ricevono regolarmente forniture russe attraverso contratti a lungo termine (molti dei quali firmati ben prima dell’invasione del 2022), ed una parte di questo gas viene poi venduta o scambiata all’Ucraina.

Bruxelles condannò più volte Budapest e Bratislava per la loro dipendenza dal gas russo. Peraltro, la Commissione puntò il dito contro la mancanza di coerenza con le sanzioni e l’obiettivo di ridurre a zero l’importazione di energia russa. Eppure, nel contempo, accetta che quel gas serva a mantenere accese le centrali termiche ucraine, e anzi, spesso ne finanzia l’acquisto tramite fondi di assistenza. Il risultato è una contraddizione sistemica: l’UE rifiuta l’energia russa in nome dei principi, ma tollera ed in parte copre l’acquisto indiretto di quella stessa energia da parte del paese che sta cercando di salvare. Quello che si delinea è un classico caso di realismo politico travestito da idealismo normativo. Sul piano simbolico, l’UE ha scelto una linea dura contro la Russia, con l’obiettivo di “disintossicarsi” dal gas di Mosca. Ma sul piano pratico, la dipendenza strutturale dell’Europa orientale e la vulnerabilità energetica dell’Ucraina costringono i decisori politici a chiudere un occhio o entrambi. In alternativa o lasci Kiev al freddo, o la costringi a riaprire direttamente i rubinetti di Gazprom, perdendo completamente la faccia. Questo paradosso energetico non è un’anomalia: è un sintomo strutturale della fase attuale della guerra. La transizione energetica è reale, ma lenta e in tempo di guerra le priorità cambiano. Le infrastrutture esistenti non si modificano in pochi mesi; i contratti di fornitura non si cancellano senza conseguenze legali e geopolitiche; e l’Ucraina, pur eroica nella resistenza militare, resta dipendente dalle forniture europee e peraltro, in parte, dal gas russo. In definitiva, ciò che accade oggi tra Ungheria, Slovacchia, Ucraina e Russia è più di una stranezza burocratica: è la prova che la guerra energetica è fatta anche di compromessi, zone grigie e verità scomode. In una parola: realismo. Se l’Europa vuole davvero emanciparsi dal ricatto energetico russo, dovrà affrontare non solo le dipendenze tecnologiche, ma anche le sue stesse contraddizioni politiche.

 

Va detto che dazio o tassa è la parola chiave di questo periodo. L’ha pronunciata Trump in campagna elettorale e la sta proclamando come esecutiva  ad un mese dal suo insediamento.

 

Giovedì 13 febbraio, ha dato infatti ordine esecutivo di applicare “dazi reciproci” verso paesi che applicano tariffe doganali su prodotti americani. Motivi di equità assicura il presidente americano. 

Il dazio- nello specifico- è una forma protettiva che un paese adotta per difendere i propri prodotti dalla concorrenza dei prodotti esteri. Non aiuta il consumatore ma riduce la libertà del consumatore, che non è certo “felice” del dazio su un prodotto che era abituato a comprare. 

Ma secondo Trump e i suoi ministri, i dazi hanno notevoli vantaggi per loro: daranno impulso alla produzione americana e finanzieranno sgravi fiscali a basso costo per i cittadini, mentre gli stranieri pagheranno il conto. 

Gli americani compreranno meno all’estero e questo dovrebbe aumentare il loro potere di acquisto che dovrebbe contribuire ad annullare l’aumento dei prezzi.

Questo è l’obiettivo di Trump. Ridurre il deficit commerciale Usa, proteggere le aziende a stelle e strisce, motivo per cui arriveranno a breve anche i dazi sulle auto.

Nel mirino dell’amministrazione americana, c’è la Cina, il Messico e l’Europa. E nel quadro europeo, l’Italia rischia conseguenze pesanti. Gli Usa sono il primo mercato di export extra europeo italiano, ci assicura Maurizio Tarquini di Confindustria. 

Nel 2024 le vendite italiane negli Usa sono state pari a 65 milioni di Euro, con un surplus vicino ai 39 miliardi. (fonte dati Confindustria). 

Tra i settori italiani più esposti, bevande (39%), autoveicoli (30,7%), farmaceutica (30,7%). La scure di Trump potrebbe imporre dazi al 25% sulle auto e sugli altri comparti. 

Secondo Confindustria, seguono i settori della pelle, calzature e made in Italy, il settore moda in genere. Non per ultimo, il settore agroalimentare. 

