
L'informazione non è un optional, ma è una delle condizioni essenziali dell'esistenza dell'umanità. La lotta per la sopravvivenza, biologica e sociale, è una lotta per ottenere informazioni. |
This email address is being protected from spambots. You need JavaScript enabled to view it.
![]() |
Erdogan (a sin.) con Mattarella |
Dalla sua entrata nell'Organizzazione del trattato dell'Atlantico del Nord (NATO), Ankara è passata dal profilo di alleato mansueto e utile a quello di partner indispensabile; ora, forte della sua posizione e delle relazioni tattiche con Russia e Iran, il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan presenta il conto ai suoi vecchi alleati
L'operazione Ramo di ulivo, lanciata dalla Turchia nella regione siriana di Afrin nella notte tra il 19 e il 20 gennaio, ha sostanzialmente due finalità strategiche. Erdoğan infatti intende da un lato affermarsi sullo scenario politico interno come l'unica figura in grado di difendere i confini della Turchia e la sicurezza nel suo territorio, dall'altro imporsi come interlocutore indispensabile nel futuro assetto strategico dell'intera regione. Ambiguità e pragmatismo, con cui Ankara ha dato una veste di legittimità alle sue aspirazioni egemoniche, le hanno consentito di costruirsi un ruolo di attore di primo piano tra i Balcani e il Medio Oriente sin dai tempi della guerra fredda. Gia nel 1950, l'anno successivo alla fondazione della NATO, la Turchia contribuì con 5.000 uomini al contingente dell'Organizzazione delle nazioni unite (ONU) a guida statunitense impegnato nella guerra tra le due Coree, che si concluse nel 1953. Fu questo il “pagamento anticipato” dell'ingresso nell'Alleanza atlantica, avvenuto ancor prima della fine del conflitto, nel 1952. Una decisione che causò una svolta nella politica estera turca, che il padre della patria Atatürk immaginava orientata essenzialmente all'area eurasiatica, quindi tesa a stabilire buone relazioni con l'Unione Sovietica. Tale cambiamento (che non comportò una rottura completa delle relazioni con Mosca) permise alla Turchia di potenziare il proprio esercito grazie al sostegno della NATO, ma soprattutto di Washington, con cui Ankara stabilì relazioni bilaterali solide. Infatti, il dominio sovietico sul Mar Nero rendeva indispensabile per il blocco occidentale il controllo degli Stretti, che il Trattato di Losanna del 1923 aveva assegnato alla Turchia.
Tale strategia ebbe il suo coronamento a partire dagli anni '90 del XX secolo, dopo il crollo dell'Unione Sovietica, nei due decenni in cui la Cina rimase sostanzialmente estranea alle dinamiche che posero le basi del nuovo (dis)ordine mondiale, i cui esiti disastrosi hanno nel conflitto siriano la loro manifestazione più evidente. Nel ventennio tra anni '90 e primi anni 2000, la Turchia si impose di fatto come pedina indispensabile del controllo statunitense nei Balcani e in area caucasica, facendo leva nel primo caso sui legami culturali e religiosi con le popolazioni musulmane, nel secondo sui legami “etnici” con gli azeri. In tal modo ottenne da sola, nell'ambito della globalizzazione, lo stesso peso geopolitico dell'Unione Europea, concepita inizialmente come strumento per impedire eventuali tentativi di espansione sovietica a Ovest, poi (a partire dal trattato di Maastricht del 1992) come mediatore in vista dell'estensione del sistema di alleanze USA. Un piano strategico nel quale la Germania avrebbe dovuto gestire la “transizione” nei paesi dell'Europa orientale, mentre la Francia avrebbe dovuto curare i rapporti con la sponda meridionale del Mar Mediterraneo. Nondimeno, dal momento in cui Washington si impose come unica potenza mondiale, l'ONU, fondata dopo la seconda guerra mondiale per limitare al massimo il diritto di ricorrere alla guerra per dirimere i conflitti, divennero sempre più manifestamente mezzi per stabilire il suo controllo americano su regioni un tempo a vario titolo comprese nella sfera di influenza sovietica.
Se la Turchia può rimproverare agli USA di sostenere quelli che considera i “terroristi” delle Unità di difesa popolare siriane (YPG curde) è quindi anzitutto a causa della perdita di credibilità degli organismi sovranazionali, in primis dell'ONU, le cui risoluzioni acquistano un'efficacia direttamente proporzionale alla loro utilità per Washington e i suoi alleati, e dell'Unione Europea. In secondo luogo, Ankara può facilmente trarre profitto dalla linea dei “due pesi e due misure” adottata da Europa e USA nelle relazioni internazionali. Tale linea è divenuta particolarmente evidente dagli anni '90, quando gli Stati Uniti, rimasti l'unica potenza mondiale dopo la caduta dell'URSS, hanno di fatto modificato le regole internazionali sul ricorso alla guerra stabilite dalla Carta dell'ONU nel 1945. Uno sviluppo di cui è particolarmente responsabile il governo USA di William Jefferson Clinton (1993-2001), che attribuì alla Turchia il ruolo di “gendarme” della globalizzazione nei Balcani (di concerto con la Germania) e in Medio Oriente. In quest'ultimo scenario, tra i maggiori disastri provocati dal monopolarismo mondiale a guida statunitense spiccano la libertà di Israele di ignorare le risoluzioni ONU e le difficili condizioni del popolo curdo. Per il primo caso basti citare che l'iniziativa del presidente USA Donald John Trump di riconoscere Gerusalemme come capitale dello Stato di Israele affonda le sue radici in una legge approvata dal Congresso nel 1995 (che autorizzava il trasferimento della rappresentanza diplomatica di Washington da Tel Aviv a Gerusalemme). Nel secondo caso, il sostegno statunitense alle forze curde siriane delle Unità di difesa popolare (YPG) nella guerra contro i cartelli del jihad non solo non ha impedito che la Turchia le prendesse come obiettivo delle operazioni militari lanciate nel gennaio scorso, anzi, al contrario, viene utilizzato da Ankara come strumento di pressione sugli Stati Uniti. Il governo turco infatti ha invitato domenica scorsa Washington a “recuperare le armi inviate ai terroristi”, da una posizione di forza: il Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK), cui sono affiliate le YPG in Siria, è nella lista delle organizzazioni terroristiche non solo in Turchia, ma anche negli Stati Uniti e in Europa. Inoltre, l'alleanza recentemente stipulata con Mosca e Tehran per la gestione dei colloqui di pace tra le fazioni in guerra in Siria ha aumentato il peso di Ankara nella regione.
Così, Erdoğan con l'operazione Ramo di ulivo sta tentando di imporre il proprio ruolo nei Balcani e in Medio Oriente, non più come gendarme degli USA ma come soggetto politico con una propria visione strategica. Nei Balcani devastati dalle politiche miopi di Bruxelles e Washington esercita un controllo culturale attraverso la fondazione e il finanziamento di moschee e centri islamici. In Siria invece punta a privare i curdi del controllo dei loro territori e di un qualsiasi peso politico in futuri negoziati di pace. Domenica il presidente turco ha sottolineato per l'ennesima volta la continuità tra Impero ottomano e attuale Repubblica di Turchia, ossia quella rinata dopo il rocambolesco tentativo di colpo di stato del 15 luglio 2016, unita attorno al “nuovo” padre della patria, che mira a garantire l'unità del paese (che in realtà significa repressione del dissenso) e la sua sicurezza interna ed esterna (contro i nemici del PKK). Domenica scorsa il Partito democratico dei popoli (HDP, partito turco filo-curdo) ha eletto i suoi nuovi due dirigenti, visto che poche sono le speranze di liberare dal carcere i precedenti. Messa a tacere ogni dialettica istituzionale, il nuovo sultano presenta il conto ai vecchi alleati.
Salvini: "Un obbligo di 6-8 mesi, ragazzi e ragazze potranno scegliere se farlo civile o militare. Meglio militare: educa all'uso delle armi, evitando disastri come quello di Macerata. E integra chi è venuto dall'altra parte del mondo crescendolo nell'amore per l'Italia".
Si leggono sui quotidiani le dichiarazioni di intenti del leader della Lega Salvini circa la reintroduzione del servizio di leva obbligatorio: insomma, come dice un noto scrittore americano "A volte ritornano". Le opinioni non possono essere che discordanti. Chi vorrebbe andare a fare la naja al giorno d'oggi? Pochini fra i nostri ragazzi credo. Da molti si dice che il servizio militare sia tempo gettato alle ortiche. La vita è tanto comoda in casa con mamma e papà, no? Meglio tirare a campare, fare i bamboccioni che crescere quasi di colpo. Meno rogne, meno regole, meno, anzi, assolutamente niente disciplina. Guardate che qui non sto affatto propugnando le idee del buon Salvini che il militare l'ha fatto e proprio in quella caserma milanese oggi adibita a ricovero o rifugio migranti, la caserma Montello. Però… però qualche ragione l'ha pure quando dice che la Naja militare "Educa a un uso responsabile consapevole dell'arma, come avviene in Svizzera, anche per evitare i disastri che vediamo in questi giorni e quando sei in camerata non conta nulla dove sei nato. E un servizio di leva obbligatorio, civile o militare ma soprattutto militare, aiutarebbe l'integrazione di ragazzi che sono venuti qui dall'altra parte del mondo e che cresceranno con l'amore per l'Italia. Credo poi – Continua Salvini - che per i nostri ragazzi sia meglio battagliare in Parlamento per il servizio militare obbligatorio che per la liberalizzazione di alcune droghe. Mio figlio ha 14 anni e io spero che un giorno possa dire che il suo papà ha fatto qualcosa di concreto. "
E per quanto concerne all'aggravio delle spese statali per il mantenimento di un esercito di leva Salvini afferma che: "Se si vuole i soldi si trovano. Non credo nel solo servizio civile, perché se uno vuole oggi ha mille possibilità. Quindi meglio un obbligo di 6-8 mesi, per ragazzi e ragazze che potranno scegliere se farlo civile o militare. Molti Stati che hanno disarmato ora stanno tornando sui propri passi". Credo comunque che la vecchia Naja di buona memoria qualche successo l'avesse ottenuto ritengo io: aveva fatto in modo che ragazzi del nord e ragazzi del sud si amalgamassero fra loro, conoscessero le rispettive culture fondendole poi comunque in quella nazionale. Si sentivano soprattutto italiani e non più solo siciliani o piemontesi. E guardate che non fu poco! I ricordi di chi scrive, ormai lontani tanti anni da quei tempi, sono comunque positivi. Frequentavo l'università ma non pensai che il servizio militare fosse la perdita di diciotto mesi della mia vita e che avrebbe compromesso i miei studi. Infatti non fu così. Ero felice di indossare la divisa alpina dell'esercito italiano come avevano fatto a loro tempo, mio padre e mio nonno e che lo si voglia credere o no fui arricchito da quell'esperienza. Quando uscii per l'ultima volta dalla "Cesare Battisti" di Merano sapevo di avere una certezza in più nella mia vita.
Silvio Foini
E’ in sala dal 1° febbraio, distribuito da Videa, “C’EST LA VIE – Prendila come viene” di Erik Toledano e Olivier Nakache, presentato con successo alla Festa del Cinema di Roma e campione d’incassi in Francia, con più di 4 milioni di spettatori e oltre 20 milioni di euro incassati. Con 180 copie, l’opera, firmata dalla coppia di registi più brillante del cinema francese, definiti “maestri della commedia dolceamara”, Erik Toledano e Olivier Nakache ( “Quasi amici”), è interpretata da un cast di attori straordinario: Jean-Pierre Bacri, Gilles Lellouche, Jean-Paul Rouve, Eye Haidara, Suzanne Clément.
“Se qualcosa può andar male lo farà”, sembra il sottotitolo del film “C’EST LA VIE – Prendila come viene”: il racconto tragicomico e surreale di tutto quello che può andare storto quando si organizza un party di nozze. Dai preparativi alla grande festa finale, l’imprevisto è dietro l’angolo, e tra gaffe e piccoli incidenti, la riuscita della festa è in serio pericolo…
Nulla è più importante per due sposi del giorno del proprio matrimonio. Tutto deve essere magico in ogni momento. E per organizzare la festa perfetta, Max e il suo team sono i migliori in circolazione. Pierre ed Elena hanno deciso di sposarsi in un magnifico castello poco fuori Parigi e hanno scelto di affidarsi a loro per una serata meravigliosa. Tutte le fasi, dall’organizzazione alla festa, viste attraverso gli occhi di quelli che lavorano per renderla speciale: un gruppo di persone, ognuna con le sue manie e nevrosi, che devono cercare di adattarsi l’uno all’altro. Sarà una lunga giornata, ricca di sorprese, colpi di scena e grandi risate, nella speranza che tutto si risolverà per il meglio.
Uno spaccato crudo e tenero al tempo stesso, dove trapela una straordinaria umanità. La trama è nota, ma il modo di affrontarla è assolutamente originale, una pellicola ricca di elementi contrastanti che riescono a fondersi in perfetto equilibrio, tra situazioni comiche, esilaranti e paradossali.
Come spesso ho ricordato il Merano Wine Festival, l’evento delle eccellenze, non è solo il “Festival del Vino”. Da alcune edizioni le eccellenze del food trovano sempre più spazio.
Helmuth Köcher, presidente e fondatore della manifestazione altoatesina, è riuscito a selezionare aziende “preziose” da tutto il territorio nazionale. Tra queste il Caseificio Marovelli da Vibbiana, una frazione del Comune di San Romano in Garfagnana, provincia di Lucca. Pensare che si trova a due passi da casa mia e l’ho conosciuto a Merano.
Nel girovagare incuriosito tra i banchi di prodotti di alta raffinatezza, sono stato colpito da una scritta: Laboratorio Didattico Sensoriale…Diventare Casaro in poche ore. Cosa significa?
È stata Romina, la giovane imprenditrice, terza generazione della Famiglia Marovelli a darmi la risposta.
“ Una esperienza sensoriale, raccontando la storia gastronomica del territorio attraverso il mondo casaro”. E nello specifico?
“Il Casaro ed il suo staff aprono le porte del laboratorio mettendo a disposizione la propria esperienza e professionalità a chiunque sia incuriosito ed interessato a vivere in prima persona tutte le fasi del processo di trasformazione del latte in formaggio”.
Non solo. Percorsi lungo sentieri, osterie alla ricerca della tradizione contadina. Farro, Ippocastano (vino insaporito con spezie profumate) e i formaggi del Caseificio Marovelli. Dalla tipologia “freschi” agli “stagionati”, ai “conciati”.
“Aspirazione alla massima qualità e alla capacità di coniugare le più moderne tecnologie con la tradizione artigianale familiare”.
Dalla semplice caciotta di mucca, ai caprini abbucciati ai più “secchi” e profumati Casaro dell’Ariosto e Verruchio fino a degustare l’Ubriaco Garfagnino ed altri affinati con erbe e foglie selezionate.
L’integrazione verticale: la “vera forza” del Caseificio Marovelli.
“ L’integrazione verticale, ovvero l’integrazione delle esperienze di tre generazioni verso la produzione di qualità medio-alta, altro non è che la migliore garanzia dell’accesso alla ricerca, materie prime e controllo dei processi. Uniti all’aspirazione del raggiungimento della massima qualità come riferimento nel mondo caseario italiano”.
Il carattere generoso, spontaneo, accogliente di Romina si ritrova negli assaggi dei suoi formaggi: formaggi espressivi che si sono rivelati alleati golosi.
La storia dell’azienda non ha radici così lontane: è stato suo nonno Giovanni, alla fine della seconda guerra mondiale, ad iniziare la trasformazione del latte garfagnino in formaggi. Come si legge nella presentazione aziendale: “per atto di sopravvivenza alimentare”. In termini più semplici: per campare.
Il successo: mantenere la semplicità di quei tempi con l’evoluzione tecnologica di oggi. Ed è proprio come interprete di questi principi che la Famiglia Marovelli ha consolidato nel tempo di tre generazioni la sua reputazione di produttori non solo affidabili ma anche attenti e sensibili alla Storia e Tradizioni di una valle, la Garfagnana, stretta tra le cime delle Alpi Apuane e l’Appennino Tosco-Emiliano. Chapeau!