Piccole e medie imprese attive nei settori di “legno, metalli, gioielleria e occhialeria” nelle regioni di Lombardia, Emilia Romagna, Toscana, Veneto, Piemonte e Lazio sono le regioni più esposte ai dazi. 

Quando verranno applicati i dazi americani? Per paesi vicini agli Usa come Canada e Messico, i dazi scatteranno dal 2 aprile. Sull’Europa non si indica una data ma  si promette che sarà annunciata a breve. 

La preoccupazione -qui da noi- è innegabile per la politica protezionistica americana e le sue conseguenze sulle imprese italiane. 

Serve un salto di qualità dell’Unione Europea nel sostenere imprese e paesi e magari uno sguardo lungo verso nuovi mercati, come l’area dell’America latina. 

Una risposta potrebbe essere quella di rispondere ai dazi americani, con una linea comune tra i Paesi membri, con contro-dazi se saranno necessari. 

Il mondo va verso una visione di “ divisioni in blocchi” geopolitici, in cui Usa e Cina sono i due leader di riferimento e l’Europa, a dire loro, ormai un vecchio continente da escludere dalle trattative importanti. 

Starà a noi, non permetterlo.

Ho da poco riletto il mio articolo su "Accordi di cambio e speculazione: spunti per un nuovo approccio" (Rivista bancaria-Minerva Bancaria n°5 settembre-ottobre 1993) e ho realizzato che l'approccio ivi individuato è perfettamente applicabile al percorso lungo e faticoso che dovrebbe, il condizionale è d'obbligo, portare alla nascita di una valuta unica dei paesi BRICS (i cinque originari più i sei che hanno successivamente aderito) e alla preventiva nascita di una banca centrale adeguatamente fornita di riserve auree e valutarie.

Per chi non ricordasse gli sconvolgenti eventi del giugno-luglio 1992, ricordo che, in conseguenza dell'attacco del finanziere George Soros e della flotta di operatori che a lui si erano accodati, la lira italiana e la lira sterlina furono, dopo una strenua difesa delle rispettive banche centrali, costrette a svalutare e ad abbandonare temporaneamente il Sistema Monetario Europeo, salvo rientrarvi successivamente ad un allargamento del margine di fluttuazione che venne fissato al 15 per cento.

Fu proprio quella svalutazione, unita ai movimenti al ribasso conseguenti alla accentuata instabilità politica del 1995 a mettere in discussione la possibilità dell'ingresso della nostra valuta nel gruppo di partenza dei paesi che avrebbero dato vita sin dall'inizio all'euro e che, comunque, influirono fortemente sul valore della lira al momento della fissazione delle parità fisse e irrevocabili tra le singole dodici valute partecipanti e l'euro.

Nei miei quattro articoli sui danni provocati dall'ingresso "prematuro" nell'euro pubblicati sul Nuovo Giornale Nazionale non intendo tornare se non per dire che si trattò dell'ultima e significativa svalutazione della nostra moneta e che la gestione politica della transizione (Governo Berlusconi) determinò per tutti coloro che subivano e non determinavano i prezzi un significativo e mai recuperato impoverimento.

Mentre tutto quanto sovra menzionato è Storia, un importante gruppo di Paesi, Russia, Sudafrica, Cina, India e Brasile più altri cinque nuovi aderenti ed altri in lista di attesa si accingono, almeno nelle intenzioni dichiarate, a percorrere l'impervia via che porta alla realizzazione di una banca centrale unica e all'emissione di una valuta, con l'assistenza dello stesso esperto statunitense che si occupò della realizzazione dell'euro.

Ora sono a tutti evidenti le maggiori diversità tra i Paesi partecipanti rispetto a quelle esistenti tra le nazioni che dettero vita all'euro, nazioni che avevano alle spalle decenni di convivenza nelle istituzioni economiche e politiche nate negli Anni Cinquanta e valute che da lungo tempo coesistevano più o meno pacificamente nei sistemi monetari via via succedutisi, anche se ritengo che le differenze sul piano dei rispettivi sistemi politici pesino di gran lunga di più di quelle relative ai dati economici.

Nel frattempo, questi Paesi non sono stati con le mani in mano e attraverso la banca cinese AIIB hanno sviluppato un sempre più intenso volume di interscambi regolati in prevalenza sotto la forma del baratto di merci ma non escludendo scambi espressi in valuta.