L'ITALIA NEL PIANO NUCLEARE DEL PENTAGONO
Comitato promotore della campagna #NO GUERRA #NO NATO
Italia
25 gen 2018
Il Nuclear Posture Review 2018, il rapporto del Pentagono sulla strategia nucleare degli Stati uniti, è attualmente in fase di revisione alla Casa Bianca. In attesa che sia pubblicata la versione definitiva approvata dal presidente Trump, è filtrata (più propriamente è stata fatta filtrare dal Pentagono) la bozza del documento di 64 pagine.
Esso descrive un mondo in cui gli Stati uniti hanno di fronte «una gamma senza precedenti di minacce», provenienti da stati e soggetti non-statali. Mentre gli Usa hanno continuato a ridurre le loro forze nucleari – sostiene il Pentagono – Russia e Cina basano le loro strategie su forze nucleari dotate di nuove capacità e assumono «un comportamento sempre più aggressivo anche nello spazio esterno e nel cyberspazio».
La Corea del Nord continua illecitamente a dotarsi di armi nucleari. L’Iran, nonostante abbia accettato il piano che gli impedisce di sviluppare un programma nucleare militare, mantiene «la capacità tecnologica di costruire un’arma nucleare nel giro di un anno».
Falsificando una serie di dati, il Pentagono cerca di dimostrare che le forze nucleari degli Stati uniti sono in gran parte obsolete e necessitano di una radicale ristrutturazione. Non dice che gli Usa hanno già avviato, nel 2014 con l’amministrazione Obama, il maggiore programma di riarmo nucleare dalla fine della guerra fredda dal costo di oltre 1000 miliardi di dollari.
«Il programma di modernizzazione delle forze nucleari Usa – documenta Hans Kristensen della Federazione degli scienziati americani – ha già permesso di realizzare nuove tecnologie rivoluzionarie che triplicano la capacità distruttiva dei missili balistici Usa».
Scopo della progettata ristrutturazione è, in realtà, quello di acquisire «capacità nucleari flessibili», sviluppando «armi nucleari di bassa potenza» utilizzabili anche in conflitti regionali o per rispondere a un attacco (vero o presunto) di hacker ai sistemi informatici.
La principale arma di questo tipo è la bomba nucleare B61-12 che, conferma il rapporto, «sarà disponibile nel 2020». Le B61-12, che sostituiranno le attuali B-61 schierate dagli Usa in Italia, Germania, Belgio, Olanda e Turchia, rappresentano – nelle parole del Pentagono – «un chiaro segnale di deterrenza a qualsiasi potenziale avversario, che gli Stati uniti posseggono la capacità di rispondere da basi avanzate alla escalation».
Come documenta la Federazione degli scienziati americani, quella che il Pentagono schiererà nelle «basi avanzate» in Italia ed Europa non è solo una versione ammodernata della B61, ma una nuova arma con una testata nucleare a quattro opzioni di potenza selezionabili, un sistema di guida che permette di sganciarla a distanza dall’obiettivo, la capacità di penetrare nel terreno per distruggere i bunker dei centri di comando.
Dal 2021 – specifica il Pentagono – le B61-12 saranno disponibili anche per i caccia degli alleati, tra cui i Tornado italiani PA-200 del 6° Stormo di Ghedi. Ma, per guidarle sull’obiettivo e sfruttarne le capacità anti-bunker, occorrono i caccia F-35A.
«I caccia di nuova generazione F-35A – sottolinea il rapporto del Pentagono – manterranno la forza di deterrenza della Nato e la nostra capacità di schierare armi nucleari in posizioni avanzate, se necessario per la sicurezza». Il Pentagono annuncia quindi il piano di schierare F-35A, armati di B61-12, a ridosso della Russia. Ovviamente per la «sicurezza» dell’Europa.
Nel rapporto del Pentagono, che il senatore democratico Edward Markey definisce «roadmap per la guerra nucleare», c’è dunque in prima fila l’Italia. Interessa questo a qualche candidato alle nostre elezioni politiche?
(il manifesto, 23 gennaio 2018)
Fabio Risolo si è laureato in Lettere e Filosofia all’Università Federico II di Napoli, ha insegnato a livello universitario ed è attualmente Dirigente scolastico. Autore di saggi di critica letteraria e poeta, dopo aver incontrato nel 1999 il Maestro e filosofo tibetano buddhista Chögyal Namkhai Norbu, su autorizzazione del Maestro, insegna l’esperienza della meditazione per la comunità di Merigar.
D – Agli inizi del suo approccio con il mondo della meditazione e della filosofia tibetana, cosa l’ha convinto che fosse la giusta via, e catturato al punto da volerne diventare insegnante?
R - Ciò che mi ha maggiormente colpito è che nell’Insegnamento Buddhista l’aspetto più importante è che il cammino spirituale non è separato dalla vita quotidiana. La cosa più importante è scoprire la propria natura essenziale e poi, grazie alla meditazione,mantenerne la presenza nella vita di tutti i giorni. Chi segue questo insegnamento cambia molto concretamente. E questo perché il Buddhismo non dà niente per scontato (esistenza di Dio, dell’anima, etc.), ciò che conta è farne esperienza concretamente dentro di noi. Ciò è più importante della fede astratta. Questi sono gli aspetti che mi hanno subito colpito molto.
Per quanto riguarda il desiderio di divenire Insegnante, questo è stato dovuto all’intenzione di aiutare, in base alle mie capacità, la Comunità Dzogchen di ChogyalNamkhaiNorbu di Merigar in Toscana, di cui sono discepolo da circa 20 anni. Ho pensato che se grazie a questo Insegnamento sono molto cambiato e ho una visione più ampia e completa della vita, potevo aiutare gli altri a fare altrettanto.
D – La vita e i ritmi di un uomo occidentale sono diversi e a volte opposti a quelli orientali, naturalmente non facciamo riferimento alle megalopoli e alla globalizzazione. Ci sono maggiori difficoltà ad accettare un approccio come quello proposto da questa filosofia, da parte degli occidentali?
R-L’insegnamento del Buddhismo comprende diverse vie. In generale possiamo dire che vi è la via del monaco e quella del laico. Ovviamente è un po’ difficile condurre una vita ascetica nel contesto delle grandi città in cui viviamo.Ma nell’insegnamento tantrico e in particolare nello Dzogchen non si chiede alla persona di rinunciare alla propria vita. Non è necessario divenire monaco e nemmeno vivere in un luogo appartato. Secondo lo Dzogchen possiamo scoprire la nostra natura essenziale in qualsiasi circostanza di vita esteriore; i punti di forza sono la presenza e la consapevolezza. Questo Insegnamento sembra proprio fatto apposta per gli occidentali…
D – Quali sono le fasce di età che nel corso della sua esperienza di docente, ha trovato più ricettive?
R - I giovani occidentali sono molto interessati e apprezzano dell’insegnamento buddhista la visione concreta e pragmatica, che può permettere di cambiare la propria vita nella direzione della presenza e della attitudine alla compassione.
D - E i Paesi in cui ha riscontrato più interesse?
R - In tutti i paesi europei ho riscontrato un notevole interesse.
D – Quali sono le tecniche meditative di base, e come si svolge in pratica una seduta di meditazione collettiva?
Le tecniche meditative di base che utilizziamo sono in realtà molteplici, ma il punto che le accomuna tutte è porre l’attenzione sulla propria mente, in modo da acquisire un’ attitudine di presenza e non distrazione. La cosa più importante è imparare ad osservare la mente, scoprendo le sensazioni, i pensieri, le emozioni che produciamo in ogni momento. Solo se acquisiamo questa capacità possiamo iniziare a “lavorare su noi stessi” nella direzione del rilassamento o del superamento di specifici problemi che possono di volta in volta manifestarsi.
D – C’è spazio per la musica durante le sedute, o si privilegia il silenzio?
R - Generalmente non facciamo uso di musiche. La meditazione può essere praticata in silenzio o pronunciando dei mantra.
D – In che modo queste tecniche possono veramente migliorare l’uomo, sia per quello che riguarda il benessere personale che l’approccio con “l’altro da sé” e con la natura?
R - Nella visione buddhista l’evoluzione spirituale dell’individuo porta naturalmente nella direzione della compassione e dell’amore verso “l’altro da sé e la natura”. Se si fa un’ autentica esperienza della propria natura essenziale diminuiscono le nevrosi e i conflitti col mondo esterno, e attraverso il rilassamento si scopre l’armonia.
D – Un consiglio e un augurio per i lettori?
R - Auguro ai lettori di avere il desiderio profondo di guardare dentro se stessi, scoprendo il seme della propria natura essenziale e di trovare la forza e il coraggio di intraprendere un cammino nella direzione della presenza e della consapevolezza, fondamentali per migliorare la nostra vita materiale e spirituale.
![]() |
Teheran |
I toni sproporzionatamente aggressivi del presidente degli Stati Uniti Donald Trump nei confronti dell'Iran riproducono una dinamica piuttosto ricorrente, soprattutto nelle fasi di transizione e assestamento dell'assetto geopolitico mondiale: i governi alleati di oggi sono i peggiori nemici di domani.
La questione del controllo delle potenze straniere sull'Iran emerse per la prima volta alla fine del XIX secolo, durante il regno degli ultimi shah della dinastia turkmena dei Qajar (che guidò il paese dal 1786 al 1925), in concomitanza con due processi concomitanti. In primo luogo, le idee che animavano il dibattito politico-ideologico europeo sui sistemi di governo costituzionali e sulle funzioni del Parlamento penetrarono gradualmente tra gli intellettuali, tra i funzionari e soprattutto tra ulema (clero sciita) e mercanti. Un processo favorito, oltre che dall'aumento dei contatti diplomatici ed economici con l'Europa, anche dalle attività degli intellettuali iraniani in esilio a Costantinopoli e a Calcutta. Infatti, nella seconda metà del XIX secolo, laici, riformisti e religiosi crearono società segrete e, tra XIX e XX secolo, anche organizzazioni la cui struttura era ispirata ai soviet russi. In secondo luogo, negli ultimi decenni dell'800, dopo la sconfitta francese contro la Prussia, le potenze europee dirottarono le loro rivalità al di fuori del vecchio continente, trasformando i conflitti per l'egemonia sull'Europa in una corsa al colonialismo imperialista. In tale contesto l'Iran divenne teatro dello scontro tra Gran Bretagna e Impero russo zarista, che se ne contesero il controllo ostacolandone lo sviluppo e “dirigendo” i cambiamenti socio-politici, persino quelli che, come la rivoluzione costituzionale, avevano tra gli scopi principali l'indipendenza.
Britannici e russi furono i primi istituti bancari iraniani, di cui il primo fu la britannica Imperial Bank of Persia, fondata nel 1889, che inizialmente aveva anche il diritto di sfruttare le risorse minerarie. Di poco successiva fu la fondazione, su iniziativa russa, della Banque des Prêts, poi chiamata Banque d'Escompte de Perse. La creazione di queste banche fu al contempo il risultato e la causa del crescente indebitamento nei confronti delle potenze occidentali degli shah Qajar, che con il loro dispendioso apparato dissestarono le finanze e l'economia del paese, riducendolo a una condizione di semi-colonia. Ad esempio, la fondazione della Imperial Bank of Persia fu autorizzata dallo shah Naser al-Din per pagare parte della cauzione stabilita dall'accordo per la concessione al barone britannico Julius de Reuter del controllo di strade, telegrafi, stabilimenti industriali e dell'estrazione di minerali (1872). Accordo che lo shah aveva dovuto annullare su pressione della Russia e dei cortigiani filorussi. Inoltre, dal punto di vista politico, uno dei problemi principali dei Qajar era lo scarso controllo del paese, per la tendenza a governare più secondo il modello dei capi tribù che secondo i criteri di una monarchia moderna. Basti pensare che l'unico esercito moderno in Iran era la Brigata cosacca, corpo di guardia della dinastia regnante, fondato nel 1879 e comandato da ufficiali russi fino alla rivoluzione bolscevica del 1917.
Anche per questo qualsiasi riforma fiscale per risanare il bilancio era difficile da elaborare e da attuare. Pertanto, nel 1897 il primo ministro iraniano Amin a-Dauleh si rivolse a una squadra di consulenti belgi guidata da Joseph Naus. Il cambiamento, che riguardò soprattutto tasse e dazi doganali, aumentò le entrate fiscali della monarchia iraniana (il successo valse a Naus addirittura la nomina a ministro), ma accrebbe anche il malcontento dei mercanti (per il timore di un aumento delle tasse) e dei cortigiani (gelosi dei loro privilegi). In Iran non esisteva una borghesia, ma la classe mercantile (i cosiddetti bazarì) alla fine del XIX secolo, grazie all'incremento dei commerci aveva conquistato un notevole peso all'interno della società. Perciò l'ostilità dei mercanti nei confronti della dinastia regnante fu determinante sia nella protesta del tabacco del 1891, sia nella rivoluzione costituzionale del 1906. Un contributo decisivo al successo di questi moti venne poi dagli ulema, il cui rapporto di interdipendenza con la monarchia si incrinò tra la fine del XIX e l'inizio del XX secolo. Ciò è da imputarsi in buona parte ai tentativi degli ultimi sovrani Qajar di “intromettersi” in settori chiave del potere religioso, quali l'istruzione e i tribunali.
La situazione esplose quando nel 1890 Naser al-Din concesse al maggiore britannico Gerald F. Talbot il monopolio sulla produzione, la vendita e l'esportazione di tabacco per cinquant'anni, in cambio di 15 mila sterline l'anno più un quarto dei profitti. Un accordo che distrusse il mercato locale di un prodotto molto popolare, quindi non solo colpì i mercanti, ma ridusse in miseria una parte consistente dei ceti più vulnerabili, che traevano sostentamento dalla coltivazione e dalla lavorazione del tabacco. Consapevoli di ciò, le autorità iraniane tentarono di mantenere segreta la concessione, ma un giornale fondato dalla diaspora iraniana a Costantinopoli diffuse la notizia. Quando la protesta dilagò tra i mercanti partendo da Shiraz, la guida religiosa di questa città, esiliata in Iraq, entrò in contatto con religiosi e intellettuali di origine persiana e convinse il leader sciita di Najaf a emettere una fatwa che vietasse il consumo e la vendita di tabacco. A causa del boicottaggio sistematico che questo divieto innescò, lo shah annullò la concessione.
Russia e Gran Bretagna intervennero nuovamente quando, nel 1896, Naser al-Din fu ucciso: la Brigata cosacca prese il controllo di Tehran, mentre sul trono fu insediato il figlio di Naser a-Din, Muzaffar a-Din. Al malcontento generato dalle riforme fiscali si aggiunse quindi la crescente preoccupazione per l'ingerenza straniera. Con il parere contrario della Russia, nel 1901 il nuovo shah concluse un accordo con il miliardario britannico William Knox D'Arcy: la Gran Bretagna avrebbe avuto il controllo delle riserve petrolifere iraniane per 60 anni, in cambio di 20 mila sterline e del 16% dei profitti. Nel 1909 i diritti passarono alla neo-fondata Anglo-Persian Oil Company, che nel 1935 divenne Anglo-Iranian Oil Company. La stessa compagnia fu accusata di monopolizzare i proventi del petrolio tenendo segreti i guadagni effettivi, quindi nazionalizzata nel 1952 dal Parlamento iraniano su impulso, tra gli altri, di Mohammad Mossadegh, poi eletto Primo ministro. Ciò innescò la serie di avvenimenti culminata con il colpo di stato che lo depose nel 1953, fu ordito dall'intelligence statunitense: l'Operazione Ajax stroncò l'opposizione laica allo shah Mohammad Reza, le cui violazioni dei diritti umani allora non preoccupavano Stati Uniti e Gran Bretagna.