Lasciando questo gruppo di Paesi alle prese con il lungo percorso che potrebbe concludersi nella nascita di una vera e propria banca centrale e di una valuta comune, assistiamo sul mercato dei cambi dominato, almeno per ora, dal dollaro, dall'euro, dallo yen e dalla sterlina inglese ad un difficilmente sostenibile clima di tensione dovuto al fatto che ci si trova in una situazione di avanzi e  disavanzi strutturali che non viene appieno riflesso nelle quotazioni delle valute dei rispettivi paesi e questo richiama, in particolare, alla mente uno dei più noti accordi di cambio, quello denominato del Plaza (dal nome dell'albergo di Manhattan dove si svolsero gli incontri) e che portò il Giappone ad accettare una rivalutazione dello yen sino a quota 100 nei confronti del dollaro statunitense.

Lo scivolone estivo dello yen sino ed oltre quota 160 va evidentemente in tutt'altra direzione e, anche sotto il profilo dei rispettivi tassi ufficiali di interesse, è facile notare che in presenza di un taglio dei tassi statunitensi di mezzo punto percentuale e all'annuncio de facto di ulteriori tagli per almeno un punto complessivo si è assistito al rafforzamento dello yen nei confronti del dollaro e dell'euro, un movimento certamente sgradito altre principali aree valutarie e che non va certo in direzione di una maggiore stabilità e prevedibilità del mercato dei cambi. È dovuto alla inazione della banca centrale giapponese che non adegua i tassi ad una inflazione che tocca ormai il tre per cento.

 

Gran parte delle imprese agricole italiane sta attraversando un momento di grande difficoltà che si ripercuote sul sistema agroalimentare. Sono diverse le motivazioni che hanno spinto i trattori a protestare in tutta Italia e a marciare verso Roma, ma l’obiettivo primario è quello di  far sopravvivere il mondo agricolo nonostante le difficoltà. Le proteste  ebbero inizialmente luogo in Germania per un problema di bilancio legato al  taglio dei sussidi al carburante, poi la problematica diventò un fenomeno continentale. Nel corso degli ultimi anni migliaia di aziende hanno chiuso l’attività e tante altre sono allo stremo. In 15 anni, tra il 2005 e il 2020, 5,3 milioni di aziende agricole in Europa hanno chiuso i battenti.

Nello stesso arco di tempo in Italia, le imprese del settore si sono dimezzate: se si considera  l’anno 2022, sono 3.623 le aziende, in gran parte piccole e piccolissime, che hanno dovuto chiudere l’attività. I problemi dell’agricoltura fondano le loro radici  negli anni 90 con la questione delle quote latte, dove il governo con la complicità dei sindacati agricoli in primis la Coldiretti, istituì a livello nazionale  un sistema, dove le aziende agricole se superavano un certo  quantitativo venivano multate. Inoltre a seguito dei finanziamenti europei  delle quote latte, si scoprirono  vicende poco chiare e a  tal proposito si aprirono delle inchieste.

Proprio per chiarire una serie di problematiche complesse per chi non è addetto ai lavori, abbiamo incontrato Giovanni Fava Vice Presidente del CRA. Ci puoi spiegare Giovanni il vostro intento come CRA?

E’ dal 2007  che esistiamo come CRA, “Comitati Riuniti Agricoli” e posso testimoniare le difficoltà che versa da anni l’intera categoria. Purtroppo ogni decisione  adottata negli ultimi trent’anni è andata sempre contro l’Agricoltura italiana.

Molte  aziende zootecniche che producevano latte e si parla di oltre l’80%.  negli anni hanno chiuso.  Sono dati allarmanti, in Italia non abbiamo più mucche da latte, così il latte di tutta Europa viene portato in Germania dove viene disidratato, reso in polvere e poi importato nuovamente nei paesi dove occorre per essere reidratato. Con questa procedura si fanno i formaggi. Eppure la produzione di latte e formaggi italiani come il Parmigiano Reggiano negli anni non è mai diminuita.

 
Voi avete criticato con decisione nel passato il piano agricolo del Corridoio Verde dove si dava la facoltà ai paesi del  nord africa di produrre e importare in Europa.

 Nel 2010 il governo istituì il “Green Corridor”. ossia il Corridoio Verde.  La politica ha sempre dimostrato poca attenzione per la categoria e c’è sempre stata l’incapacità dei politici di turno di prendere una posizione chiara, quando si decise di coltivare prodotti agricoli nel Nord Africa per poi farli  arrivare qui da noi.  Era un piano che prevedeva degli aiuti a paesi quali Tunisia Marocco e soprattutto Egitto per la  coltivazione in loco, per importarli poi in  Europa  attraverso il corridoio italiano. Questa collaborazione si effettuò con la compiacenza delle Coldiretti,  un Sindacato privato agricolo italiano che  non abbiamo mai visto dalla nostra parte e per questa ragione non apprezziamo assolutamente.

Per essere chiari il “Green Corridor”. che doveva durare inizialmente diciotto mesi, è ancora in atto  nel 2024.  Ad esempio un prodotto quale le zucchine  dopo essere state raccolte in Marocco, vengono messe dentro delle grandi casse, imbarcate e portate qui da noi. Una volta arrivate a Civitavecchia e scaricate sono poi inserite su un cassettino più piccolo.  Questa operazione è considerata un ciclo di lavorazione che fornisce la possibilità al prodotto di entrare nelle nostre Cooperative anche dell’Agro Pontino. Con questo semplice artificio gli viene conferito l’Etichetta di prodotto italiano. Ecco l’inganno prima a noi agricoltori e poi a voi consumatori.

Dietro a questo commercio si nasconde una problematica ancora più  grave vero?

Noi agricoltori italiani siamo bravissimi a produrre un prodotto integro e con disciplinari molto severi   come è giusto che sia, utilizzando pesticidi di origine biologica o con tecniche  agronomiche che aiutano alla difesa da malattie. Ci dispiace pertanto dover competere con prodotti provenienti dal corridoio verde dove utilizzano ancora il famoso DDT che all’epoca era usato per debellare  la malaria. Qui in Italia viene raccolto un campione e poi  analizzato e se non rientra nei parametri di presenza di pesticidi non ti viene pagato ed è giusto che sia così. 

I prodotti che  vengono importati invece si basano tutto su una autocertificazione del produttore in base al quale il produttore dichiara che il prodotto è salubre e genuino. Il rapporto con i paesi del Nord  Africa  la consideriamo una concorrenza sleale, in quanto da loro,  la manodopera dell’operaio costa  tra i 12 euro e gli 80 euro.  Qui da noi inoltre abbiamo a che  fare con costi di produzione elevatissimi a causa del  prezzo del gasolio agricolo che tende ad aumentare e arriverà  all’apice a gennaio 2026.

 I fondi sono effettivamente stanziati dalla Comunità Europea ma probabilmente è a valle che si verifica qualche problema

Il settore  finanziato di più dalla Comunità Europea è l’Agricoltura con oltre 350 miliardi di Euro dove si calcolano 45 miliardi ogni anno solo all’Italia. Il problema è che  negli altri paesi  la problematica agroalimentare è  trattata da sindacati statali mentre in  Italia tutto il  settore è gestito da Sindacati privati  tra i quali  la più importante è  la Coldiretti, che a nostro parere non opera correttamente e non tutela i nostri interessi.  Vogliamo parlare inoltre delle situazioni poco chiare riguardanti i  PSR i Piani di Sviluppo Rurale che  erano fondi dati alle imprese agricole per modernizzare e rinnovare l’azienda ed il permesso di soggiorno per gli extracomunitari  che  ormai viene chiamata caporalato?

 Giovanni Fava vedi un futuro migliore per l’Agricoltura o secondo te la situazione andrà sempre più a deteriorarsi ?

Noi del CRA è dal 2007 che esistiamo e negli anni abbiamo effettuato numerose proteste sempre pacifiche. Ci hanno avvicinato tantissime persone e consumatori, noi siamo coloro che  organizzarono la prima manifestazione in piazza nel 2013 dove ci indicarono con il nome di “forconi”. Dai dati delle questure tra il 2013 e il 2014 abbiamo portato in piazza 9 milioni e 700 mila persone. Nei nostri giorni a mio avviso i dimostranti dalla nostra parte  sono  ancora di più, perché dopo 11 anni sono aumentati i disagi così come i problemi e si è aggravata ancor più  la disoccupazione. Nell’ultima manifestazione ci hanno avvicinato tanti cittadini di diversa  estrazione e stanno tutti male.