La convenzione D'Arcy dunque accese ulteriormente il dibattito politico iraniano: tra gli intellettuali riformisti, religiosi e laici, si fece strada l'idea che solo un regime costituzionale, con un Parlamento, avrebbe posto fine all'arbitrio della monarchia, quindi alla dipendenza dell'Iran dalle potenze straniere. Un'ingerenza che preoccupava anche gli ulema, consolidando la loro alleanza con i mercanti e gli artigiani di Tehran e con gli intellettuali riformisti. La rivoluzione costituzionale del 1906 rappresentò quindi un salto di qualità nei metodi rispetto al boicottaggio del tabacco: durante gli scontri con le autorità, molti ulema si rifugiarono nei santuari di Qom, mentre migliaia di mercanti e artigiani chiesero protezione alla delegazione britannica, tutti portando avanti forme di protesta pacifiche organizzate. Lo shah convocò un Parlamento (formato da mercanti, religiosi, funzionari e latifondisti) e ratificò una Costituzione che limitava i suoi poteri, ma morì poco più di un mese dopo. Temendo che l'instabilità politica ostacolasse i loro interessi, Russia e Gran Bretagna conclusero un accordo per spartirsi le zone di influenza in Iran (1907): alle autorità locali rimaneva praticamente solo il controllo della regione centrale. Così, quando nel 1908 lo shah Mohammad Ali, con il sostegno della Brigata cosacca, tentò il colpo di stato per restaurare la monarchia assoluta, Londra e San Pietroburgo (quest'ultima inizialmente schierata con lo shah) intervennero direttamente. Costituzione e Parlamento furono ripristinati e lo shah abdicò in favore del figlio Ahmad, ultimo sovrano della dinastia Qajar.
Alla Gran Bretagna, che non voleva perdere il suo primato economico (in vista del quale il controllo politico era un mezzo), si aggiunsero nel 1910 gli Stati Uniti, che dal secondo dopoguerra tentarono in tutti i modi di imporsi in Medio Oriente, quindi anche in Iran, in funzione anti-sovietica. Basti citare L'Iran-Contras affaire (1985-1986), in cui fu coinvolto anche l'allora presidente USA Ronald Reagan, oltre alla già menzionata operazione Ajax del 1953, con la quale Gran Bretagna e Stati Uniti deposero il Primo ministro Mossadegh, anche organizzando contro di lui manifestazioni di protesta. Il pretesto fu il referendum per lo scioglimento del Parlamento e l'obiettivo era ripristinare il potere “legittimo” dello shah Muhammad Reza, ma il colpo di stato contro Mossadegh fu in realtà una mossa per evitare che il suo governo, sotto l'embargo britannico, intavolasse trattative con l'Unione Sovietica per il commercio del petrolio. Il risultato fu il logoramento delle forze politiche laiche che si opponevano all'arbitrio dello shah e alla subordinazione degli interessi iraniani a quelli di potenze straniere. Lo shah fu poi rovesciato dalla rivoluzione islamica del 1979: shah mat, scacco matto, ossia “il re (shah) è morto”, ma nella logica di potenza, morto uno shah se ne fa sempre un altro.
Frammenti che orbitano qua e là, individuati, carpiti; li commento e condivido con voi.
La Riflessione!
La prima notizia “sconvolgente”(sic!) del 2018 nel mondo del vino italiano è stata la nascita di una nuova associazione di sommelier. La “fecondazione dell’idea” dai soliti spermatozoi smaniosi che solitamente coabitano in altre realtà. Il “parto” avvenuto dalla rottura con la FIS (Fondazione Italiana Sommelier) guidata dal giornalista Franco Maria Ricci. La sigla? Assosommelier. Si tratta della Delegazione Umbra della Fis che ha annunciato, per bocca di Davide Marotta, eletto presidente della neonata associazione, di operare sia nella formazione professionale (corsi e master) quanto nella divulgazione del vino attraverso degustazioni ed eventi. La riflessione immediata: ma le altre associazioni presenti sul territorio ( una trentina tra nazionali, regionali, provinciali, comunali, parrocchiali ecc…) cosa fanno?
Frammento n. 1
Per chi ama i cosiddetti Vini Naturali
Genova, Palazzo della Borsa in Piazza De Ferrari, domenica 21 e Lunedì 22 gennaio, appuntamento con i banchi di assaggio dei produttori di “vini naturali” organizzati da Vinnatur. “Siamo molto affezionati a Genova – ha affermato Angiolino Maule, presidente di Vinnatur nel presentare l’evento – dove abbiamo già organizzato due banchi negli anni scorsi. Qui vi è una ristorazione illuminata che ha compreso come produrre vini naturali possa essere un modo per valorizzare la cucina ligure.” Genova consacrata da Maule come “capitale d’Italia dei vini naturali”. 70 produttori a rappresentare le regioni italiane insieme ad “amici di comprovata fede” provenienti da Austria, Francia, Italia e Slovenia.
Frammento n. 2
Anteprima Amarone
Da sempre l’evento annuale veronese da il via alla kermesse delle presentazioni anteprime della nuova annata messa in commercio secondo quanto disposto dai singoli disciplinari di produzione. Per l’Amarone si tratterà della presentazione della vendemmia 2013. E poi se ricordiamo che quest’anno si celebra il compleanno dei 50 anni della costituzione DOC Amarone della Valpolicella, l’evento è uno di quelli da non perdere per gli appassionati. Le date: Sabato 3, Domenica 4 e Lunedì 5 febbraio al Palazzo della Gran Guardia di fronte all’Arena. I viticoltori aderenti al Consorzio che da anni gestisce questa manifestazione, operano su 8 mila ettari di vigneto per una produzione di circa 13 milioni di bottiglie ( circa il 60% destinate all’export) con un fatturato che supera i 330 milioni di euro. Cifre che supportano un lavoro che viene svolto nelle tre aree distinte della Volpolicella identificate dal Disciplinare di produzione: quella Classica, la Valpantena e la Doc Valpolicella.
Frammento n. 3
Decanter spara la sua TOP 10 su gli sparkling.
Gli esperti incaricati da Decanter (due!), la nota rivista inglese che si contrappone a quella americana Wine Spectator, hanno sparato i loro giudizi sui migliori spumanti (sparkling, bollicine, perlage ecc…) individuati nelle produzioni in commercio nel 2017 presi tra quelli con un costo inferiore a 55 sterline. Qualità/prezzo. Fuori quindi i pezzi da 90 (francesi soprattutto ma anche italiani come Giulio Ferrari e Annamaria Clementi) e scelta tra 173 spumanti provenienti da tutto il mondo. Come dire: “facciamo una graduatoria degli spumanti di un Dio minore”. Tutto questo è stato pubblicato prima delle feste natalizie. La riflessione:”vuoi vedere che è stata una mossa per indirizzare i consumatori verso il consumo di alcune etichette?” Come affermava Andreotti: a pensare male degli altri si fa peccato, ma spesso si indovina.
Frammento n. 4
Il 2018 proclamato anno nazionale del Cibo Italiano
Iniziativa dei Ministri Franceschini e Martina. “Abbiamo un patrimonio unico al mondo – ha sottolineato il ministro delle Politiche Agricole Maurizio Martina – che grazie all’anno del cibo potremo valorizzare ancor di più. Dopo la grande esperienza di Expo Milano (alzi la mano se qualcuno la ricorda) l’agroalimentare italiano torna ad essere protagonista in maniera diffusa in tutti i territori” E giù statistiche, successi economici, record d’export e facce sorridenti di agricoltori, allevatori, pescatori, cuochi e vignaioli tratti da Alice nel paese delle meraviglie. La riflessione inevitabile: “è iniziata la campagna elettorale”.
Osservo, scruto, assaggio e…penso.
Altra “spallata”alla Sanità : togliere l’intramoenia dagli ospedali ed affidarla alle cliniche più grandi. Ma non solo, si va verso la Sanità gratuita per gli immigrati , mentre gli italiani pagano ticket e superticket. Dunque ,dopo la chiusura della guardia medica notturna e l’accorpamento dei medici di base, che dovrebbero essere disponibili fino alla mezzanotte ( cosa che avviene in rarissimi casi, ed il ministero della Salute se ne guarda bene da effettuare controlli ), ecco l’ennesimo colpo di genio della ministra Lorenzin, a cui le Regioni dovrebbero adeguarsi, e sembra che già la regione Lazio abbia dato l’ok.
La chiusura dell’intramoenia negli ospedali sarebbe dovuta alla mancanza di disponibilità di camere, per cui si è pensato, guarda caso,di chiamare in causa le grandi cliniche, proprio per far spazio all’intramoenia.
C’è da segnalare, inoltre, che non si costruiscono più ospedali e, bene che vada, si mette qualche pezza a quelli già esistenti.
Poi si rileva che i pronti soccorso sono ridotti al lumicino , quanto a personale e posti letto.