  Giovanni Fava

Come si fa a vivere con uno stipendio fermo a vent’anni fa, con una spesa comune che è aumentata di quattro volte? Dal 2013  la contestazione è aumentata sempre più, in quanto i problemi sono maggiorati, così come la disoccupazione. Purtroppo non prevedo un futuro roseo per l’Agricoltura e neanche per i consumatori.  Noi intendiamo sempre collaborare con le forze dell’ordine, ma ho timore che un giorno la pazienza possa finire.  I nostri giovani  nel nostri paese probabilmente non hanno più  futuro.  Io ho un figlio che studia all’Università e mi dice: papà io l’Italia la vedo in futuro ormai solamente per venirci  in vacanza. Sinceramente come facciamo a dare loro torto? Hanno perfettamente ragione.

Giovanni cosa ne pensi del Piano Mattei varato recentemente dal Governo?

E’ stato inferto un ulteriore danno all’agricoltura italiana.  Con il piano Mattei si intende finanziare con cinque miliardi di Euro la produzione di 36000 ettari in Algeria per produrre grano e cereali.  La produzione si effettuerà  in Algeria  finanziata dall’Italia e sarà gestita da “Bonifiche ferraresi”, un consorzio in mano alla Coldiretti. Hanno detto che solo un 30% di questi prodotti alimentari saranno importati in Italia, ma noi ne dubitiamo. Intanto sono state approvate misure che vietano di  piantare il grano in Lombardia e Puglia che in Italia sono le regioni dove si produce più grano.

Il nostro grano italiano non può essere prodotto più di tanto e per questa ragione hanno detto “ lo potete piantare ma non vi diamo la Pac”  cioè gli aiuti che sono concessi dall’Europa. Il grano in ogni caso ce lo pagano 20 centesimi al Kg e per arrivare al prezzo del pane che nella zona di Milano costa  8 euro  al Kg c’è una inspiegabile differenza. Da questi dati si può dedurre che più di qualcosa non funziona. Quest’anno poi con la siccità di grano se ne è prodotto 15 quintali per ettaro che è pochissimo, quindi non sono state coperte neanche le spese.

Noi come CRA abbiamo subito delle violenze e degli abusi di stato, proprio perché diciamo la verità. Il nostro Presidente Danilo Calvani  è stato sfrattato da casa senza sentenza, senza sfratto e senza una vera motivazione. La scelta  scellerata  di servirsi delle Cooperative è stato un grave danno per tutti noi che lavoriamo nell’ambito dell’Agricoltura. Oggi la Cooperativa ti dà un acconto e poi ti dice che (in base a quanto sarà venduto il prodotto), ti pagherà alla fine. Questo è qualcosa di assurdo, perché ad esempio il Kiwi ha otto mesi di frigoconservazione, il che vuol dire che se si raccoglie ad ottobre si è liquidati a giugno. A noi il Kiwi viene pagato 40 centesimi e voi lo pagate 4 euro o 6 euro al Kg. La finanza oggi è entrata in queste Cooperative, ha ottenuto l’accesso agli atti e sta indagando. Al momento in quanto persona informata ai fatti non posso dire di più.

Grazie Giovanni Fava

 

 

Dal 5 di agosto scorso, il giorno in cui la borsa giapponese (indice Nikkei 225) ha perso il 12,5 per cento la vera e propria diga eretta dalle maggiori banche e corporation del mondo “occidentale”, tramite massicce operazioni di buy back (riacquisto di azioni proprie debitamente autorizzate in sede di assemblea) sono riuscite solo per un breve lasso di tempo a frenare il brusco declino dei corsi azionari che nelle ultime tre sedute ha assunto sempre più l’aspetto di una frana.

Solo ieri i maggiori indici statunitensi hanno registrato perdite stellari con i titoli del settore tecnologico che hanno perso diverse centinaia di miliardi di dollari di capitalizzazione ma che restano, esemplare il caso di NVIDIA, a multipli tra utili e capitalizzazione totalmente insostenibili, come ben ha notato in un suo commento il solitamente cauto Professor Romano Prodi.

Ma cali altrettanto significativi hanno riguardato la star indiscussa della logistica, Amazon, il settore delle grandi banche a stelle e strisce e via discorrendo.

Ne meno preoccupante si presenta la situazione nel mercato azionario nipponico che in sole tre sedute ha perso oltre il sei per cento e si avvicina pericolosamente allo stesso livello toccato il 5 agosto.

Molto meno inquietanti sono i dati relativi alle major dei listini dell’area dell’euro o della stessa Gran Bretagna, anche perché non si erano registrate da noi le vere e proprie esagerazioni vissute nel settore Hi Tech statunitense e perché i multipli tra utili e capitalizzazione sono ben più modesti se non modestissimi nel settore bancario italiano, comunque ben provvisto di piani di buy back miliardari dovuti in larga parte ai profitti stellari legati maxi margini di interesse. Ma questo non ci esime dal soffrire, seppur in minor misura, dell andazzo generale (si può leggere in tal senso il pressing della BCE affinché le banche europee siano meno generose nella distribuzione degli utili agli azionisti e aggiungano un di più alle già ingenti riserve previste nell’ultima versione degli accordi di Basilea).

Ho cercato invano nelle edizioni online dei maggiori quotidiani italiani e della stessa ANSA notizie del massacro di ieri e degli ultimi giorni ma non ne ho trovato traccia.

Così come sono state ridotte a poco più che trafiletti le notizie relative alle massicce uscite del fondo di Warren Buffet da Apple, Bank of America e da tante altre società del Dow Jones Industrial, giungendo ad un tale livello di liquidità che porta il suo fondo ad essere il primo detentore (con qualcosa come 400 miliardi di dollari di Treasury Bills a un mese) smobilizzo che ha già effettuato con successo quando erano in vista le ultime quattro crisi finanziarie, Tempesta Perfetta assolutamente inclusa, insomma un vero e proprio sell signal di certo non sfuggito ai suoi principali competitor e che ha portato là capitalizzazione del suo fondo alla ragguardevole cifra di mille miliardi di dollari, primo caso per una società non tecnologica e, come si è detto, quasi del tutto risk free.

Per chi ne avesse la curiosità, rinvio agli articoli redatti nella calda estate del 2023 e, più in particolare, alla lunga intervista che ho rilasciato a Virgilio Violo sul canale YouTube della Freelance International Press.

 video 1 e video 2

 

Lascerei protagonisti e fatti della Tempesta perfetta a quella riunione a porte chiuse nell'hotel esclusivo di Manhattan perché penso che quanto avvenne quella sera non fu che il prodromo delle decisioni che portarono al "sacrificio" di Lehman Brothers sull'altare della fine del principio del Too Big to Fail, un sacrificio che coinvolse pure altre entità del panorama finanziario a stelle e strisce, rinviando chi è interessato alla letture delle prime annate del "Diario della crisi", il mio blog di Google che godeva di un grande seguito alla luce del semplice fatto che prediceva, a volte con largo anticipo come nel caso di Lehman, quanto poi sarebbe più o meno puntualmente avvenuto (diariodellacrisi.blogspot.com).

Mi sembra, invece, utile tornare alla fase invero convulsa che intercorse tra le dimissioni alquanto "spintanee" di Antonio Fazio e la nomina di Mario Draghi quale Governatore della Banca d'Italia, ma, e forse soprattutto, sui padrini dichiarati e quelli soltanto e faticosamente intuibili di una nomina che, come in quel caso, non andava a premiare una luminosa carriera in quel di Via Nazionale.

Ovviamente l'indicazione del nome del prescelto era nelle prerogative del Presidente del Consiglio dei Ministri, all'epoca Silvio Berlusconi (tralascio volutamente i passaggi istituzionali che rendono tale nomina effettiva perché del tutto ininfluenti), ma vi fu un altro personaggio politico, fortemente assiso in quel della Prima Repubblica che ebbe tre anni dopo a rendere nota sia l'influenza sulla decisione di Berlusconi che il forte pentimento per quel suo endorsment e, cioè il più volte ministro e due volte premier nonché Presidente emerito della Repubblica, Francesco Cossiga.

Questo personaggio, dichiaratamente interno alla struttura di Stay Behind, per sua stessa ammissione utilizzatore dei servigi di Licio Gelli anche se per una causa meritoria quale quella del rintracciamento di desaperecidos di origine italiana in Argentina, grandissimo amico del Gran Maestro del Grande Oriente d'Italia, Armando Corona, nella già citata intervista a Luca Giurato nella popolare trasmissione Uno mattina del 2008, si attribuì un ruolo determinante nella decisione salvo poi aggiungere che di poche sue azioni si era pentito come di quella, definendo Draghi "un vile opportunista" e sottolineando i suoi legami con "i suoi amichetti" di Goldman Sachs, nonché gettando palate di fango sulla sua opera nel settore delle privatizzazioni avvenute nel corso degli anni Novanta e ventilando che avrebbe potuto toccare anche le aziende di un settore al quale il Presidente Emerito era particolarmente affezionato che sono quelle del settore della Difesa e dintorni.