E così i pazienti rimangono a lungo sulle barelle della Croce Rossa, a sedere, od addirittura sdraiati per terra.
Basti pensare che al S. Spirito di Roma, a due passi dal Vaticano, grazie ai tagli, al pronto soccorso operano quattro medici ed un radiologo, mentre l’otorinolaringoiatra è presente in ospedale solo due ore,dalle 8,30 alle 10,30, per poi proseguire in altre strutture sanitarie.
Ed anche al fate Bene Fratelli, le cose non vanno meglio. Manca l’otorinolaringoiatra, ma all’occorrenza, se necessita c’è una lista di specialisti da chiamare per trovarne uno disponibile.
Dunque, la Sanità pubblica è “alla frutta”, eccettuate alcune eccellenze, soprattutto private, come il Gemelli ed il Bambin Gesù.
Certo è che i medici ospedalieri, oltre che insufficienti sono anche mal pagati. Si pensi che uno specialista con un’esperienza trentennale percepisce 3.200 euro al mese, spesso con sovraccarichi di lavoro.
Di contro, se la prendono comoda i medici di base, che percepiscono, per chi sfiora i 1500 pazienti, oltre 10.000 euro al mese. Una follia per ciò che fanno, meglio, per ciò che non fanno, senza alcuna responsabilità, e con orari esterni che nessuno controlla. Nella sostanza, il medico di base prescrive lo specialista e le ricette, a partire da aspirina e tachipirina come soluzione di ogni male.
Capita così di avere un dolore al fegato e dal cilindro magico esce la prescrizione di un’aspirina. Oppure si dice che il naso sanguina copiosamente da alcuni giorni, e si prescrive l’otorinolaringoiatra, quando invece si tratta di una piccola rottura all’aorta nasale, dovuta all’alta pressione. Ma di misurarla, anche su richiesta del paziente, non se ne parla.
Infine, orari di studio sempre più risicati e su appuntamento, perché il resto del tempo serve per effettuare le visite a casa. Di chi? Non esiste un elenco di chi si è andato a visitare, così anche in caso di un eventuale controllo, non si sa dove il medico si è recato.
Conclusione: la Lorenzin prima se ne va e meglio è per tutti.
Il Qatar a caccia di ospedali italiani di eccellenza. Ora nel mirino anche il Gemelli di Roma, dopo l’acquisto dell’ospedale sardo Mater Olbia ( 1,2 miliardi).
Perché un ospedale di eccellenza, oltre che render bene da anche la possibilità di poter effettuare scambi con altri principali ospedali esteri e centri di ricerca collegati. Tant’è che per lo sviluppo dell’ospedale di Olbia, i primi 100 assunti dovranno parlare correttamente due lingue.
E la Sanità italiana è piena di eccellenze, come è anche piena di imboscati e nulla facenti, come troppo spesso accade per i medici di base, lavativi, senza responsabilità, e senza controlli, pur toccando cifre da capogiro, tra stipendio ed indennizzi vari ( anche oltre 10 mila euro al mese).
Fatto è che la ministra Lorenzin, ha tagliato drasticamente nel settore della Sanità, ad iniziare dai posti letto e medici specialisti, per cui il pronto soccorso è al collasso. Capita sempre più spesso, a partire da Roma, che non ci siano posti dove ospitare i malati, ne medici sufficienti per curarli.
Infine non si programmano né si costruiscono nuove strutture ospedaliere, per cui si assiste anche allo scandalo dell’ex Forlanini ( attaccato al S. Camillo) che invece di essere ricostruito lo si lascia nel degrado più totale, come dormitorio per i senza fissa dimora oltre che per cani e gatti abbandonati.
Ed a forza di tagli del personale sanitario, capita che al S. Spirito di Roma, se un ricoverato ha problemi con naso, orecchie o gola, non può essere visitato, perché l’otoringoiatra non c’è. E’ presente solo due ora la mattina dalle 8 alle 10, poi si fa il giro di altre strutture sanitarie. Come anche al Fate Bene Fratelli, dove lo specialista in questione non esiste, ma sull’urgenza c’è sempre qualcuno che viene. Questo “parto” scriteriato per far ammalare definitivamente la Sanità pubblica, oltre alla Lorenzin, porta anche la firma di Zingaretti. E così, per esempio, le strutture dei pronto soccorso gravano tutte su medici insufficienti all’accoglienza. E per dare l’idea di che cosa stiamo parlando, al S. Spirito i medici addetti al pronto soccorso sono in tutto cinque, con una media di 120 pazienti al giorno. Di questo passo si potrebbe andare avanti nella descrizione dei misfatti della Sanità pubblica, che così viene diretta tra le braccia di quella privata.
![]() |
Isabel Russinova - foto Sergio Battista. |
«Uomo, sei capace d’essere giusto? È una donna che ti pone la domanda; tu non la priverai almeno di questo diritto. Dimmi: chi ti ha concesso la suprema autorità di opprimere il mio sesso? La tua forza? Il tuo ingegno? Osserva il creatore nella sua saggezza; scorri la natura in tutta la sua grandezza, di cui tu sembri volerti raffrontare, e dammi, se hai il coraggio, l’esempio di questo tirannico potere”: Isabel Russinova porta in scena Olympe de Gouges.
Si chiamava Marie Gouze, ma decise del proprio destino e del proprio nome che cambiò in Olympe de Gouges. Un’eroina dimenticata condannata per aver difeso libertà e donne.
L’ultima frase pronunciata, prima di essere ghigliottinata, da Olympe de Gouges fu: “Le donne avranno pur diritto di salire alla tribuna, se hanno quello di salire al patibolo”.
E’ lei la protagonista dell’ultima fatica teatrale di Isabel Russinova, che in quest’occasione è sia protagonista che autrice. La Russinova infatti le ha dedicato un testo: “La viaggiatrice con le ali”, andato in scena in prima nazionale al teatro Flaiano di Roma, che sarà ripreso in tournèe nelle maggiori città italiane.
Nata nel 1748, nella città di Montauban, nel sud ovest della Francia, Olympe de Gouges fu ritenuta colpevole di aver criticato la deriva illiberale che aveva assunto la Rivoluzione Francese degenerata in terrore, e di essersi battuta per i diritti delle donne e di tutti coloro che avevano subito ingiustizie. Una vera e propria martire del libero pensiero.
In vita fu autrice raffinata di testi teatrali, sempre combattiva contro i pregiudizi e la censura della libertà di pensiero, osò proporre alla Francia di scegliere fra tre forme di Governo: Repubblicano, Federale e Monarchico. Per questi motivi fu condannata a morte.
Isabel Russinova le ha dedicato: “La viaggiatrice con le ali”, andato in scena con successo al Teatro Flaiano a Roma. “Quando entri nella storia della sua vita – afferma l’autrice - quando leggi i suoi testi, i suoi documenti, percepisci il battito del suo cuore, un cuore di donna moderna, coraggiosa, volitiva, sensibile e sensuale, senti l’urgenza di raccontarla, di far rivivere la sua energia che è ancora presente, pronta per essere ascoltata e offerta alle nuove generazioni e alle donne del nostro tempo”. Non è la prima volta che la Russinova, da sempre sensibile a tematiche sociali e culturali legate alle problematiche dei diritti umani – tra l’altro è testimonial ufficiale di Amnesty International Italia – propone sulla scena personaggi del genere riconducibili alla storia, ma anche alla contemporaneità. Non è casuale la scelta di voler parlare di Olympe: la sua originalità, la sua indipendenza di spirito, i suoi scritti audaci e la sua onestà intellettuale ne hanno fatto una delle più belle e interessanti figure umaniste della fine del Settecento.
Nel corso della sua vita Olympe firmò 29 romanzi e scritti vari, 71 pièce teatrali, 70 fra libelli rivoluzionari e articoli. È ricordata principalmente come autrice della Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina (1791) in relazione alla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (1789), che scrisse affinché venisse approvata dall’assemblea costituente.
Olympe si dedicò strenuamente al tema dei diritti e della libertà individuale: al riconoscimento dei diritti delle donne, ma anche dei neri, degli orfani, degli anziani, dei disoccupati, dei poveri. Si proclamò a favore della democrazia rappresentativa, respinse il dispotismo e le torture. La sua spiccata vena pubblicistica e comunicativa era congeniale al tempo della Rivoluzione, e carica di novità. Ciò non impedì che nel 1793 venisse ghigliottinata.