La quasi contestualità dell'intervento a gamba tesa di Cossiga, come altre iniziative verbali o meno, viene ascritta dai più ad aspetti caratteriali al limite del patologico con il forte impegno di Draghi nel fronteggiare gli alti marosi della Tempesta Perfetta, tesi che poco condivido anche perché vengo da una terra dove si dice che Pulecenella pazziando pazziando ricette a verità, ma credo invece che i suoi espliciti riferimenti agli incontri sul panfilo Britannia (gentilmente prestato dalla casa regnante britannica) fossero tutt'altro che casuali e lasciassero intendere che i veri padrini della nomina di Mario Draghi al vertice di Bankitalia fossero gli stessi con i quali aveva, efficientemente aggiungo io, per privatizzare banche, industrie dei settori più disparati e non mi soffermo sull'elenco sterminato di aziende di ogni ordine e grado efficacemente riportato nel breve saggio della ricercatrice che ho avuto modo di citare in una delle puntate precedenti.

Pur essendo certo che non si arriva a vendere "roba" per qualcosa meno di 200 mila miliardi delle vecchie lire non essendo riconosciuto come valido e affidabile interlocutore dalle grandi e grandissime banche d'affari è, tuttavia, altrettanto certo che quello di Draghi fosse un nome, come si diceva ai tempi del Sessantotto, conosciuto al potere e pressoché sconosciuto alle "masse".

Non dimenticherò mai quello che ebbe a dirmi il mio capo all'ufficio studi della BNL, l'ex direttore del Sole 24 Ore e vicedirettore del Corriere della Sera ai tempi di Di Bella, Alberto Mucci, a proposito di quel Carlo De Benedetti che era allora un mio idolo, quasi come poi lo sarebbe divenuto Warren Buffett, definendolo spietato e senza scrupoli, pur avendo il suo numero personale diretto in un'agenda nella quale erano presenti tutte le persone che allora contavano nel panorama economico italiano.

E' peraltro evidente che l'idea che la gigantesca finanza globale fosse un gigante con i piedi di argilla non era, in quella fine di dicembre del 2005, nota soltanto in Goldman Sachs, era presente all'attenzione del Gotha della finanza mondiale, così a quell'antagonista storico di Berlusconi e al suo braccio operativo in politica, intendo Carlo De Benedetti e Romano Prodi, il che induce a ritenere che la nomina di Draghi avesse l'avallo sia del Governo che dell'opposizione, con i rispettivi punti di riferimento nella finanza nazionale e internazionale.

Del sollievo dei colleghi Governatori delle banche centrali al di là e al di qua sia dell'Oceano Atlantico che di quello Pacifico ho già avuto modo di parlare, un sollievo che si è presto tradotto nella decisione pressoché unanime dei suoi nuovi colleghi di investirlo della presidenza del comitato (questo comitato cambierà denominazione nel corso della crisi finanziaria ma avrà sempre alla presidenza Mario Draghi) e, risolte in breve tempo le beghe legate alla ristrutturazione di Bankitalia, Draghi si dedicherà a questo gravoso compito in modalità full immersion.

Come sta facendo in questi mesi (per la precisione dell'autunno del 2023), Warren Buffet e come lui molti altri grandi investitori stanno facendo esattamente quanto fecero nei mesi precedenti l'avvio della Tempesta Perfetta, e cioè stanno trasformando i loro investimenti azionari in liquidità, per lo più investita in titoli a brevissimo termine, così come ora ed allora le grandi Investment Bank e le banche più o meno globali stanno invertendo le loro posizioni, lasciando i piccoli investitori in balia della scarsa attitudine ad adottare efficaci sistemi di take profit e di disinvestimento in presenza di predeterminati livelli di perdita.

Respingendo la tentazione di fare un salto nel presente discutendo del voluminoso rapporto di Mario Draghi sulla competitività dell'Unione Europea rispetto al gigante statunitense e a quello (alquanto ammaccato in verità) cinese, cercherò di concentrarmi nella prossima puntata sulla crisi del debito che vedrà la definitiva consacrazione di Draghi sia come candidato pressoché indiscusso alla presidenza della Banca Centrale Europea sia come risolutore della più grave crisi che l'area dell'euro (ma non solo) ha dovuto affrontare nella sua relativamente breve vita.

(segue)

 

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