Madame de Gouges avrebbe desiderato che la rivoluzione fosse fatta senza spargimenti di sangue, dopo il 25 agosto 1792 scrisse La fierté de l’innocence, ou le silence du véritable patriotisme, in cui si pose come avversaria della ghigliottina. Nell’ottobre 1792 attaccò il manifesto intitolato Pronostic sur Maximilien Robespierre, par un animal amphibie. Per lei egli era “un obbrobrio”, lo considerò distruttivo, vampiresco, lo esortò a «fuggire il grande giorno, che non era fatto per lui». Ma nonostante la grande partecipazione femminile alla rivoluzione, nell’aprile 1793 la convenzione dichiara che le donne non hanno lo statuto di cittadine.
Nel giugno 1793, presagendo il peggio, Olympe rende pubblico il suo Testament politique, fa affiggere il manifesto Le trois urnes ou le salut de la Patrie par un voyageur aérien nel quale propone un referendum popolare per scegliere una forma di governo tra quella repubblicana, federativa e monarchica. Questo scatena le accuse del Tribunale rivoluzionario. La sua casa viene perquisita e sparsi i suoi scritti. Al processo dirà: «Sono donna, temo la morte, ho paura del vostro supplizio, ma non ho confessioni da fare, dall’amore per mio figlio trarrò il mio coraggio».
Nel 1793 vengono ghigliottinati 21 girondini e Maria Antonietta. Olympe viene privata di avvocato, afferma di essere incinta, ma non le si crede. Il Tribunale la ritiene colpevole di aver attentato alla sovranità del popolo. In prigione scrisse al figlio: «Muoio mio caro figlio, vittima della mia idolatria per la Patria e per il popolo…muoio innocente» (il figlio non ricevette la lettera che fu confiscata da Fouquier-Tinville). Il 3 novembre 1793 fu ghigliottinata.
La viaggiatrice con le ali è un racconto per il teatro e un viaggio nell’anima. Intensa e toccante l’interpretazione che la Russinova dà a questa eroina, coadiuvata dalla regia attenta di Rodolfo Martinelli Carraresi. Il testo sarà pubblicato quest’anno, in occasione dell’anniversario della nascita di Olympe, dalla Curcio Editore.
Lo spettacolo è stato presentato in anteprima all’interno della rassegna Quartieri Contemporanei e in prima assoluta lo scorso Dicembre a Roma, al Teatro Flaiano, nell’ambito della rassegna dedicata ai diritti umani, T.E.H.R., patrocinata da Amnesty International Italia e dall’Università Roma Tre. Continuerà il suo percorso nei maggiori teatri nazionali ed internazionali, anche come movie theatre, pubblicato da DNA home video.
![]() |
Aleksey Navalny |
Novità elettorale natalizia in Russia, protagonista Babbo Natale. Il partito ''Russia Unita'' ha pubblicato un video dove una bambina chiede a Babbo Natale di far vincere le elezioni a Vladimir Putin, ciò mentre proprio la Commissione elettorale centrale del Cremlino aveva accusato Aleksey Navalny, oppositore di Putin, di usare bambini per i suoi scopi elettorali.
Nel video la bambina chiede a BABBO NATALE di far diventare presidente Vladimir Putin, la scena si svolge proprio mentre scorrono immagini di Putin che parla in televisione, e promette che se verrà esaudito questo suo desiderio non chiederà altro a Babbo Natale e questi gli risponde che ha già ricevuto molte richieste del genere.
Come accennato in precedenza le autorità avevano accusato Alexei Navalny di usare e ingannare i giovani. Motivo di tali accuse le proteste del 26 marzo e del 12 giugno scorso nelle quali migliaia di
![]() |
VIDEO |
giovani sono scesi in piazza. In seguito a ciò il Consiglio della Federazione Russa ha presentato una proposta di legge per impedire ai minori di partecipare a manifestazioni non autorizzate.
E’ iniziata la campagna elettorale in vista delle elezioni del 18 marzo 2018 e Vladimir Putin non avrà rivali, vari sondaggi lo danno al 55-63% di consenso, cosa che gli permetterebbe di rimanere alla guida del paese fino al 2024.
In questi ultimi tempi il principale oppositore di Putin e' stato Alexey Navalny , fondatore del Partito del Progresso, protagonista di molte manifestazioni nel paese e, proprio a causa di queste manifestazioni non autorizzate e alcune vicende finanziarie, è' stato condannato per due volte, ciò che gli ha precluso il permesso ad essere candidato. In seguito a ciò ha tentato di raccogliere le 300.000 firme richieste per la candidatura, ma è stato nuovamente arrestato e la sua esclusione dalle elezioni e' stata confermata definitivamente dalla Corte Suprema.
Gli altri partiti per queste elezioni sono il Partito Comunista di Gennadij Zyuganov. Sfiorò la vittoria nel 1996 contro Boris Yeltsin, ma nelle successive elezioni sono arrivate solo sconfitte. Negli ultimi tempi si sta cercando di ringiovanirne la classe dirigente. Per il momento il candidato che dovrà essere il premier è ancora in lista di attesa.
Il partito liberale che punterà ancora su Vladimir Zhirinovsky, i socialdemocratici avranno come leader Sergey Mironov, i verdi Anatoly Batashev, i comunisti di Russia Maxim Suraikin e il partito di centro sinistra Yabloko, Grigory Yavlinsky. C'e' anche un partito monarchico a memoria dell'impero russo e sarà guidato da Anton Bakov.
Altri nomi in odore di candidatura sono il vice primo ministro Dmitry Rogozin, la giornalista Irina Prokhorova, l'attore Ivan Okhlobystin e un volto televisivo, Ksenia Sobchak.
![]() |
Putin con il card. Parolin |
In questi ultimi tempi molti media parlano di un possibile viaggio di papa Francesco a Mosca, sembra che il Vaticano stia preparando questa ipotesi. Ultimamente tra Vaticano e Putin esiste una nuova politica, soprattutto per quanto riguarda quella estera, e nel messaggio di fine anno di auguri ai leader mondiali Putin ha sottolineato nella missiva indirizzata alla Santa Sede: “che la speranza del dialogo costruttivo per proteggere la pace e i valori umani tra Russia e Vaticano continui ”.
Le visite di Putin in Vaticano, le telefonate con Papa Francesco, hanno creato relazioni di fiducia, ha dichiarato Alexander Avdeev l'ambasciatore russo presso il Vaticano e prelude ad una visita del pontefice in Russia.
Naturalmente sarà interessante anche l'incontro con il Patriarca Kirill, già incontrato il 12 febbraio nel 2016 a Cuba e quella data fu già di per se un evento storico: la chiesa d'occidente e quella d'oriente si divisero nel grande scisma del 1054.
Nel 2017 ci sono stati degli avvenimenti importanti per le relazioni tra Vaticano e Russia e ciò rende sempre più probabile il viaggio di Papa Francesco a
![]() |
Reliquia di San Nicola Bari |
Mosca. Nel maggio scorso, dopo 930 anni, la reliquia di San Nicola dalla Cattedrale di Bari ha raggiunto la capitale russa e in agosto c’è stata la visita del Cardinale Pietro Parolin che ha incontrato il Patriarca Kirill e Putin.
Tutto ciò fa pensare che il 2018 sarà l'anno di Papa Francesco e Putin, oppure sarà un anno che rimarrà nelle date della storia, e cioè del riavvicinamento tra chiesa cristiana e chiesa ortodossa ....staremo a vedere
Dovremmo smetterla di aiutare i paesi del Terzo Mondo, quelli in via di sviluppo, smettere di ”aiutarli a casa loro”, per lo meno non con il modo spesso portato avanti finora.
Smetterla di approntare “missioni di pace”, avvallate dall’ONU, supportate dai caschi blu, far passare convogli di aiuti umanitari e a seguire tonnellate di bombe, cibo in scatola e milioni di mine antiuomo, supporto logistico e fiumi di armi.
Dovremmo smetterla di indignarci, quando scopriamo che il nostro Ministero della Difesa, allora presieduto dalla signora Pinotti, non andava propriamente a intrattenere “relazioni diplomatiche” con l’Arabia Saudita. Improvvisamente svegliarci un mattino e candidi come un fiocco di neve esclamare indignati…”Oh ma che schifo in Yemen! Bombe italiane che hanno ucciso bambini”
Smetterla, perché la stessa identica cosa avviene da anni in Palestina con le forniture Beretta, Melara, Finmeccanica ecc.
Smetterla di sorprenderci se con quelle stesse armi, in Palestina, qualcuno sparerà alle ginocchia dei bimbi, così da renderli infermi, oppure farà fuoco mirando ai genitali degli uomini, affinché non si possano riprodurre, o ancora piangere quando nei raid israeliani sui campi profughi i civili vengono uccisi con i Mangusta di produzione tutta italiana.
Smetterla di far finta di non sapere che l’Italia da anni è il maggiore esportatore dell’Unione Europea di sistemi militari e di armi leggere dirette verso Israele, con medie di 500 milioni di euro l’anno per esportazione di sistemi militari (dati del Rapporto UE).
Smetterla di dirci “italiani brava gente”, quando da tempo siamo nella “top ten” mondiale dei paesi che esportano più armi. Vicini ai 15 miliardi di forniture d’armi nel 2016, un fatturato raddoppiato dal 2015, e quadruplicato dal 2014, dove oltre il 60% delle nostre armi sappiamo bene finirà in paesi fuori dall’Unione Europea e dalla NATO, paesi coinvolti in guerre, in stermini di massa, in omicidi di Stato.
Smetterla di lavarci la coscienza scrivendo “Verità per Giulio Regeni”, quando siamo legati da anni all’Egitto con tutti i tipi di forniture commerciali, quella di armi in primis fra tutte.
Smetterla di piangere mano sul petto e posa solenne i nostri militari morti all’estero, quando poi in Iraq a Baghdad e a Nassiriya, i terroristi sparavano contro i nostri carabinieri con delle armi Beretta.
Magari stupirci se scopriremo un giorno che, nella “missione umanitaria” italiana in Niger, oltre alla lotta al traffico di esseri umani e al terrorismo internazionale, indisturbato qualcuno con le armi faceva affari.
Sì, per compassione, se non per coerenza, bisognerebbe smetterla una buona volta, dal momento in cui la stessa identica cosa avveniva in Bosnia e in tutta la Ex-Jugoslavia, già 25 anni fa, nell’estate del 1993: da una parte migliaia di volontari civili venuti da tutto il mondo, in marcia verso Sarajevo e Mostar, tentando di riallacciare il dialogo fra le popolazioni, istituire una tregua, porre fine alla guerra, mentre dall’altra i governi europei, la NATO e l’ONU realizzavano e proteggevano a suon di bombe sganciate dal cielo, “corridoi umanitari” non tanto per garantire una via di fuga alle migliaia di profughi e disperati, bensì il passaggio delle merci, di tutti i tipi di merci, specie quelle con cui si alimentano le guerre. Era il 7 di agosto del 1993, sulla strada che va a Sarajevo, col sottofondo di cicale in amore, quando la radio gracchiò: di qua c’eravamo noi volontari civili, a migliaia in ascolto, dal cui passaggio nasceva una miracolosa quanto fragile tregua, dall’altra parte della nostra radio da campo, Umberto Playa, Responsabile Unità di Crisi del Ministero degli Esteri, concitato ci avvisava, su delega Farnesina, di fermarci, che dovevamo arrestare subito la marcia di pace, che di ora in ora il nostro proseguire diventava sempre più pericoloso. A seguire, l’allora Ministro degli Esteri, ci informò che la Nato il giorno dopo e quello ancora successivo avrebbe effettuato un “bombardamento dimostrativo” poco più avanti, proprio lungo la strada che ci avrebbe condotto a Sarajevo e difatti il “bombardamento amico” poco più avanti,il giorno seguente avvenne.
Fu così, che l’allora marcia della pace “Mir Sada”, con la fragile tregua al suo passaggio, si arrestò.
Quel giorno fummo in molti a perdere come un senso di verginità interiore, un candore che ci faceva sentire “buoni” e a capire che eravamo noi occidentali, con le nostre bombe e le nostre armi, i “cattivi” . Fummo allora ingenui testimoni di eventi di guerra e del traffico d’armi e vite umane, lo stesso che ha poi contraddistinto tutti gli anni a seguire, fino ad oggi.
Anche Padre Albino Bizzotto, fra i promotori della marcia, gridò allora di smetterla. In quel giorno caldo e riarso dal sole, in un campo, Albino prese coraggio e voce, e con l’amaro in bocca e lo sguardo abbassato disse: “Le condizioni in questo momento non ci permettono oggettivamente di passare senza il sacrificio sicuro di qualcuno di noi. E’ arrivato il momento, non soltanto di chiedere aiuto, ma di chiedere con determinazione, di pretendere, dai nostri governi e dalla Comunità Internazionale, di assumere la responsabilità perché siano garantiti i nostri diritti umani elementari. Noi non accettiamo, che vengano difese le merci, che possano passare le merci, e invece le persone portatrici di pace non abbiano la possibilità e il diritto di passare.”
Ancora prima di Albino in questi stessi giorni nel dicembre di 34 anni fa, ci fu un giornalista che ci diceva di smetterla di pensare che la Mafia fosse un problema del Sud, uno di quei giornalisti veri, che il proprio lavoro lo faceva bene, con passione e fino in fondo.
Un giornalista siciliano, che autofinanziato con fondi propri aveva realizzato un giornale indipendente, “I siciliani”, dove era apparsa un’inchiesta scottante. Aveva fatto nomi e cognomi degli allora esecutori mafiosi, collegandoli poi ai mandanti, alle teste pensanti di uno Stato di mafia, insediati ormai da anni fra le più alte cariche del paese Italia e non solo.
Non possiamo ora stupirci, quando di fronte a Enzo Biagi, nella sua ultima intervista, oltre 30 anni fa, un giornalista indipendente, già ci ammonì: “Mi rendo conto che c’è un’enorme confusione sul problema della mafia. I mafiosi stanno in Parlamento, i mafiosi a volte sono ministri, i mafiosi sono banchieri, i mafiosi sono quelli che in questo momento sono ai vertici della nazione. Non si può definire mafioso il piccolo delinquente che arriva e ti impone la taglia sulla tua piccola attività commerciale, questa è roba da piccola criminalità, che credo abiti in tutte le città italiane, in tutte le città europee. Il fenomeno della mafia è molto più tragico ed importante; i mafiosi non sono quelli che ammazzano, quelli sono solo gli esecutori.” […] “I mafiosi sono quelli che stanno ai livelli più alti e incensurati. Un’organizzazione che riesce a manovrare 100.000 miliardi l’anno (delle allora lire) più del bilancio annuale dello Stato Italiano, è in condizione di armare degli eserciti, è in grado di possedere delle flotte, di avere un esercito proprio, e di fatti sta accadendo che la mafia si sia pressoché impadronita almeno in Medio Oriente del commercio delle armi, del mercato delle armi. Diciamo che di questi centomila miliardi di giro, un terzo circa resta in Italia e allora bisogna pure impiegarlo in qualche modo… bisogna riciclarlo, ripulirlo, reinvestirlo e allora, ecco le banche, le nuove banche, questo pullulare, questo proliferare di banche nuove ovunque, servono apposta per riciclare. Il Generale Dalla Chiesa lo aveva capito, Dalla Chiesa aveva avuto questa grande intuizione, quella che lo portò alla morte; intuì che era dentro le banche che bisognava frugare, che lì c’erano decine di migliaia di miliardi insanguinati, che venivano immessi dentro le banche e che ne uscivano per andare verso opere pubbliche. La mafia non è più un problema siciliano e nemmeno italiano, ma europeo.”
Quel giornalista si chiamava Giuseppe Fava, pochi giorni dopo aver rilasciato l’intervista, il 5 gennaio del 1984, pagò con la vita proprio perché fece bene il suo lavoro.
Siamo arrivati al 2018. Forse sarebbe l’ora di smetterla con le armi.
Per gentile concessione dell'agenzia di Stampa Pressenza
Apr 08, 2022 Rate: 5.00